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Gli ebrei del “Ducato di Urbino”: dal papa al re
 di
Maria Luisa Moscati Benigni

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Ebrei dell’Italia centrale

Dallo Stato pontificio al Regno d'Italia

Atti del Convegno, Perugia 14-15 aprile 2011

a cura di Letizia Cerqueglini

EDITORIALE UMBRA

 

Stampa: Tipografia Iriprint per conto di CBN Services - Perugia luglio 2012

In copertina: Interno della sinagoga di Pesaro (sec. XVI)

© 2012  Editoriale Umbra, Foligno

Istituto per la storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia

Progetto grafico: M &, Perugia ISBN 978-88-88802-51-0 ISSN 1973-9990

Autori: L. Brunelli,  M.L. Buseghin, M. Cassandre,  L. Cerqueglini,  G. Giubbini,  M.L. Moscati Benigni, P. Pellegrini, F. Santucci,  A. Toaff M. Toniazzi

 

 

INDICE

Introduzione - Letizia Cerqueglini

7

Tra Medioevo e Rinascimento. L’Umbria ebraica e “romana” - Ariel Toaff

15

Il prestito ebraico e i disciplinati di S. Stefano in Assisi nel secolo XIV (Documenti in volgare) - Francesco Santucci

33

I banchieri ebrei da Camerino nella loro espansione verso l’Umbria tra XV e XVI secolo - Mafalda Toniazzi

41

L’avvento dei ghetti nello Stato pontificio. Analisi e interpretazione di un fenomeno di lunga durata - Michele Cassandro

51

Gli ebrei del “Ducato di Urbino”: dal papa al re - Maria Luisa Moscati Benigni

71

La comunità ebraica di Ancona nel periodo dellUnità nazionale. Fonti documentarie conservate presso l'Archivio di Stato di Ancona - Giovanna Giubbini

87

La condizione giuridica degli ebrei sotto i Savoia tra sovranità cattolica e monarchia illuminata - Letizia Cerqueglini

99

Gli ebrei in Umbria dopo l'emancipazione - Luciana Brunetti

145

Ebrei e industria. Iniziative imprenditoriali e investimenti di capitali a Terni nell’Ottocento - Paolo Pellegrini

181

Alice Hallgarten e Leopoldo Franchetti nell’Alta Valle del Tevere: innovazione d’impresa e promozione sociale Maria Luciana Buseghin

213

Gli autori

 

225

   

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Gli Ebrei nel “Ducato di Urbino”: dal Papa al Re

di Maria Luisa Moscati Benigni

 

Troppo vaste e geograficamente diverse le terre dell’ex Ducato di Urbino per poter analizzare in modo esaustivo, sotto il profilo storico, sociale ed economico, la presenza ebraica nel particolare momento del passaggio dallo Stato pontificio al nuovo regno unito.

Un rapido sguardo alle condizioni di vita in epoca ducale potrà servire a meglio comprendere il profondo mutamento cui gli ebrei andavano incontro passando sotto il Governo della Chiesa e, di conseguenza, la sete di giustizia e libertà che li spinse poi ad aderire alla causa risorgimentale.

Dall’opulenza in epoca ducale, quando gli ebrei erano liberi di svolgere qualsiasi attività, da quella medica a quella feneratizia per la quale erano chiamati e protetti, passeranno ad un generale impoverimento, a cominciare dall’entroterra, mentre nelle città portuali come Pesaro e Senigallia per qualche anno ancora, sia pure tra mille limitazioni, il commercio continua.

Molto si erano rallegrati gli ebrei del Ducato alla nascita del principe Federico Ubaldo il 16 maggio 1605[1], e ancor più per le sue nozze con Claudia, figlia di quel Ferdinando I dei Medici autore della Livornina[2]. Ma proprio quando la successione sembrava assicurata e scongiurato il pericolo di finire sotto il governo della Chiesa, la situazione precipita: il giovane principe muore all’improvviso in circostanze misteriose e il vecchio duca accoglie la notizia «con animo più di Filosofo che di Padre, mostrando fortezza e con conoscere la mano di Dio, che dà e toglie le Vite e gli Stati secondo il suo volere»[3].

Pressato dagli inviati del Papa e desideroso di finire i suoi giorni immerso nei suoi amati studi nella quiete di Casteldurante, il Duca firma l’atto di devoluzione del Ducato alla Santa Sede da effettuarsi dopo la sua morte. Nel tempo stesso costituisce in Urbino un governo di otto rappresentati delle maggiori città «[...] per giudicare le cause, sentire gli aggravi de’ Popoli, e casi che potessero occorrere alla giornata, principalmente in materia degli Ebrei favoriti con ampli Privilegi dal Signor Duca»[4].

Le sue condizioni di salute erano seguite con ansia: preti zelanti lo spiano per riferire all’impaziente pontefice, mentre «gli Ebrei che havevano nelle Sinagoghe loro messe le orazioni, e digiunato a pane e acqua»[5] ne temono la fine.

Ma il 28 aprile 1631 Francesco Maria II Della Rovere, sesto e ultimo Duca di Urbino, muore: nei 57 anni di regno aveva donato ai suoi sudditi ebrei il più lungo periodo di serena convivenza. Dopo appena quattordici giorni Urbano VIII annette il Ducato allo Stato della Chiesa.

La comunità di Urbino, e non solo quella ebraica, si avvia rapidamente al declino.

La città, abbandonata dalla corte, che già negli ultimi anni si era divisa tra Pesaro e Casteldurante, da capitale del Ducato diventa ora lontana periferia dello Stato pontificio, calano i commerci e il relativo benessere.

Le condizioni dell'“Universitas Hebreorum civitatis Urbini” peggiorano anche sotto l’aspetto demografico, molti ebrei, negli ultimi mesi di malattia dell’ormai vecchio Duca, si erano già trasferiti a Mantova, altri avevano seguito gli spostamenti della corte, per cui in Urbino, da quasi 500 che erano alla metà del Quattrocento, ne rimangono, al momento della devoluzione, 369 divisi in 64 famiglie, compresi quelli costretti a lasciare i paesi circostanti come Fossombrone, Cagli, Orciano, Mondolfo, Mondavio, Pergola e Sant’Angelo in Vado. A Pesaro invece vivono ancora 76 famiglie e a Senigallia 40[6].

