ARMANDO DE SANTI
(Balilla) |
La ceramica Di Armando De Santi Fra gli anni Cinquanta e Sessanta De Santi realizza due progetti particolarmente impegnativi di opere ceramiche, che unitamente alla modellazione della forma sono espressione della sua sensibilità pittorica e della sua capacità strutturale-architettonica. Si tratta di due opere di carattere liturgico: l'altare maggiore per la Chiesa di San Bartolo a Urbino e il fonte battesimale per la chiesa di Santo Stefano a Monte San Giusto. Il primo, del 1955, commissionato dal parroco Don Dante Lucerna, sacerdote sensibile e colto, fu pensato come una grande arca, tale da esprimere il senso della tomba e della mensa eucaristica attraverso la severa struttura ad archi, che racchiudevano mattonelle decorate rappresentanti al centro l'angelo reggicroce, ai lati la Vergine annunciata e l'angelo, alle estremità, a sinistra San Bartolo, a destra San Crescentino. Il gradino, nella parte che si sviluppava ai due lati del tabernacolo, presentava, racchiuse da una cornice vivamente colorata e ricca di modanature, una serie di formelle effigiate con i simboli più noti della tradizione cristiana: il Buon Pastore, il Cristo sofferente, i pesci, il pane e l'uva, il pellicano, mentre nella parte che si prolungava ai fianchi dell'altare offriva alla vista le colombe e i cervi alla fonte, immagini desunte dai Salmi dell'Antico Testamento. |
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L'altare è stato scomposto intorno agli anni Sessanta a causa delle innovazioni liturgiche portate dal Concilio e solo nel 1986 è stato recuperato (ad opera di Don Enzo Severini, di Antonio Antonelli e Renato Bruscaglia) e ricostruito secondo schemi più semplici; non è stato possibile, tuttavia, reintegrare l'apparato architettonico, andato perduto durante le fasi di smontaggio. Le bellissime figure, smaltate nei colori più imprevedibili che nascono al fuoco della cottura, sono impaginate in una rigorosa verticalità secondo i moduli espressivi cari a De Santi, la cui tormentata sensibilità è molto vicina alla tradizione fiammingo-tedesca e manierista più che a quella classica e rinascimentale. Il guerriero, protettore di Urbino, si avvita su se stesso nello sforzo di vincere il drago infitto dalla sua lancia, il San Bartolo martirizzato aggredisce l'occhio del fedele con ilsegno tormentato e arrovellato, che definisce la sua anatomia messa a nudo. Gli svariati pezzi della complessa costruzione furono cotti nel primo forno che l'artista riuscì a realizzare nel giardino della sua casa, in via del Fiancale. Un'impresa, questa della costruzione del forno, che ha della leggenda, per il fatto che De Santi ha prodotto il tutto artigianalmente in un'epoca in cui la meccanizzazione aveva sostituito l'artista e l'artigiano per quanto attiene l'invenzione degli utensili e degli strumenti. Dapprima si poneva il problema dello studio accurato delle modalità di costruzione del forno, che doveva reggere a temperature altissime, e non potendo usufruire dei mattoni refrattari prodotti industrialmente, per ovvie ragioni economiche data la giovane età, l'artista utilizzò materiale di recupero che si procurò sottraendolo anche ai vicoli di Urbino, lastricati con mattoni adatti all'uso perché molto ricchi di ferro. La prima cottura non dette i risultati sperati, causa di ciò era l'errata posizione della sede del fuoco, che deve abbracciare in ogni sua parte la "muffola", il luogo cioè dove vengono collocate le ceramiche e da questa deve trovarsi alla distanza giusta per ottenere un riscaldamento omogeneo e costante delle pareti. Apportate le modifiche necessarie, l'attenzione si concentrò nell'utilizzo del legname più adatto, le fascine che assicuravano un fuoco dolce e asciutto erano quelle dei fornai in modo da creare un ambiente di cottura non "ossidante" ma "riducente". Pubblicate nelle edizioni Nobili di Pesaro del 1879, in margine a I tre libri dell'Arte del Vasaio di Cipriano Piccolpasso, le Notizie del Canonico Andrea Lazzarini riferiscono fra le altre informazioni sulla tecnica ceramica Della maniera di fare il foco alla fornace e la narrazione non si discosta molto da quella di De Santi: «II fuoco si ha da fare con legna ben secca, leggerissima quanto si può, atta per fare la fiamma chiara, e perciò per far meglio si adoprano fascine. Tali sarebbero per esempio fascine di salcio, di albuccio, e simili. Si principia con picciol fuoco per mezz'ora in circa, e le prime fascine si abbruciano vicino allabocca senza cacciarle troppo indentro. Poi a poco a poco si va accrescendo, mettendovi su, per esempio, nella data proporzione di quella fornace ecc. una intera fascina per volta. Bisogna avvertire che la fiamma non cessi mai; ond'è che se per sorte manca colui che fa il fuoco, bisogna che un altro vi sottentri subito. La fornace, che si da colle assegnate misure, porta per ordinario dieci in dodici ore di fuoco. Quando si avvicina la decima ora in circa, si osservino le mostre [piccoli dischetti di ceramica che servono per la prova di cottura], se ne estrae una o due, e si getta nell'acqua fredda, acciò si raffreddi subito, né