Quinto
Rulliano Valente |
QUINTEIDE RULLIANEA
SECONDA PARTE
Presentazione di DANTE
Giovi a Rulliano questo mio sonetto: anche se, un tempo, preferì l’Ariosto ed altri dilettanti d’ogni posto or lo giudico figlio mio diletto; e, dunque, a Me giustamente l’accosto, pel suo stile impeccabile, perfetto, immune da qualsiasi difetto, melodioso all’orecchio. Leggil tosto, pubblico colto, su video o papiro; e segui le avventure e le vicende di un sì nobile autor, ch’io tanto ammiro. Date retta: sono un che se ne intende; e tu, Rulliano, non mutare il tiro, pur se taluno, talora, s’offende. Ciò perché non comprende, essendo tanto zotico e ignorante, né Omero, né Rulliano e neppur Dante Alighieri
In ben più di duemila anni di vita ho avuto varie volte la ventura di viaggiare e combatter, con ardita vigorosa passion, senza paura, né pel corpo, seppur non sempre forte, né per la mente, che non mi si oscura. Or vi dirò delle persone morte con le quali ebbi modo di parlare: erano vive, sveglie e, spesso, accorte. Non dovete, plebei vili, pensare che l’Ade corrisponda a quell’inferno su cui, pel gusto di terrorizzare, v’ ingannano, nel nome dell’ Eterno, preti e muezzin, nemici del perdono, contrapponendogli un mondo superno. Quel ch’ io vi porgo è un gigantesco dono, giacché riferirò, da buon pagano, le vere realtà, per quel che sono. L’oltretomba è composto d’ un sol piano, dove scorrono Stige ed Acheronte, come attestano Anubi, Omero e Appiano. Non è dunque attendibile la fonte, cui fa cenno Virgilio in prefazione, vale a dir l’Alighieri, che Caronte ed altre nobilissime persone vide effettivamente, e dice il giusto; ma sbaglia, quando fa la divisione in tre parti, creando gran trambusto, tra Purgatorio, Inferno e Paradiso, collocando, qua e là, secondo il gusto, amici o detrattori. Fo buon viso al generoso Ghibellin fuggiasco, ché anch’Egli tante volte m’ ha sorriso. Ma rischierei un grandissimo fiasco, se non narrasi a voi la verità mentre, col vero, i miei diritti intasco. E, per il vero, inizierò da là, dove il lupo tricipite, ringhioso, m’ accolse con latrati d’amistà. Fu docile, tutt’altro che furioso il buon Cerbero, pur incatenato: mi annusò i piedi e un guaito gioioso, un canone a tre voci modulato, emise tristemente il vecchio cane; al punto che, avendo io risparmiato, tra le provviste, più forme di pane, ne gettai al grazioso animaletto, con resti di bambini e di befane. Proseguii, avanzando sol soletto, passeggiando così, come mi piace, quando un guerriero dal nobile aspetto, dal corpo immenso e con occhi di brace, mi fronteggiò col suo sguardo di fuoco: egli era il grande Telamonio Aiace, il qual mi disse: “Anche tu ti fai gioco, come gli altri che qui sono discesi, dei mie crucci; ma giocherai per poco, poiché tanti ne ho già fermati e presi: Odisseo la canaglia, Enea e un Toscano, cui, per voler del capo, grazia resi. Ma quanto a te, che mi sembri un Romano, sappi ch’è ormai finita l’amnistia e che t’ucciderò con questa mano!”. Ed io: “Possente Aiace, che non sia mai compiuto il tuo dir così tremendo: sei più leal del tuo cugin di Ftia; il tuo dolore immenso ben comprendo. Dimmi, piuttosto, chi è che qui comanda per ordine del Fato, poi m’arrendo. Ma rispondi, di grazia, alla domanda; anche perché, se tanto mi dà tanto, potrei forse far sì che qui si spanda un clima meno triste: un vero incanto per te, pel tuo desio dell’armatura del Pelide, al qual sempre eri accanto”. Replicò il forte Aiace con misura (posò l’asta di ventidue cubiti): “Ti dico ch’è oramai cosa sicura che il Divo Giulio legionari, opliti, semidei, grandi eroi, perfin l’Alcide governa, con Achille, e questi siti, in quanto è scritto che giammai si vide un imperator (così dicevate) tanto forte e sicur: pari al Pelide. Ma quell’armi, anche se, ormai, sono usate, riuscirai a darmele davvero? Bada, Rullian: non dire spacconate!”