Nulla ora ostacola la realizzazione dei ghetti, l’antico sogno della Chiesa vagheggiato sin dal 1555, allorché il cardinale Carafa, divenuto papa col nome di Paolo IV, aveva espresso tutto il suo odio contro gli ebrei con l’editto “Cum nimis absurdum[7]. Numerosi e vani erano stati gli inviti dei vari papi affinché, anche nel Ducato di Urbino, sorgessero i ghetti e, se si attendono ancora quasi due anni per mettere in atto l’odiosa segregazione è solo perché il Papa ha ben valutato il rischio di perdere anche uno solo dei preziosi codici della famosa libreria di Federico da Montefeltro, se non si fosse redatto, in tempi brevi, un inventario dettagliato[8]. Compito delicatissimo questo, per il quale solo il notaio Francesco Scudacchi offre sufficienti garanzie, come pure per l’altro compito, non meno delicato, del censimento degli ebrei.

E’ così che il primo agosto 1633 in Consiglio Comunale «convocato al suono della campana grossa»[9] si prende atto della lettera del Vice Legato pontificio che intima la scelta del luogo «più a proposito per fare il ghetto». Fatti i dovuti sopralluoghi, valutate le varie possibilità e messe ai voti, verrà stranamente scelto proprio il luogo meno votato, forse perché, avendovi il maggior numero di case la famiglia Giunchi, strettamente imparentata col consigliere comunale Conte Palma, aveva già fatto il conto dell’utile che ne avrebbe ricavato.

Il 25 settembre il notaio può così iniziare le pratiche per «l’erezione del Ghetto degli Ebrei»[10], come è scritto sul fascicolo che si fa ogni sera più corposo, dopo ogni convocazione dei capi famiglia degli ebrei di Urbino e di quelli delle città e paesi nei quali vive una piccola comunità ebraica o anche soltanto una famiglia.

La sera del 10 dicembre, per l’ultima volta sono tutti convocati nella sala «detta la Sinagoga degli Ebrei»[11] dove il notaio intima

 

«[...] d’ordine dell’Eccellentissimo luogotenente, che nel termine di 8 giorni prossimi tutti gli Hebrei debbono aver dismesso le loro botteghe che hanno nella città fuori del Ghetto, sotto la pena di 50 ducati e tre tratti di corda ciascuno, e contro quelli che saranno disobbedienti [...]un gravame di mezzo scudo al giorno»[12].

 

La pena annunciata dà la misura di quanto totale e repentino sia il cambiamento avvenuto nella vita di questi ebrei che per tre secoli erano stati protetti, e, in particolare negli ultimi cinquantasette anni, difesi persino quando evitavano di genuflettersi incontrando per via un sacerdote che recava i «Sacramenti agli infermi». Ora sono esposti ad ogni sorta di arbitri; basti pensare che i proventi delle ammende sono così ripartiti: metà alla Camera Apostolica, un quarto all’esecutore e un quarto al delatore. E’ difficile salvarsi da delatori mendaci ed ingordi.

Ugual sorte per gli ebrei di Pesaro: anche qui verranno esaminate varie ipotesi per la scelta della zona in cui erigere il ghetto[13]. Scartate quelle che risultano dotate «di qualche buona abitazione» o «di buon’aria», la scelta cade in quella indicata nella pianta del Blaeu come «la chiocca», la chiavica.

Il giorno di giovedì santo, 24 marzo 1633, i tre portoni che gli ebrei hanno dovuto far costruire a loro spese, serrano all’interno circa seicento persone oltre a quelle giunte dai centri vicini, e potranno essere riaperti solo dopo che saranno sciolte le campane. Nel cuore del nuovo quartiere si trovano già la sinagoga italiana[14] e quella sefardita[15], mentre una terza, situata in via delle Zucchette, verrà chiusa trovandosi ormai fuori dal recinto del ghetto.

A Senigallia, entrata a far parte del Ducato nel 1508[16], sorgerà, sempre nel 1633, il terzo ghetto, più ampio dei primi due, poiché la popolazione ebraica, che nel 1626 era composta da una quarantina di famiglie, aumenta rapidamente per lo spostamento forzato di quanti abitavano nei paesi circostanti. Infatti il ghetto di Senigallia avrà quattro portoni. Nel 1634 entrerà in funzione la nuova sinagoga, sempre di rito italiano[17].

La Comunità di Senigallia è vivace in tutti i campi, sia nei rapporti sociali, tanto che il Cardinal Cybo sarà costretto nel 1648 a pubblicare nuovi capitoli per regolare i rapporti tra cristiani ed ebrei e tra gli stessi ebrei[18], che negli studi, se pensiamo ai Gallico, padre e figlia, o a Eugenio Salomon Camerini, attento commentatore di Dante, ma anche acceso patriota.

Ma è nei commerci che più intensa si manifesta l’attività dei mercanti ebrei specie in tempo di fiera quando al porto attraccano sino a cinquecento navi con un volume di affari anche di dieci milioni di scudi. Alla famosa fiera di Senigallia partecipano mercanti ebrei e no, provenienti da tutti i paesi, persino dalla Germania e dall’Ungheria.

Nel 1755 papa Benedetto XIV impone una tassa, per dodici anni, sopra le mercanzie forestiere per venire in aiuto della piccola Comunità di Urbino che versa in gravi difficoltà economiche.

Anni dopo, il riparto del ricavato del pedaggio sulla fiera subirà delle variazioni, anche perché i ghetti di Ancona, Pesaro e Senigallia si accolleranno i debiti della Comunità urbinate[19].

Le cause dell’estrema indigenza in cui viene a trovarsi il ghetto della città ducale sono molteplici: innanzitutto Urbino è ormai fuori dalle grandi linee commerciali, ora che la corte non risiede più in città il degrado è generale, inoltre il mercato settimanale si tiene di sabato, giorno in cui gli ebrei non possono lavorare e tantomeno toccare denaro, e a nulla serve che il Consiglio riconosca «essere il mercoledì […] giorno molto a proposito»[20] perché in realtà il giorno non verrà mai spostato.