importa se l'acqua fa subito andar in pezzi le mostre; basta solo, che si possa toccare il pezzo della mostra dov'è il coloredipinto, per sentire se questo ha bene spianato, e allora è cotta la fornace, e bisogna subito far cessare la fiamma, ed estrarre il fuoco acciò la cottura non passi». Il lavoro del ceramista è costellato da una grande quantità di accorgimenti pratici e i risultati sono necessariamente la conseguenza di una certa abilità nelle scelte, in questo senso l'artista attuale non è altro che l'erede di una grande tradizione, di cui una testimonianza ci è offerta dallo stesso Piccolpasso che da inizio al suo primo libro dell'arte del vasaio con la descrizione della cura con cui il ceramista deve valutare l'impasto delle terre: «Usano gli uomini dell'arte de' vasi nella città di Urbino la terra che si coglie per il letto del Metauro, e quella colgono più nell'estate che per altri tempi, e tiensi tal modo nel coglierla. Quando cascan le piogge nell'Appennino, alle radici del quale nasce detto fiume, ingrossano le sue acque e si fan torbide, e così torbide camminando per i suoi letti lasciano quelle parti più sottili del terreno, che nel venire allo ingiù rubano a questa ed a quellasponda. Ingrossano queste parti su per le arene di detto fiume un piede o due; queste colgonsi e se ne fanno montoni per il detto letto. Molti sono che le lasciano seccare al sole e dicono che si reggono meglio nel lavorarle: altri dicono che si purgano, perché poste così secche nei terrai, o voglian dire conserve dove si tengono, convien di nuovo mollarle, e così rimollandosi si fanno più pure. L'una e l'altra sorte ho veduto adoperare io senza conoscervi molta differenza: perché lo avvertimento è di coglierle nette dalle radiche delle erbe, e dalle foglie degli alberi, e da certe giarine; avvertendo che nel venire che fanno le acque alla china con impeto, fan percuotere i sassi l'un contro l'altro, tra i quali ve n'è di una sorte, che tengono di calcina. Questi mescolati con detta terra fanno grandissimo danno.»
Urbino Chieda di San Bartolo L’altare maggiore prima della demolizione. È proprio dalla complessità imposta dal lavoro ceramico che hanno origine il risentimento e talvolta la reazione rabbiosa di De Santi quando si trova costretto a constatare che la sua opera non è adeguatamente conservata o addirittura temporaneamente cancellata alla vista, come è avvenuto per il fonte battesimale di Monte San Giusto. Si tratta di unacomplessa invenzione che comprende la modellazione di figure contestualmente alla organizzazione spaziale di una nicchia poco profonda, divisa in due parti: quella inferiore rivestita di mattonelle decorate in modo irregolare con simboli riferibili al rito del battesimo, quella superiore illuminata da piccoli moduli triangolari a base arrotondata ricoperti di foglia d'oro. Il motivo dell'acqua è dominante e piuttosto che ricordare il quieto scorrere di un fiume lascia intuire che l'artista abbia saputo catturare in quello spazio ristretto il senso di un oceano di proporzioni immense. Dal pavimento, leggermente concavo, la cui luminositàirregolare verde acqua delle formelle richiama la profondità segreta del mare, si innalza possente un pesce dalla testa mostruosa sulla cui coda è posta la vasca, un tempo ornata, sui bordi, da piccoli uccelli simulanti il volo. Al centro della nicchia, sullo sfondo di un cielo luminosissimo, si staglia la figura allungata del Battista in atto di battezzare. Nel paese che conserva una delle più belle tele di Lorenzo Lotto, la Crocifissione nella chiesa di Santa Maria Telusiano, l'opera di Armando De Santi può essere considerata come un moderno ripensamento e interpretazione dello spirito artistico del pittore veneto: la stessa scontrosa rappresentazione di una umanità ribelle alle regole della convivenza, che si evince dal ruolo di protagonista che assumono le figure; la stessa nostalgia per una natura, che talora fa da sfondo, lontana e che talora prende il sopravvento sulla figura; la stessa ansia di narrare un sogno o una favola, dove il dramma si stempera nella volontà di segnalare il lato positivo della vita. Fino a pochi giorni fa, fino a quando De Santi ha deciso di tornarne in possesso, nella cappella dedicata ai caduti della chiesa urbinate di San Francesco, sottostante il campanile, era collocata sulla parete di destra un grande pannello di ceramica, identificabile forse con quell'opera intitolata: Battaglia sul mare, esposta nel 1963 al Circolo artistico di Bologna, specificata come: ceramica spaziale. È l'anno in cui un articolo de "II Resto del Carlino" del 24 Marzo a cura di Giorgio Guppi e Sauro Brigidi {Tecnica rivoluzionaria dell'urbinate De Santi) rende nota la nuova tecnica adottata dall'artista per la cottura di grandi pezzi: «Qual è, in sostanza, la nuova tecnica del De Santi? È stato difficile per noi profani seguire l'artista nell'entusiasmante descrizione della sua tecnica. Poi, un poco alla volta, grazie alla pazienza del De Santi, siamo riusciti a comprendere che l'artista ha risolto la formula "più bello più grande colori più vivi minor tempo necessario".
