DON AMATO CINI - 2016 Ricordo all'UNILIT Alla scoperta di don Amato Cini poeta di Germana Duca |
Lezione del 26 Febbraio 2016 all'UNILIT sede di Urbino
RICORDO DEL POETA DON AMATO CINI
Alla scoperta di don Amato Cini poeta di Germana Duca Ruggeri
Appunti tratti dal blog di cultura: https://www.fanocitta.it/?s=Amato+Cini: di Germana Duca Ruggeri
Amato Cini, nato a Fermignano il 4 marzo 1919, si è dedicato alla poesia per oltre trent’anni: dall’esordio, avvenuto nel 1957 con Le rive del tempo, ha continuato a scrivere fino al 26 novembre 1987, il penultimo giorno della sua vita, pubblicando ben otto raccolte. Egli ha lasciato anche molti testi inediti, poi confluiti insieme ad alcune foto nel libro postumo Tra cielo e abisso (1989), voluto dal nipote Abramo Cini “per fare cosa gradita ai suoi estimatori e soprattutto per completare il suo messaggio. In Amato Cini l’adesione alla vita appare quasi sempre legata a inquietudini e turbamenti dell’anima. Un’anima sensibile, che capta l’ansimare e l’aggrovigliarsi del mondo, il travaglio della natura, l’attesa dell’umanità, ora sopraffatta dalla paura, fra sussulti di violenza e degrado, ora consolata dalla presenza divina, misteriosamente avvertita come scatto di bellezza e Ragione di tutte le cose. Di tale intreccio parla l’autore stesso, sul finire degli anni Sessanta, in un’autopresentazione quando scrive che, nella sue poesie, il senso del caos biblico è tutt’uno con l’azione dello Spirito, messaggero di cieli nuovi, aperti alla speranza. Una speranza cristiana e non solo, allargata com’è alla ricerca di altre salvezze possibili, fra cui quella offerta dalla poesia. Amato Cini conosce bene il potere salvifico della scrittura poetica. Barriera di luce da opporre al nulla, essa trasforma brandelli di vita in un abito nuovo, fiorito. Un po’ come accade in natura quando, nelle selve incenerite dal fuoco, rinascono giovani rami. La poesia di Amato Cini è densa di richiami naturali e culturali; la fluidità compatta del suo linguaggio ha un ritmo originale che scaturisce dalle fibre di una persona vera, dallo spazio delle sue radici, dal tempo da lui attraversato, fra mutamenti inarrestabili in ogni campo. Tanto altro ci sarebbe da dire, ma affidiamoci alla lettura dei testi per scoprire i tratti salienti della vicenda umana e spirituale del nostro poeta sacerdote. Egli, come sappiamo, nasce ai primi di marzo. La madre, con le sue malinconie, ereditate dai monti nativi, e le improvvise allegrie – come quelle dei galli intorno ai covoni di grano – gli dona animo inquieto e stupore. Anche il mese appena iniziato, con la selva che torna a suonare le sue bizzarre armonie, con i temporali e le improvvise schiarite, lascia in lui un’impronta durevole. Il fratello del padre, Luigi, ricordato come aratore e fauno odoroso di biade, tranquillo e vigoroso, è il suo mito solare. Lui – che lavorando cantava e fischiettava, riposava all’ombra di querce giganti e, a sera, prevedeva il tempo osservando il cielo – gli ha trasmesso la forza del sole. Il poeta la ritrova ogni anno al fiorire delle ginestre. La vita prosegue, lo splendore dei colli sembra lontano da Urbino: qui c’è solo un balcone senza fiori e tanta solitudine. Per lenirla Amato, come un bambino che ha paura del vuoto, invoca e attende il Signore. In un mondo insidiato dalla devastazione e dall’indifferenza, anche Dio sembra nascondersi, farsi difficile. Ma il poeta continua a cercarlo e, nel buio, a chiamarlo sua “disperata certezza”. Con intelletto lucido e turbato, il poeta continua a indagare la realtà, dominata dall’enigma dell’uomo terribile all’uomo, creatura ebbra di sangue, stonata come un cembalo rotto. Una visione meno cupa troviamo nei versi in cui il poeta ricorda, viaggiando da Pesaro a Urbino, sullo sfondo di un paesaggio inconfondibile, la scolaresca pronta alla maturità da cui si è appena accomiatato. Toccante è pure il ricordo di se stesso ragazzo vicino alla madre, che lo incoraggia a non avere paura mentre attraversano insieme La passerella sul fiume Metauro, per recarsi da casa al camposanto. Nel poemetto, la memoria – fra suggestioni paesaggistiche e mitologiche – si proietta su un presente difficile, dominato da avidità e ignoranza. Ormai ridotta a niente la civiltà contadina, resiste il valore dell’insegnamento materno. Anche poco prima della fine Amato Cini riflette sulla speranza. Definendosi “astronauta dell’anima”, guarda con stupore il creato e gli spazi soprannaturali in cerca della Ragione “che incide invisibile umani destini”, desideroso di poter “sorprendere l’eco dell’Aquila librata sopra le acque”. Persino nella pena dei giorni, si può dunque avvertire un preludio di vita. Proprio come succede a un boccio di rosa che prima di aprirsi, senza vederla, sente lievitare la luce.
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