C’è poi il problema insormontabile delle case in eccedenza rispetto alla popolazione ormai più che dimezzata rispetto a quella presente al momento della creazione del ghetto, case per le quali, anche se sfitte, va comunque pagato il nolo per lo Jus-gazagà[21]. Nel 1718 vivono in Urbino ormai solo duecento ebrei, i «quattro quinti dei quali composti da vecchie donne e piccoli putti inabili a procacciarsi il cibo»[22] come scrive l’Università israelitica nella supplica rivolta al Pontefice perché la esoneri dall’obbligo del pagamento della quota dei debiti degli ebrei romani, cui tutti i sudditi ebrei dello Stato pontificio sono costretti a contribuire. La supplica è appoggiata da una lettera dei priori della città. Ma la tassa che gli ebrei pagheranno con maggior amarezza sarà quella per la Casa dei Catecumeni, per mantenere e istruire nella fede cristiana quegli ebrei che, più o meno spontaneamente, sono in procinto di convertirsi.

 

L’elezione di papa Pio VI infine, rilancia la feroce politica antiebraica di Paolo IV con gli antichi divieti e imposizioni e a ciò si aggiunge la sospensione della fiera a causa della peste del 1784. Ora neppure i ghetti maggiori potranno contare sulle entrate derivanti dai commerci, dall’affitto di case, botteghe e magazzini ai mercanti stranieri e dalla tassa sul pedaggio della fiera; ormai l’unico introito sicuro è quello che deriva dall’unico commercio permesso, quello della “strazzeria”. Senza l’aiuto delle poche famiglie veramente facoltose, la popolazione dei ghetti è ormai alla fame.

Non c’è da stupirsi quindi se quella ventata di libertà, uguaglianza e fraternità portata dalla Rivoluzione Francese, accolta come una benedizione del Cielo, vede l’adesione pressoché totale di tutte le comunità ebraiche sparse nella penisola e in particolare quelle dello Stato Pontificio. La libertà, non è soltanto un valore morale e civile, ma soprattutto un valore religioso, il fondamento dell’ebraismo stesso[23]. E sarà proprio la campagna di Napoleone in Italia a liberare gli ebrei dall’umiliante costrizione dei ghetti: i portoni abbattuti e dati alle fiamme e su quelle ceneri piantato l’albero della libertà. Un picchetto composto da cristiani ed ebrei insieme, è chiamato a montare la guardia a quell’albero simbolo.

Non si tratta solo di affrancamento dalla segregazione del ghetto, ma dal 1797 anche agli ebrei dell’ex Ducato vengono riconosciuti tutti i diritti civili di cui gode il resto della popolazione: possibilità di svolgere qualsiasi lavoro, di acquistare beni immobili, di accedere a cariche pubbliche e soprattutto alle Università, sino ad allora ad essi interdette. Se si pensa che nello Stato Pontificio era proibito persino possedere un libro, senza il beneplacito delle autorità ecclesiastiche, si può immaginare con quanto entusiasmo verranno accolte le truppe francesi quando, la sera del 4 febbraio entreranno in Pesaro, e il giorno seguente in Urbino.

A Senigallia le famiglie più facoltose abbandonano il ghetto ed aprono case e botteghe nelle principali vie cittadine, ma in generale la maggior parte degli ebrei è ancora incredula e impreparata.

Purtroppo ancora una volta tutto torna come prima, anzi la situazione peggiora, quando, partito Napoleone per la campagna d’Egitto, anche i generali francesi, incalzati dalle truppe russo-turche, si ritirano. Orde fanatiche di sanfedisti, al comando del generale Lahoz, e popolani aizzati dal basso clero, al grido di “Viva Maria”, irrompono il 7 giugno a Pesaro e il 18 a Senigallia, nelle case degli ebrei: saccheggiano e distruggono ogni cosa, profanano i Sifré Torà e gli arredi delle sinagoghe. A Senigallia lasciano a terra ben tredici vittime: sono decimate intere famiglie come gli Ascoli, i Camerini, i Volterra, i Del Vecchio e tre anziane donne. Tredici i morti e centinaia i feriti[24]. In seicento raggiunsero Ancona su navi inviate dalla comunità cittadina, per restarvi due anni, sotto la protezione del vescovo Honorati, che certo non aveva dimenticato come, durante la breve Repubblica Anconetana, erano stati proprio due ebrei, Terni e Seppilli, ad impedire che le campane della Cattedrale fossero fuse, per farne, come altrove, monete e cannoni.

Anche in Urbino ci furono tumulti, ma senza vittime, danni e ruberie. Lo dimostra il fatto che l’antichissimo Aron trecentesco[25] è giunto sino a noi intatto e così pure i preziosi Sifré Torà[26].

La causa principale di questi luttuosi eventi va ricercata nel fatto che l’improvviso spirito liberale importato dai francesi non era ancora una matura conquista delle coscienze tra quelle popolazioni che non più tardi di pochi decenni prima, nel 1721, avevano lanciato l’ennesima accusa di omicidio rituale contro la Comunità ebraica di Senigallia. Agli antichi pregiudizi si aggiunge ora l’odio per aver osato, durante l’occupazione francese, ricoprire cariche pubbliche o acquistare proprietà, soprattutto i beni espropriati alla Chiesa.

Fortunatamente questo tristissimo periodo dura soltanto pochi mesi, con la vittoria di Marengo, Napoleone torna di nuovo a reggere le sorti d’Italia: gli ebrei tornano liberi e questa volta per quasi quindici anni. Un periodo abbastanza lungo perché cristiani ed ebrei abbiano la possibilità, in questa prima apertura dei ghetti, di frequentarsi, conoscersi e stimarsi, collaborando anche all’amministrazione della cosa pubblica. Né mancano le adesioni «degli israeliti dai 18 ai 50 anni alla Guardia Nazionale nel Dipartimento del Metauro»[27].

Va anche detto che i Francesi, oltre alle tristemente note ruberie di opere d’arte, e da Urbino ne partirono carri stracolmi, pretesero dalle comunità ebraiche forti contribuzioni in denaro alle quali risposero generosamente anche gli strati più poveri, ben consapevoli che la libertà non ha prezzo.

