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DON AMATO CINI

FERMIGNANO 1919 - Urbino 1987

 

 

 

PREMESSA

di Alessandro Miano

 

 In calce alla prefazione del suo primo libro : « Le Rive del tempo » salutavamo in Amato Cini sicura promessa.

A meno di due anni d'allora non ci sembra avventato dichiarare che la lettura di questi versi ci danno un senso più nuovo di traiettoria ancora alta nei cieli. Amato Cini ha ormai una personalità tutta sua, tanta e tale che nella varietà degli umori della civiltà
odierna s'innesta, pur nella vivacità della sua presenza, con quel certo distacco che lo purifica, in una linea classica e aperta di stati d'animo e di pensieri. Vi trascorre dentro una forza operante, vissuta e offerta come in responsorio, a voce corale. E così, oltre ogni estetica o maniera determinata di corrente, egli innalza il canto per zone ignote e nuove, familiari solo ai poeti autentici.

La poesia di Amato Cini, a volerla definire, è di tipo intimista, un soffio di luce calda che tutta la pervade. Potremmo dirla anche immaginifica, non nel senso epidermico — si badi bene — ed ormai scontato di modi, bensì nel tono di una immagine tersa e quasi trasumanata: il pensiero si fa sentimento e senso acquisito della nostra umanità. Sicché la parola fragile e pura, come cristallo percorso da limpida vena, s'abbrividisce e si scarna nella sofferenza acquisita del tempo, fresca e fusa al significato recondito, e tuttavia suggestivo, di cui è simbolo e trasognata parvenza.

Il poeta possiede il senso oscuro dell'angoscia, quasi un motivo esistenziale, che è sempre nel cuore dell'uomo che si attua, nella ricerca sempre più profonda (e più nostra) di una certa perfezione umana:

non so perchè oltre
fiorita pace di campi
qualcosa d'oscuro s'annida.

Egli sente che l'uomo nel suo significato e nella sua incidenza terrena è solo, vive solo col suo bene e col suo male, e

non v'è ormai d'agnello
che... conduce a illuse contrade. 

Solitudine questa, fatta di realtà rotta e desolata, di «animo inquieto e stupore», di «angoscia di cielo», di «lividi scogli». Bava e fragore di vento, questo sempre presente, incide (e disperde semmai) le gemme, trascorre e non legge ciò che nel tempo s'è inciso. E un continuo oggi si snoda, rinverdisce tumido, crogiuolo fulgido e fragile d'occhiuti e scoppiettanti boccioli, immemore di ogni «sostanza del mio pensare» che riaffiora labile e accolta come «muffa da umido muro».

Per cui nella viva essenza di luci e di odori, nella contingenza infinita di attimi, l'occhio non sa che di ramarri:

fuggenti per strane paure 

dato che su ogni abitare e tendere balza sempre un risucchio di gravitazione che tiene sospesi «stridi rauchi d'uccelli».

All'ansia grande dell'uomo (questo non potere salire più oltre e sempre di più) è come se nel «vuoto dell'aria » si fossero consunti gli « specchi dell'anima ».

Ma il cielo esiste in questa vocazione azzurra di bianche mani e di spiegate ali che tendono a librarsi. Seppure questo cielo si fa sempre più alto, sicché deluse rimangono le nostre richieste, inutili sforzi che solo la Grazia può redimere e giustificare in funzione della nostra dolorosa sofferenza inevitabile, per questa povera scarnificata nudità di voce. Oltre l'allegria del verde e del sole, la sua aerea vocazione, l'uomo sentirà sempre una  «danza di cervi sui monti ».

E' da qui che nasce e si rivela nel poeta tutta la nostalgia e le tristezze, lo scoramento e le riprese, il ricordo buono di casa, questo vivido punto d'incontro tra l'essere e l'infinito, di presenza fatta di piccole povere pietre e di poveri cuori che nessuna forza trattiene.

La poesia di Amato Cini è come la stagione delle migrazioni — favoloso rimpianto, smarrita certezza — con la stessa fragranza di vita intatta che rimane come fiore racchiuso nel cuore dell'uomo, con la sua vocazione fervida d'azzurro di cieli e di luce di Dio.

Alessandro Miano

 

 

da i risvolti di copertina:


Scoprire un poeta nuovo costituisce ancora per noi un atto di fede nella vitalità disinvolta e suggestiva della poesia moderna. Avevamo incluso questo giovane nel vol. 1° dell'antologia «
Poeti italiani del II Dopoguerra» per certi suoi toni del tutto inediti di assorto smarrimento, di nuda introspezione, percettibili e densi, per quella sua vigilanza sicura dello stile.

Amato Cini ci rivela ora l'itinerario essenziale di una anima, tipicamente moderna, esistenziale, che dopo una laboriosa angoscia necessaria, lungo un sentiero di im». precisabili armonie, approda al richiamo improvviso della «certezza del cielo». E non va disperso (è questo forse il suo merito maggiore, la sua caratteristica inconfondibile di poeta italiano) quel sapore mediterraneo di casa nostra, fatto di cieli aperti, stupefatti silenzi, di magiche parole raccolte alla rive del tempo.