Una tecnica assolutamente nuova: un forno rotante a cottura
velocissima. L'artista ha distrutto ogni teoria tradizionale; il forno è
divenuto un piano mobile, a "tunnel", dando la possibilità di cuocere
pezzi teoricamente lunghi all'infinito. Normalmente la ceramica deve
essere messa in forno freddo onde non far spezzare i lavori. De Santi
no. A differenza delle opere precedentemente descritte, costituite da parti modulari come formelle e figure di piccolo formato, quest'ultima si presenta realizzata in un solo pezzo e cotta su una griglia di ferro, incorporata nella ceramica. Si tratta di un ardimento tecnico, che una volta perfezionato è stato subito abbandonato come è consuetudine dell'artista, che non ha saputo mai utilizzare a fine di lucro le sue invenzioni; ciò non va attribuito all'incostanza del carattere, ma piuttosto ad un rifiuto di considerare la propria opera alla stregua di mercé, alla sua concezione elitaria dell'arte, pensata come continuo perfezionamento di materiali e di tecniche. L'abilità tecnica può essere considerata l'arma segreta di De Santi, dietro la quale volentieri cela la sua sensibilità che contiene qualche traccia di ingenuità e di fanciullesca impertinenza. Quale battaglia navale è descritta sulla superficie del pannello, se ciò che colpisce è solo una grande nave con le vele colorate gonfie di vento? L'episodio della violenza della guerra è relegato nella parte bassa ed occupa uno spazio minimo, quasi inawertibile, segno che l'intenzione dell'artista è ancora una volta quella di esprimere la gioiosa festa del colore e del movimento. Sembra utile citare integralmente il testo di Francesco Carnevali in occasione della prima mostra urbinate dell'artista, tenuta al Circolo cittadino nel 1948, perché fornisce indicazioni utili su un altro fondamentale aspetto della produzione ceramica, quello di origine popolaresca, si vedano per questo le numerose ciotole di proprietà Pirani di Urbino.
«Le ceramiche che espone Armando De Santi scrive l'allora
Direttore della Scuola del Libro al giudizio dei suoi concittadini
debbono essere soprattutto considerate come prove di una tenacia e d'un
ammirevole sforzo di volontà. Infatti il giovane che fu allievo nella
Scuola d'Arte di Federico Melis, è riuscito soltanto con proprie forze
ad approntare la necessaria attrezzatura richiesta dalla complicata e
difficile arte. Dalla costruzione del forno alla modellazione sul
tornio, dalla prima cottura alla decorazione dei varii pezzi, fino alla
seconda cottura piena di rischi e di sorprese sgradite, a tutto ha
provveduto e va provvedendo da sé. E certo, se la benevola comprensione
di chi guarda questi primi risultati, vorrà sostenerlo egli sarà capace
di proseguire, di far vivere una di quelle produzioni artigiane che
danno valore alla terra da cui si esprimono. Sono qui alcune ceramiche
da cui possono trarsi indizi di un gusto in via di determinazione; uno,
o più, anche; giacché o la "pittura su maiolica" a carattere
popolaresco, potrebbe assumere accenti meglio definiti di improntata
vivacità per i quali il giovane sembra naturalmente dotato; o il giuoco
degli impasti e delle grafiture su fondo colorato (che del resto
riprende, in tono elevato, la tradizione di certi vecchi scaldini ed
orcioli paesani), sarebbe in grado di informare tutta una produzione
improntata a viva modernità. Gli si possono perdonare le incertezze, gli
sconfinamenti ed assaggi in campi che non sembrano adatti al suo
temperamento, in virtù del desiderio di esperimentare nuove tecniche
diversissime onde impadronirsi del mestiere.»Assecondare con il disegno
e il colore la forma curva della ciotola o del vaso costituisce per il
ceramista un limite, ma anche un esercizio di utilizzazione del
movimento e della forma più inventiva e libera rispetto al lavoro del
pittore o dell'incisore, costretto a tenere conto, rigorosamente, della
bidimensionalità del piano. La stessa distribuzione delle figure risponde a un criterio di rigorosa simmetria nei due gruppi di cavalieri e il cane che gioca fra le gambe del cavallo in basso a destra rimanda all'antica incisione tedesca: Dùrer e 1' acquaforte del Cavaliere, la morte e il diavolo.
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