Ma nel 1815, con la Restaurazione, le Marche ritornano al vecchio governo. In Urbino per dieci anni ancora l’arcivescovo della città, monsignor Ignazio Ranaldi, riesce a rimandare una nuova chiusura del ghetto, nonostante le ripetute sollecitazioni di papa Leone XII che, sin dalla sua elezione, aveva adottato una linea rigidamente reazionaria rimettendo in auge gli antichi rigori dell’editto di Pio VI “Sopra gli Ebrei” del 1775. Anzi nel 1825 il Ranaldi scrive al papa che gli ebrei di Urbino «si sono sempre dimostrati rispettosi, obbedienti alle nostre Leggi [...]»[28]. Ma l’anno successivo deve cedere alla richiesta del Papa e comunica che «il Ghetto di questa Città è composto di Cencinquantasei individui ebrei e [...] il portinaio Cristiano [...] ha di emolumento annuo scudi nove [...]»[29]

Ancora una volta tutto sembra tornare come prima, ma in realtà saranno eretti due soli cancelli alle estremità della sola “Via Stretta” e gli ebrei abitano ormai quasi tutti fuori del ghetto, anche se in certi documenti si parla addirittura del ripristino di ben sette portoni[30].

A Senigallia, ove gli ebrei rifugiatisi in Ancona erano stati costretti a ritornare e ricostituire il ghetto, dovranno provvedere al restauro delle case fatiscenti oltre che alla ricostruzione dei portoni e al pagamento del debito maturato con la camera apostolica che, con gli interessi, ammonta ormai a dodicimila scudi. Unica concessione: undici/decimi del pedaggio della fiera andranno agli ebrei della città e il rimanente a quelli di Urbino.

Ma la ribellione cova sotto la cenere e i canali commerciali delle grandi ditte ebraiche come la Moisé Salmoni & C. e la Sanson Vivanti, sono spesso usati per la diffusione di materiale propagandistico o dispacci, a copertura di attività segrete della Carboneria prima e della Giovane Italia poi.

I moti del 1831 debbono aver destato non poche preoccupazioni, se il parroco di San Nicolò, la chiesa più vicina al ghetto di Pesaro, si affretta a comunicare che tra Pesaro e Urbino vivono al momento 850 ebrei, ed anche se in zona le disposizioni papali sono applicate in modo meno restrittivo che a Roma, il malumore nelle due Comunità era sicuramente grande. Vietato apporre lapidi sulle tombe, vietato frequentare le università, obbligo di assistere alle prediche conversionistiche rimesse in auge dall’astioso Leone XII, forti pressioni per indurre al battesimo adulti e bambini: tutto ciò era tanto più intollerabile ora, dopo l’aver assaporato il gusto della libertà durante il periodo napoleonico e il mite governo di papa Pio VII.

Ne consegue che con la Restaurazione si registra una lenta ed inarrestabile emigrazione dai ghetti, soprattutto a Pesaro, verso quelle terre, come la Toscana e il Lombardo-Veneto, in cui le condizioni di vita sono da sempre migliori e poiché sono le famiglie più facoltose ad andarsene, ciò peserà notevolmente sull’economia dell’intera comunità. Papa Leone XII impone pertanto una tassa del 2 per cento del valore dei beni esportati a beneficio della vecchia comunità di appartenenza.

 

Già nel 1826 lasciano Pesaro alla volta della Toscana Giuseppe d’Ancona con la moglie Ester Della Ripa: a Pisa i loro figli Sansone ed Alessandro potranno compiere gli studi universitari e la loro casa diventerà ben presto luogo d’incontro dei più insigni patrioti come lo stesso Farini.

Anche Alessandro Bolaffi va a Pisa con i figli Laudadio e Raffaele diventando cittadini toscani.

Laudadio Gentilomo si trasferisce invece a Venezia ove può persino iscriversi alla locale camera di commercio[31]

Ma la famiglia senza dubbio più facoltosa è quella dei banchieri Della Ripa, e molto si favoleggia su queste ricchezze definite incalcolabili dal momento che posseggono predi, case e «filande della seta, le quali rendono ricca la città ed il mezzo popolo per le fatiche che si prestano»[32]. Giuseppe e Laudadio Della Ripa, in partenza per Firenze, sono dunque tenuti al pagamento, non solo della tassa per il triennio che segue dopo la partenza, ma anche del 2 per cento del valore dei beni esportati e, vista l’entità della spesa, finiscono in una lunga e complessa vertenza legale. L’avvocato della famiglia è, nientemeno, Carlo Armellini, lo stesso che con Saffi e Mazzini farà parte del triunvirato della breve Repubblica romana. Inoltre i Della Ripa continuano a tener casa aperta a Pesaro ove hanno ancora molte proprietà e ove tornano per lunghi periodi ogni anno. Finalmente sollevati dalla tassa di emigrazione, continueranno a corrispondere generosamente alla Comunità di Pesaro un contributo spontaneo.

A Firenze, il palazzo dei Della Ripa sarà ben presto al centro delle attività dei patrioti devoti alla causa risorgimentale, mentre il legame, mai spezzato con la città di origine, si rafforza con contribuzioni e sottoscrizioni aperte in favore dei patrioti italiani che, a Montevideo, combattono al seguito di Garibaldi, cui doneranno una spada d’onore, come risulta dalla corrispondenza di Cesare Della Ripa con il pesarese conte Giuseppe Mamiani[33].

Di origini pesaresi quindi è Vittoria Della Ripa, che accoglierà nella sua casa, Villa Spinola a Quarto, Giuseppe Garibaldi, amico del marito Candido Vecchi. Sarà proprio nella sua casa che verrà progettata e organizzata la Spedizione dei Mille: i suoi molti mezzi e lo spirito liberale le permettono di essere il sostegno, non solo morale, dell’impresa.