 

 

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INDICE

N.B. Cliccare sulle voci sottolineate

 

NON C'E' GRIDO

 

Non c'è grido

pag. 13

Sonava la selva

14

Anima antica.

15

Tu brucerai sangue e parole

16

Lividi scogli

17

Lapidi antiche

17

Mia casa

18

Aria sgomenta

18

Fanciullezza nei prati

19

Noia

20

Franare di cose

21

Non c'è grido

21

Estrema luce ...

22

Rifugio

22

Vanno i giorni dei fiori

23

Tempo d'autunno

24

          INTERMEZZO

 

Mente, conchiglia sonante

29

A dolce annegare di luna

30

Aprile

31

Scotani rossi

32

Cespugli di fuoco

33

Fauno odoroso di biade

34

Inverno

35

Nudi conviti

36

          ULIVI TRADITI

 

In coena Domini

39

Dal tuo seggio scabro di nubi

40

Non è giorno ancora

41

Nave sulla duna

42

Fischiano al vento le canne

42

Nessuno ci chiama beati

43

Lamento della notte oscura

44

Ulivi traditi

44

Fratelli stregati

45

Fuoco, figlio del cielo

46

Sequenza delle ore incerte

48

Signore dell'eterna stagione

50

 

 

 

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Non c'è grido

 

La mia terra ha dolcissimi fiumi,

vorticose correnti.

La mia terra si libra

tra cieli ed abissi,

s'artiglia come una strega,

giace in profondi riposi.

Il mio cuore è questo paese

che arretra ed avanza,

il vento che crea e distrugge,

il fiore falciato

che sempre risorge.

 

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Sonava la selva


Quando mi generava la madre,
che aveva dei monti nativi
l'aspro abbandono
ed anche dei galli,
attorno alle mete di grano,
improvvise allegrezze,
animo inquieto e stupore
mi contesero il cuore.
E forse perchè
bizzarre armonie sonava
la selva, di marzo,
in faticate esplosioni di vita
tra forti rabbuffi e subite luci,
vertigine oscura m'afferra,
m'inondano fiumi di sole.
Ho del marzo, che affiora
tra tenere foglie e scosse di pianto,
l'enigma dei giorni perduti
e pur fatti sostanza
del mio pensare,
spighe di grano in giovane sangue.
 

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NON È GIORNO ANCORA

Le campane, mio Dio,
hanno invaso la notte
del tuo risveglio,
tutti gli incensi, la notte,
sono stati bruciati,
tutte le pietre
diventarono fuoco,
han fumato tutte
le coppe di Sangue,
si sono rotte le gole nel canto.
Ma dietro le soglie dell'alba
hanno riso i galli di Pietro
nei venti e nel cielo.
Dietro le soglie dell'alba
è cresciuta la pianta di Giuda.
Non mi dite, dunque, ch'è giorno.
Non siamo ancora
grani d'incenso,
coppe di sangue,
fiumi di angeli.
Non mi dite ch'è giorno.
I pipistrelli sbattono ai muri,
fiutano i sciacalli la preda.
Non può essere giorno.
 

 

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MIA CASA

Mia casa di povere pietre,
impalpabile sogno
che sfuggi in aspro mattino
irto di ghiacci,
invano per me
frondeggiano ancora
le mie querce, al tramonto,
impazzite d'uccelli.
Sugli alti cerri
anche la gazza abbandona
i nidi guastati.
Ma almeno per quella
primavera boschi ridesta
di uguali rifugi.
 

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SCOTANI ROSSI

Scendono all'ultimo sole
fanciulle dai colli
con fasci di scotani rossi.
Spandono odore di fresche pinete
trasvolano quasi colombe
sul verde dei campi.
Oneste come in un rito
che uguale ritorna,
hanno di pietre non tocche
parole native,
vesti sfiorate d'azzurro.
Scendono e vanno
a un paese di accesi mattoni.
Recano in dono
fasci di scotani rossi.

 

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SIGNORE DELL'ETERNA STAGIONE

Signore dell'eterna stagione,
innominabile Essenza,
che pure nel tempo
nome avesti com'uno di noi,
che silenzio di cieli t'oppresse,
a questa logora sera
ci ha vomitati com'alghe
il mare del giorno.
La cetra fu urlo di pietre,
fischio di serpi.
Non seppe trovare l'accordo
fra il cielo e la terra.
E pure nessuna
delle nostre armonie mancate
verrà meno a implacabile specchio
degli occhi tuoi fondi.
Nulla è più triste,
d'un paese deserto,
d'un canto incompiuto.
Chi saprà ridirne la pena,
chi ricomporne i ritmi spezzati?
Si scompigliarono i fili
del tuo volere.
Chi saprà ritrovarne il principio?
Tu vedi che errata
è come di stanchi fanciulli
la pagina nostra.
Non ti è sufficiente, Signore,
gridare di steli,
pianto d'un germe
che non potè diventare corolla?

 

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