. Ed io al Telamonide: “Il mio pensiero è suffragato da molte sentenze, che produrrò in giudizio per intero: non solo massime, che son scemenze, ma le motivazioni, per esteso, vale a dir la più esatta delle scienze”. Ne fu convinto e restonne disteso quel grand’uomo, anzi quel robusto spettro: volle pagar, ma nulla ancor gli ho preso. La lancia sollevò come uno scettro; nessun canterà mai con miglior plettro. Scortato da un simpatico valletto, che dicea esser stato cavaliere, venni condotto subito all’ingresso d’un gran palazzo, centro del potere, dove Cesare e Achille erano pronti, gia informati, via fax, dal lor portiere, a ricevermi, ansiosi pei racconti che attendevan da me, ultimo mortale, ben più aggiornato di tutti quei tonti, che prima avean salito quelle scale. “Ave Caesar, ave divino Achille! Sono un console - dissi – un po’ speciale, che, come voi, ha vinto più di mille battaglie, scope, briscole e ramini, conquistando città, popoli e ville”. Ma Achille disse: “Lei non s’avvicini; consegni, prego, prima un documento; paghi il biglietto e non faccia casini”. Al che rimasi piuttosto sgomento; ma il Divo Giulio risolse il problema, riconoscendomi e, più che contento, così parlò: “Il grande Achille non tema questo visitator privo dell’arco. Io lo conobbi, un tempo; ed il sistema della sua strategia m’aperse un varco, nelle mie tattiche in tante battaglie. Ascoltiamol, Pelide: ei non è parco di preziosi consigli; e le canaglie batte con l’armi e con la lingua; bada: lasciando d’esse sol pezzi e frattaglie”. Replicò il Pieveloce: “Se t’aggrada non farò più nessuna opposizione: sentiamolo e, poi, vada come vada”. “Devo dirvi –iniziai – che la cagione che mi ha portato qui, al vostro cospetto è la curiosità; non v’è questione diversa dal saper, pel mio progetto, chi qui comanda e chi vi ha comandato. Alessandro e Scipione sono a letto? Perché di loro nessuno ha parlato?”. Al che Cesare disse: “Come vedi, abbiam ripristinato il consolato: Achille ed io siamo gli unici eredi del potere divino che promana dal Fato, al quale tu certo non credi. Ed hai ragione perché è una panzana; è più credibile quel che d’Efesto sta in ciascuno di noi e tutto spiana”. Il biondo Tessalo aggiunse poi questo circa il Macedone; cose diverse: “Non fu Alessandro né saggio, né onesto, poiché, se pure è ver che giammai perse, fu autore d’un grandissimo e vil scempio quando diè fuoco alla reggia di Serse. Quanto a Scipione, egli è di buon esempio per tutti i carrieristi d’oggi e d’ieri. Passa il suo tempo tra la casa e il tempio e gioca a scacchi, spesso e volentieri, col grande Annibale, anch’ei non attratto dai troppi onori e dai troppi piaceri”. E Cesare: “Rullo, ora sei soddisfatto del nostro resoconto; ecco una biro, più la pianta dei luoghi e il mio ritratto. E, se per caso ti perdessi in giro, ti do il mio numero di cellulare: quindici tre quarantaquattro. Tiro ora la tenda, ché ho molto da fare col mio collega. Ora gira il villaggio e il numero, t’avverto, non scordare”. Tal colloquio mi diè viepiù coraggio: dopo uno sguardo alla preziosa mappa, m’avviai, fischiettando, con un paggio, che Cesare, per una prima tappa, m’aveva messo al fianco oltre a un un ebreo. Ma dissi: “Andate, la pipì mi scappa, e, da solo vagando, più mi beo”. Poscia, guardando meglio quel soggetto, lo riconobbi: era il grande Pompeo. Raggiunsi quindi un grazioso laghetto, poco profondo, da cui molte teste emergevan con un alto berretto. Qui, di colpo, sentii odor di peste provenir da quell’acqua non termale, ma pestifera, appunto. Con la veste turai il naso e domandai a un tale cosa significasse mai quel bagno. Ei mi rispose: “E’ il settore papale ed io sono Pasquino, né mi lagno di osservar da vicino questa scena, che conferma il mio scrivere terragno. Non provo, stanne certo, alcuna pena per questi falsi successsor di Pietro; anzi, il loro soffrir mi rasserena”. “Mio buon Pasquin - dissi guardando retro – ma chi è quel Papa che, nell’altre valli, sta con Mozart, Beethoven (non più tetro), con Bach, con Cherubini e con Cavalli?”