Un’altra pesarese merita di essere ricordata come eroina del Risorgimento. E’ Sara figlia di Angelo Levi e Rebecca Rosselli, nata nel 1819 in via del Ghetto Grande, che oggi porta il suo nome. Andata sposa a Meyer Moses Nathan, nella sua casa di Londra ospiterà a partire dal 1827, e più ancora dopo la caduta della Repubblica Romana, tanti esuli italiani come Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio e lo stesso Giuseppe Mazzini e Angelo Usiglio, rampollo dell’alta borghesia ebraica modenese. Tornata in Italia dovrà di nuovo fuggire a causa dell’appoggio dato al Partito d’azione, e riparerà a Lugano ove, per un certo periodo, darà nuovamente ospitalità al Mazzini. Nel 1872 ritorna in Italia, a Pisa, ove in casa della figlia Jeannette Nathan Rosselli, assisterà sino alla fine Mazzini, ormai morente.

A Senigallia molti ebrei partecipano ai moti liberali come il giovane Camerini, la cui famiglia era stata decimata nel saccheggio del 1799, scoperto verrà arrestato anche per aver preso parte alla marcia con i liberali di Ancona; Sansone Levi arrestato per motivi politici, è condannato all’ergastolo, ma la pena verrà commutata con l’esilio, mentre Salvatore Zaban, per aver preso parte ai moti del 1831, sarà costretto ad emigrare in Francia. Anche Salomone Levi, nonno paterno di Sara Levi Nathan, sarà arrestato nel 1834 e condannato al carcere a vita, pena commutata poi nell’esilio nell’Impero del Brasile, ma accompagnato a Civitavecchia per essere imbarcato, verrà in realtà mandato in Grecia. Sarà tra i pochi a non beneficiare dell’amnistia concessa da Pio IX il 16 luglio 1846. «Schedati come elementi sospetti di cospirazione invece, sono Leone, Servadio e David Camerino perché mostrano più fanatismo nella lettura nei fogli pubblici che commentano con discorsi antipolitici»[34]. Sorvegliati anche i fratelli Salmoni, titolari di negozi a Senigallia ad Ancona a Fermo e ad Ascoli, per i quali era facile mantenere contatti clandestini tra i mazziniani delle Marche e quelli del Regno di Napoli.

Anche Eugenio Salomon Camerini (1811-1875), l’autore di uno dei più attenti commenti di Dante, prende parte ai moti di Napoli del 1848 e a quelli piemontesi per l’unità d’Italia.

E’ in questo clima politico che il 16 giugno 1846, contro ogni previsione, viene eletto papa Giovanni Maria dei conti Mastai Ferretti, con il nome di Pio IX, nativo di Senigallia, di tendenze decisamente liberali. Giusto un mese dopo l’elezione concede l’amnistia ai detenuti politici e l’anno successivo decreta la fine dei vecchi odiosi decreti contro gli ebrei, nonché l’apertura dei ghetti in tutto lo Stato pontificio.

Era il 1847. Gli ebrei di Senigallia, che lo definirono «Stella e porto alle nuove e dolci speranze dei popoli», in segno di gratitudine offrirono 150 scudi d’oro per la Guardia civica appena istituita. All’epoca vivevano nella città 390 ebrei: erano sensali, negozianti, vetturini, sarti e gestori di banchi oltre ad un gran numero di “industrianti”, coloro cioè che per vivere svolgevano i più disparati mestieri.

Anche se più tardi la fama di questo pontefice sarà offuscata dal triste caso Mortara, sarà tuttavia grazie alle libertà da lui concesse che, nelle terre dell’ex Ducato di Urbino, gli ebrei potranno tornare ad un’esistenza dignitosa anche se ancor lontana da quella appena assaporata nel breve periodo dell’occupazione napoleonica.

L’anno successivo, il 29 marzo 1848, Carlo Alberto concede agli ebrei del Regno Sabaudo la tanto sospirata emancipazione: a ciò avevano contribuito l’appassionato sostegno dei fratelli D’Azeglio, dello stesso Cavour firmatario con altri seicento eminenti cittadini di una petizione al Re, nonché del banchiere poeta David Levi.

E poi ancora nel 1849 viene proclamata la, sia pur breve, Repubblica romana che sanciva il suffragio universale maschile, l’abolizione della pena di morte e la libertà di culto.

Il rapido susseguirsi di così importanti eventi tiene l’animo degli ebrei italiani sospeso in quella vigile attesa che precede le svolte epocali della storia e son proprio coloro che più hanno patito ingiuste discriminazioni, coloro che troppe volte hanno visto deluse le legittime aspettative, son proprio loro a sentire che non è più possibile tornare indietro. Qualunque sia il prezzo da pagare, la lotta ora si fa più serrata, gli ebrei di tutte le comunità dell’Italia preunitaria si spostano volontari da uno Stato all’altro ovunque serva dar man forte alla Causa, mentre coloro ai quali sono già stati riconosciuti i diritti civili, si arruolano, né si sottraggono alle contribuzioni di denaro a sostegno degli insorti.

Nello Stato pontificio un comprensibile spirito di rivalsa, dopo secoli di sottomissione, infonde nuova linfa negli animi. Una rivalsa che non è “contro”, bensì affermazione di sé, sul piano sociale e persino urbanistico.

Quasi ovunque si abbelliscono le sinagoghe ed anche in Urbino non si attende neppure la fine del governo pontificio per restaurare il vecchio oratorio, anzi sarà completamente ristrutturato tanto che assumerà l’aspetto della Cattedrale, con tanto di abside, sia pure in proporzioni ridotte.

E’ lo stesso Arcivescovo di Urbino, monsignor Angeloni, che dà a Giuseppe Coen, presidente della comunità ebraica, il calco dei rosoni che ornano l’abside del tempio cristiano[35]. I lavori di restauro si protraggono per alcuni anni e solo nel 1859 il vecchio rabbino Salomone Ancona avrà la gioia di inaugurare la sinagoga rimessa completamente a nuovo sia nella struttura che nell’arredo, opera del più abile ebanista del tempo[36]. Non potrà invece vedere Urbino libera dal giogo dello Stato pontificio perché finì i suoi giorni nell’aprile del 1860.

