Arte e Poesia di Antonina Grassi |
1° copertina
Il Convivio Editore - Via
Pietramarina-Verzella, 66 |
Prefazione Con L’infinito dimenticato Antonina Grassi si inserisce in un percorso di riappropriazione che si basa, essenzialmente, su un infinito che si è smarrito e che la poetessa riacquista attraverso la memoria e la riflessione. Ri appropri arsi di ciò significa, in definitiva, conquistare la vita stessa, rimanere incantati di fronte all’alba che sopraggiunge alla notte e che ridona luce. Si tratta di una condizione gnoseologica in cui la parola ha un ruolo fondamentale, perché Vauctor si pone come vate, come errante cieco che si affaccia al nulla. Questa figurazione è emblematica perché ridà al verso la sua funzione “omerica” di conoscibilità e sapienzialità: «Rami quasi spogli / accanto ai miei occhi, / solo poco più avanti / nebbia offusca / il mio conosciuto. / Guardo come l’errante cieco / il nulla assoluto. / ... Attenderò, allora, / il raggio del sole / per ritrovare / l’infinito dimenticato» (Alla finestra)». La condizione di oblio, o nullità, non è espressione di annientamento, ma si associa al mondo quale manifestazione di salice piangente. Tuttavia il sentimento e la memoria rendono vive le cose perdute. Una lirica, come Riscoprirsi, permette di cogliere più chiaramente il diaframma in cui si inserisce la dialettica esistenziale. Difatti il viatico è principalmente intimo in quanto l’infinito citato nel titolo possiede una solida base interiore, tanto che per appropriarsene bisogna guardare nell’io, tuttavia è un infinito che coinvolge tutti, che ha un suo carattere fisico, ma anche metafisico. L’uomo, dall’altro lato, è chiuso in un bozzolo di incomprensioni e di false illusioni. Il procedimento, quindi, è quello pirandelliano del mascheramento e dello svelamento: «...si supera tutto / anche / il più grande dolore. / L’uomo si crea / corazze da indossare, / forse, / finge di vivere» (Constatazione)».% |
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Tolta la maschera all’uomo, esiste una via del ritorno attraverso la quale si può percepire appieno la sua umanità. Ecco, dunque, che riavvicinarsi alla natura, e quindi a sua volta identificare le cose perdute buttando via la finzione, significa accedere nuovamente alla propria umanità: «Nascosto fra alberi / e arbusti, un barbagianni / mi richiama, ed io, / unico animale umano, / seduta sul sentiero, / mi aggrappo a questi scogli / per non essere l’unico / “animale” intruso / in questa terra» (Animali)». La consapevolezza della solitudine, del dolore e della negligenza umana non sono caratteristiche esclusive, perché il ritorno al Sé è una lotta per la vita, è una difesa dell’esistenza. In questa ottica possiamo leggere l’attualizzazione, bellissima, che la poetessa fa di uno dei paragoni classici della letteratura mondiale: l’uomo e la foglia. Scrive: «Quante foglie morte a terra, / siamo alle soglie dell’inverno. // Quanti saluti a quelle foglie / che nonostante tutto / han voglia di volare...» (Foglie morte). Si riscopre il desiderio intimo e segreto della vita a tutti i costi, anche di fronte alla morte. Non bisogna, difatti, sottovalutare un ultimo elemento, ovvero la conclusione della silloge stessa con la parola “luce”. La dialettica trova una sintesi nella speranza, sebbene questo percorso non sia definitivo, perché la vita e la poesia ponderano anche l’imprevedibilità: «Figure eteree / varcano l’onda del suono... / angeli atti a cingere, / in abbracci, / nel silenzio della luce...» (Nell’oltre). Giuseppe Manitta |
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DUE
NOVEMBRE DUEMILAQUINDICI
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