. “E’ un’eccezione - rispose Pasquino – è un Papa buono: è Angelo Roncalli”. Salutata, con un perfetto inchino, la bella statua dal verbo pungente, proseguii, come un frate pellegrino, questo viaggio davvero sorprendente. Ma, girando d’istinto verso manca, mi afferrò il collo una mano stringente. “Credevi di potere farla franca? - mi disse Aiace simile a un Titano - Il tuo parlare gli occhi, invero, imbianca: tu sei un mentitor, vile e marrano!”. Chiesi all’immenso eroe solo un minuto; e, tanto per salvare il deretano, chiamai Cesare: gesto molto astuto, perché questi rispose al primo squillo. Gli raccontai quanto m’era accaduto, ed egli, all’altro capo: “ Stai tranquillo; Achille dice che l’armi divine Aiace avrà fino all’ultimo spillo. Quanto a Odisseo, pel suo cervello fine. gli darem quelle d’Aiace d’Oileo, ignobil stupratore di bambine”. Il Telamonio un grande otre di lieo con un dito soltanto alzò da terra e, postolo su un masso disse: “O Deo! Delle mie sofferenze qui ed in guerra paga or lo scotto! Prendi questo nappo, prode Rullian, ché la gioia m’afferra, e non occorre svitare alcun tappo; beviamo, dunque, alla mia redenzione, ma facciam presto, poiché, dopo, scappo”. Mi commossi per la consolazione ch’ avevo procurato e per il gusto provato dal figliol di Telamone. Bevvi e compresi perché pure Augusto gli avesse dedicato una tragedia, scritta quando, oramai, era vetusto: non s’alzava dal letto e dalla sedia. Per fortuna la lesse Mecenate e la bruciò; ma pure ancor lo tedia. Riprendo, dunque, le mie passeggiate, usando la cartina cesariana, con passo buono … e incontro Mitridate, un celeberrimo voltagabbana, d’alto ingegno, perché d’alto lignaggio, che osò sfidar la potenza romana. Mi riconobbe; poi, resomi omaggio, mi rammentò le gesta di Lucullo ed il suo ultimo terreno viaggio. “Lucullo era leal, Pompeo era un bullo”, concluse Mitridate e accommiatossi, dicendo ch’era atteso da un fanciullo. Rimasi lì, pensoso, in carne ed ossi, poi, sempre riflettendo, lento pede, ripresi il mio cammino tra quei fossi. Pervenni, se la mappa ancor fa fede, a una radura dove, con sorpresa, vidi – e mi fe’ piacer- Glauco e Diomede. Era in atto tra lor grande contesa: indossava il Tidide l’armi d’oro, l’altro di bronzo, ed avea la pretesa d’annullar quel contratto che tra loro, sull’armi, appunto (il che non è un mistero), presso Troia vi fu con gran decoro. Diceva il forte Licio: “Sai ch’io ero completamente sbronzo quella volta; rendimi le mie armi, masnadiero!”. E l’altro, bellicoso: “Tu l’hai tolta senza pressioni mie, senza fattura, la panoplia; e non fu una scelta stolta, ché, per Giove! è notizia imperitura che t’avrei fatto a pezzi col mio brando, io che ho sconfitto Marte! Vuoi sventura, sciocco barbaro asiatico? Sta andando verso la fin la mia nota prudenza: ti do un €uro, perché stiamo trattando”. Vedendo me, Glauco esclamò: “ Eccellenza! Venga lei a risolver la concione, con una saggia, equa e giusta sentenza”. Ma io non volli: “C’è la Cassazione - dissi a Glauco - per quel che tu brami, avendo già io espresso un’opinione. E non occorre la legge “Cirami” per far giustizia; pertanto mi astengo, sussistendo dei dubbi sui legami tra me e Diomede. In tal senso prevengo ogni possibil forma di sospetto. Ed or, processualmente, al dunque vengo: a Achille e a Cesare gli atti rimetto, che, con Ciro, Hattusìlis e Ramsete, Sezioni Unite, daranno il verdetto. E tu, Diomede, via quelle monete! Mettile in tasca: sai che son leale: son giudice e stratego, non un prete. Ho dimostrato d’essere imparziale; e ti ricordo che l’ordinamento fa obbligatoria l’azione penale”. Il figlio di Tideo, senza commento, capì l’antifona di tale segno. Ma, mentre Glauco stava poco attento, chiamai Diomede e, con fermo contegno, per non sprecare il mio lavoro invano, dissi: “Ragazzo, staccami un assegno”. Egli lo fece da onesto cristiano; e credo che il farà dieci altre fiate, né io rifiuterò: non son villano. Ma ora son le ventitré passate e pongo fine alla seconda parte, poiché le dita son già addormentate. La terza comporrò, se Giove e Marte, Apollo, le sue Muse e il saggio Ermete m’aiuteran, con Eracle – Melcarte, a far per Te, Lettor, rime ancor liete.
(Correzione aggiornata al 18/4/2003)
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