Anno fatidico il 1860 per Umbria e Marche, liberate in settembre dalle truppe piemontesi con una campagna fulminea: l’8 settembre liberazione di Urbino e Pergola insorta, l’11 Pesaro, il 13 Senigallia poi il 29 la presa di Ancona. Pochi mesi prima della resa, il generale Lamorcière, a capo delle truppe papaline, per punire la comunità ebraica per il sostegno dato ai rivoltosi, aveva fatto demolire la splendida sinagoga levantina affacciata sul porto dorico[37]. A fianco del generale Cialdini vittorioso, immortalato nel monumento di Castelfidardo[38], c’è il suo segretario particolare, capitano Cesare Rovighi, fratello di quell’Angelo Rovighi, ebreo modenese, caduto in Crimea. Ciò riempiva di orgoglio gli ebrei marchigiani: del resto, anche molti di essi erano in armi, arruolati nella Guardia Nazionale; a Senigallia i fratelli Camerini, i Padovani, i Servadio, gli Ascoli e ben quattro della famiglia Zaban.

Urbino vede sette ebrei arruolati volontari nelle varie campagne mentre Lazzaro Moscati e Napoleone Sinigallia partecipano sia all’insurrezione del 1959 che alla liberazione della città nel 1860. Con il plebiscito del 4 e 5 novembre le Marche e l’Umbria saranno annesse al Regno d’Italia. All’epoca la popolazione ebraica era di 400 presenze a Senigallia, 167 a Pesaro e 158 in Urbino.

Anche se molti di loro sono ferventi mazziniani, tuttavia sull’onda dell’emozione, inneggiano a Vittorio Emanuele II Re d’Italia.

Per gli ebrei le disposizioni emanate, già sin dalla sede provvisoria di Senigallia, dal Commissario Governativo Lorenzo Valerio, compensano i sacrifici patiti: egli aboliva il tribunale del S.Uffizio e dell’Inquisizione, affermava l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle leggi, e soprattutto aboliva le interdizioni civili e politiche per gli acattolici, ponendo così fine alle condizione di inferiorità dei numerosi gruppi ebraici presenti nelle città umbre e marchigiane. In virtù delle nuove disposizioni e soprattutto della stima che la popolazione ebraica ha saputo conquistarsi con un lento, ma significativo processo di integrazione, nomi di ebrei appaiono sin dal primo momento tra gli eletti nei primi Consigli comunali del 1861 come a Senigallia in cui viene eletto Vitale Ascoli, poi Benedetto Padovano[39], e in Urbino, ove risultano eletti, il 4 gennaio 1861, Giuseppe Coen, anche presidente della Comunità ebraica, Alessandro Coen di Felice, che, per il suo generoso contributo alla Causa, riceverà anche la cittadinanza onoraria della vicina città di Urbania[40], e il giovane Placido Coen di Angelo, che verrà rieletto sino ai primi del Novecento.

A Pesaro Raffaele Bolaffi viene eletto nel gruppo ristretto della prima Commissione municipale provvisoria già dal settembre 1860[41].

Il Commissario Valerio decretava inoltre la soppressione di numerosi ordini religiosi assegnando ai Comuni il patrimonio di trenta conventi. I beni, per lo più terreni e conventi, messi in vendita dai Comuni, furono spesso acquistati da ebrei, gli unici sui quali non poteva ricadere la minaccia di scomunica lanciata dai vescovi contro coloro che fossero entrati in possesso dei beni appartenuti alla Chiesa.

Forse proprio per questo si ricostituisce l’antica Comunità ebraica di Pergola, ove si trasferiscono numerose famiglie di Senigallia come i Camerini, Almagià, Cagli, Mondolfo, acquistano terreni, già proprietà di ordini religiosi soppressi, e si fanno pionieri di una moderna agricoltura. Avviano inoltre industrie per la lavorazione di pellami, come nel passato, e di tessuti, aprono punti di vendita e successivamente sono chiamati a rivestire cariche pubbliche fino ad Astorre Camerini eletto sindaco della città.

Anche in Urbino sono numerose le Corporazioni religiose soppresse, come quella dei frati Cappuccini, il cui convento viene ceduto dal Regio Governo al Comune che lo destina a Pia Casa di Ricovero e, come ricorda la lapide posta nel nartece della chiesa annessa, è proprio un ebreo, Gioacchino Fiorentini, che finanzia, con altri tre benefattori compreso il Comune, i lavori necessari per la trasformazione, e ne sosterrà generosamente il funzionamento. Alla sua morte, nel 1892, lascerà eredi i suoi nipoti Angelo e Arturo Moscati, ma anche i vari istituti di beneficenza cittadini, quali il Ricovero stesso, l’Asilo d’infanzia “L. Valerio”, che egli stesso aveva contribuito a fondare con Giuseppe Valerio, fratello del Commissario governativo, l’Ospedale, la Società di Mutuo Soccorso e la Società dei Reduci, oltre ai molti correligionari in stato di indigenza[42]. Anni dopo sarà il nipote Cav. Angelo Moscati a donare al Comune una collina con la chiesuola di Loreto, per farne un Parco della Rimembranza, in memoria dei caduti in guerra.

In quanto al giovane Placido Coen, che abbiamo visto eletto nel primo Consiglio comunale e poi rieletto per decenni, lo troveremo anche nei consigli di amministrazione di tutte le principali istituzioni cittadine, a cominciare dall’Asilo d’infanzia “L.Valerio”, di cui fu presidente e amministratore e, dopo di lui, i suoi figli destinarono una rendita alla Villa dei bambini del Popolo, gestita dall’Asilo stesso[43]. L’intera cittadinanza nutriva nei confronti del Cav. Placido Coen un’immensa stima forse non solo per la sua proverbiale onestà e competenza, ma anche per la scelta della sua sposa, Allegrina Usiglio, venuta da Modena, nipote del patriota Angelo Usiglio, che con Giuseppe Mazzini aveva condiviso ideali ed esilio e che con lui era stato estensore dello statuto della Giovine Italia.

