Morte, limite estremo, muraglia
in che s’infrangono gli idoli nostri,
quando amore nativo ci spinge
a indagare il mistero e le notti profonde,
le fughe lunari e le forme
degli atomi e delle radici,
o quando, balenandoci ali orgogliose,
quasi dei a colmare gli abissi,
aggrediamo le stelle,
mentre tutto ci culla nel canto
solare in ebbri riflessi,
di te subito viva coscienza
ci preme come qualcosa d’oscuro
che dentro ci nasce,
cresce e spossa le membra.
E vorremmo partire
ma come tra selve per monti
e lunghi sentieri,
e d’un tratto sentirci la spoglia antica
cadere, ma in piedi e farsi
gli occhi profondi e la carne leggera;
vorremmo sparire
ma come le foglie che in rosse risate
si staccano dagli alberi grandi;
vorremmo dissolverci
ma come la neve sui germi che urgono.
Invece tu soffi tenebrosa nel sangue,
e noi ti beviamo furtiva
nei germi di tutta la terra
perché come il mare sei vasta,
e non v’è nave né scampo.
O morte, qualcosa nell’io profondo,
non la ragione, trema e rifugge.
Così, instabili pietre
che sporgono dagli alti dirupi,
tutti a gridare con voce di sabbia
perché non sappiamo uguagliarci alle foglie,
risibili eroi colmi di fiabe
cui non giova sapere che a vortice
cadano i templi e le case
e si consumino gli astri
né che sia la terra polvere d’ossa
assorbita dai vivi,
perché si fa prato la carne dell’uomo,
ventre di lupo
ali di falco, farfalla.
Per questo, morte, più non ti chiamo
limite estremo, muraglia,
ma forza che muti immortale
nel tuo giro volti e stagioni,
che sempre origini stelle su stelle
al soffio di Dio.