In Urbino quindi, come in altre città delle Marche, si va costituendo una borghesia ebraica perfettamente inserita nel tessuto sociale cittadino, nelle professioni, nell’imprenditoria e nella proprietà fondiaria. Alcune figure degne di essere ricordate emergono dal resto della popolazione ebraica come Riccardo Bemporad, avvocato impegnato nell’amministrazione comunale nelle liste liberali e benefattore della Società di mutuo Soccorso, Giuseppe Coen, eletto sin dall’inizio Consigliere «per aver efficacemente cooperato in Urbino ad affrettare i tempi nuovi» che accoglie nella sua fabbrica di conceria, lavoranti cristiani ed ebrei valutando con giustizia la scelta, ed anche per questo molto amato dalla cittadinanza: di lui furono scritte «parole di compianto e lode, tanto più che di uomini di questa fatta par che si vada perdendo la stampa»[44].

Già prima dell’Unità d’Italia Gioacchino Fiorentini aveva avviato una fornace di laterizi nella vicina Fermignano che resterà della famiglia sino a quando, a causa delle Leggi Razziali, il pronipote Ing. Corrado Moscati sarà costretto a venderla.

Ma un personaggio decisamente in anticipo sui tempi fu senza dubbio il Dottor Federico Coen, uomo dotato di grande cultura ma anche di spirito imprenditoriale, eletto per anni Assessore nell’Amministrazione comunale, impianta nel 1895 uno stabilimento di acque termali e fanghi nel vicino Comune di Petriano[45], e dirige la Banca Metaurense da lui stesso fondata.

Quando anche in Urbino si faranno sentire gli effetti della crisi che a fine Ottocento investe l’Europa, la Banca Metaurense fallisce, Federico Coen, è ben consapevole che i molti clienti della Banca hanno riposto fiducia in lui. Non resteranno delusi perché saranno tutti tacitati con i fondi rustici di cui era proprietario: è l’unico fallimento della storia in cui nessuno perderà un centesimo. Anche il fratello Arnaldo, poeta sensibile e uomo di cultura, seguirà la vocazione imprenditoriale di Federico, avviando un mulino e pastificio proprio a Perugia ove aveva preso in moglie Aldina della antica famiglia Servadio, perugina ma di origini pesaresi.

Ma non è soltanto in Urbino che gli ebrei dimostrarono il profondo legame con la città in cui erano vissuti per generazioni. A Senigallia, annessa al Mandamento di Ancona dopo l’Unità, si prodigarono a favore delle istituzioni civili cittadine ed anche di quelle cattoliche, a cominciare dalle famiglie di Vitale Ascoli e Benedetto Padovano.

A Pesaro nel 1886, la città, fiera di aver dato i natali ad un modello di liberalismo come Sara Levi, decise di apporre una lapide nella sua casa natale in Via del Ghetto Grande. In quell’occasione per la prima volta, il figlio di Sara, Ernesto Nathan, è presente in città e tre anni dopo, nonostante fosse di nazionalità inglese, ma grazie al conferimento della cittadinanza onoraria, poté essere eletto nel Consiglio Provinciale di Pesaro e Urbino, poi, con la “Grande nazionalità” conferitagli con Legge speciale dalla Camera dei Deputati, verrà eletto Sindaco di Roma[46]. Nei Musei Civici della città inoltre si possono ammirare anche oggi le ricche collezioni di quadri, mobili e suppellettili donate dalle sorelle Della Ripa ai primi del Novecento, in memoria del padre Cesare, che a Pesaro era sempre rimasto profondamente legato.

Nei primi decenni successivi all’Unità d’Italia la nuova borghesia ebraica appare da subito di tendenza laica e liberale. Era quanto temevano gli esponenti più religiosi e conservatori del ghetto: abbattuti i portoni era, sì, possibile uscire liberamente e, senza più l’odioso segno cucito sugli abiti, mescolarsi alla folla, e sentirsi simile ai propri simili, ma era anche possibile che gli altri “entrassero” liberamente tra loro alterando in qualche modo, tradizioni millenarie che la segregazione del ghetto aveva gelosamente custodito e tramandato.

E invece accadrà che quella sparuta minoranza, dopo aver dato un alto contributo di sangue e denaro per il sospirato passaggio dal Papa al Re continuerà a dare, esportando dal ghetto grandi e piccole cose a partire da quel comportamento biblicamente democratico nei confronti di ognuno senza distinzione di ceto sociale, alle ricette della cucina ebraica, che tanto incuriosivano le signore, ricette entrate poi nei menù delle tipicità locali, e persino alla “parlata giudìa” per cui giunto in cima ad un’impervia salita, anche un non ebreo esclama ansante “sono sciattato”[47].

 

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NOTE

[1] Il Duca Francesco Maria II Della Rovere mostrò dal balcone del Palazzo Ducale il neonato nudo e i pesaresi che affollavano la sottostante Piazza Granda, veduto che era maschio, si abbandonarono a scene di giubilo, poi, invaso il quartiere abitato dagli ebrei, saccheggiarono case, botteghe, banchi e la vicina sinagoga di via delle Zucchette. Il Duca volle il rendiconto dei danni e ripagò ogni cosa.

[2] Sotto il nomignolo di Livornina va l’insieme di lettere patenti o Costituzione della Nazione Ebrea, del 10 giugno 1593, con la quale Ferdinando I dei Medici invitava «tutti i mercanti di qualsivoglia nazione» a stabilirsi a Livorno e a Pisa, offrendo libertà di commercio, di culto e tutela dall’Inquisizione. In queste due città non sorse mai il ghetto.

[3] Anonimo, Memorie Historiche dedicate a Domenico Riviera, Amsterdam 1723, p. 1.

[4] Ibid., p. 44.

[5] Ibid., p. 61.

[6] A. Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Einaudi,Torino 1963, p. 299.

[7] Si tratta dell’editto di papa Paolo IV del 14 luglio 1555.

[8] M. Moranti, Il trasferimento dei Codices Urbinates, Urbino 1981.

[9] Bibl. Univ. Urbino, Consigli Comunali (di qui in avanti BUU.FC), vol. XII, cc. 114-115.

[10] Archivio di Stato di Urbino, F. Scudacchi, vol. 2056, si veda il riferimento in M.L. Moscati Benigni, Urbino 1633: nasce il ghetto, in S. Anselmi e V. Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche, Quaderni monografici di “Proposte e Ricerche”, 14(1993), Università di Ancona, pp. 121-138.

[11] M.L. Moscati Benigni, Nella sinagoga trecentesca, l’antico Aron…, “Notizie da Palazzo Albani”, 1(1990), Università di Urbino, p. 5.

[12] Ead., Urbino 1633: nasce il ghetto, cit., p. 135.

[13] S. Manenti, Tre ipotesi per il ghetto nel 1631, “Pesaro città e contà”, 1(1991), p. 106.

[14] M.L. Moscati Benigni, La scola italiana di Pesaro, “Pesaro città e contà”, 3(1993), Società pesarese di Studi storici.

[15] Ead., La sinagoga sefardita di Pesaro,“Pesaro città e contà”, 5(1995), Società pesarese di Studi storici.

[16] Morto il duca Guidobaldo da Montefeltro, senza eredi, gli successe Francesco Maria, figlio della sorella Giovanna andata sposa a Giovanni Della Rovere, Signore di Senigallia. Così al Ducato di Urbino verrà annessa la città di Senigallia con le sue adiacenze e possessi compreso il Vicariato di Mondavio.

[17] M.L. Moscati Benigni, Marche Itinerari Ebraici, Marsilio, Venezia 1993, pp. 151-154.

[18] Archivio Storico di Pesaro, Capitoli del Ghetto di Senigallia dell’Ecc.mo Cardinal Cybo, 1648, Delegazione Apostolica. Tit. XI Miscellanea, b. 28.

[19] R.P. Uguccioni, Note sul “pedaggio” degli Ebrei nella fiera di Senigallia, in Anselmi e  Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche, cit., p. 321.

[20] Consigli Comunali, vol. XII, BUU-FC, c. 126 (8 gennaio 1634).

[21] Jus gazagà = diritto di possesso cioè una forma di inquilinato perpetuo.

[22] G. Luzzatto, I banchieri ebrei in Urbino, Padova 1903, p. 59.

[23] Tre grandi festività ebraiche sottolineano l’importanza della libertà: Pesach, libertà fisica, l’affrancamento dalla schiavitù d’Egitto; Shavuòt, Pentecoste, ricorda il dono della Torà perché solo chi sa è in grado di pensare liberamente; Sukkòt, festa autunnale degli ultimi raccolti, costituisce l’affrancamento dal bisogno, solo chi non è costretto a tendere la mano è veramente libero.

[24] Milano, Storia degli Ebrei in Italia, cit., p. 347.

[25] M.L. Moscati Benigni, Sinagoghe di Urbino e storia del ghetto, Comune di Urbino, 1996, pp. 16-22.

[26] Dal recente inventario risultano 35 Sifré Torà databili tra il XIII° sec. e il XIX°.

[27] Archivio Del Tempio di Urbino, (da qui in poi ATU) Diplomatico, segnatura 12.

[28] Ivi, Diplomatico, segnatura 16.

[29] Ivi, Lettere 5 sett. 1826.

[30] P. Uguccioni, Note sulla comunità ebraica di Pesaro nel secolo XIX, “Pesaro città e contà”, 7(1996), p. 92.

[31] È un suo discendente che sigla «Questo libro è di David Gentiluomo Pesaro Pesaro Pesaro[...]» il prezioso manoscritto, è stato tradotto da Rav. Elio Toaff, con note di U. Nahon e G.Sarfatti, con il titolo Sefer ha-Maftir di Urbino pubblicato dalla Federazione Sionistica Italiana, ed. Tarshish Books, Gerusalemme 1964.

[32] C. Colletta, La comunità tollerata, “Pesaro Città e Contà”, Link 4(2006), p. 147.

[33] G. Patrignani, I Della Ripa banchieri ebrei di Pesaro, “Studi sulla comunità di Pesaro”, Fondazione Scavolini, Pesaro 2003, p. 79.

[34] A. Castracani, Gli Ebrei a Senigallia tra Sette e Ottocento, in Anselmi e Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche, cit., pp. 173 e174.

[35] Moscati Benigni, Sinagoghe di Urbino e storia del ghetto, cit., pp. 10-13.

[36] L’ebanista Francesco Pucci nato a Cagli (PU) il 1817 lavorò al coro della Chiesa di Fonte Avellana, eseguì lavori di intaglio e intarsio con avorio e madreperla, apprezzato anche alla corte di Vienna.

[37] Moscati Benigni, Marche Itinerari Ebraici, cit., pp. 34-36.

[38] Il monumento, a pochi chilometri da Osimo, è opera dello scultore ebreo Vito Pardo, fuso nel 1912, sono trenta figure con in testa il generale Cialdini, che il 18 settembre1860 sconfisse le truppe pontificie, fatto a cui fece seguito l’annessione delle Marche al Regno d’Italia.

[39] Archivio Storico di Senigallia, Consigli Comunali 1861, 15 maggio 1861.

[40] Archivio Comunale di Urbania, Atti consigliari 1861-1862, 5 dic.1861.

[41] R.P. Uguccioni, Domenico Guerrini primo sindaco della Pesaro italiana, in M. Severini (a cura di), Le Marche e l’Unità d’Italia, Edizioni Codex, Milano 2010, p. 268.

[42] Il Corriere Metaurense, periodico settimanale, Urbino 11 dic. 1892, p. 4.

[43] O.T. Locchi, La Provincia di Pesaro ed Urbino, ed. Latina Gens, Roma 1934, p. 430.

[44] Il Corriere Metaurense, cit, 31 gennaio 1892.

[45] Ibid., cit. 28 luglio 1895.

[46] P.D. Mandelli, Ernesto Nathan cittadino pesarese, in  Anselmi e Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche, cit., p. 356.

[47] Il termine deriva dall’ebraico shechitàh, cioè l’azione dello sciattino, il macellaio rituale, che recidendo con un unico gesto trachea e giugulare, “toglie il respiro”. La forma dialettale, molto in voga nelle Marche anche in ambiente non ebraico, si usa sia in senso reale ad indicare uno stato di sfinimento, sia in senso figurato come “preso per asciatto” proprio di chi si è arreso ad una fastidiosa insistenza.

 

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