Luciano Mastellari legge
"L'ULTIMO CANTO DI
GIOBBE"
Clic sul triangolo per avviare la
lettura
L'ULTIMO CANTO DI GIOBBE 1 E come Giobbe sentì venir meno il suo giorno, sotto le stelle mute nel vuoto immenso cantò sulla cetra l'ultimo canto all'Antico dei giorni: Quando il melograno era in fiore e come labbra s'aprivano al sole le rose, vidi improvviso dal cielo irrompere il fuoco e la terra tremare, e il suo grembo squarciarsi in crepe e voragini. Incombeva il cielo livido e vuoto sul mio capo innocente, e in un silenzio di pietra invocai i miei figli dispersi, maledissi col sangue impazzito il giorno che nacqui, e fui un lebbroso reietto tra sabbie e deserti, e mi contamina ancora un acre odore di fulmini. 2 Non so come, ma un giorno da un cerchio di tenebre emerse l'aurora, e rifluiva il mio sangue, e l'usignolo cantava, saltava la gazzella sui colli. Ritornavano i giorni colmi di rose, e io generai rugiadose, splendide figlie. Ma ora e per sempre si dissolve il mio cuore, si rompe la fune e l'orcio si spezza sul pozzo e tacciono i passeri, e nostalgia mi prende delle figlie del canto: odorava Cassia di margini erbosi, luminosa era Fiala - di - stibio, occhi di mare, aveva Colomba l'alito della nuova stagione, e ricordo canti e danze armoniose sull'erba, e rivivo i giorni della rosa e dell'arco. 3 In questo brivido estremo di luce a me che maledissi l'aurora impassibile al primo mio pianto, che venni a contesa con l'Antico dei giorni, ora giovano ritmi sapienti per dire il difficile canto del vento ch'io udivo strisciare sulle aride pietre, sul giro dei fiumi, sulla forza immortale che volti muta, unica e varia. Per sapere vissi lunghe stagioni e mai ne fui sazio, più volte fui morto, più volte tornai alla vita, e sempre la bevvi come nomade l'acqua nel deserto feroce. 4 Ora ora un altro giorno mi prende, vertiginoso giorno, e mi stringo sul petto l'arco e la cetra tra erbe e profumi di cose mature. Non sia questa la corsa del cavallo stramazzato nel fosso, la beffa infinita, perché urlerei sull'abisso con l'urlo di mille uragani. Non è possibile che il giorno mi muoia, che la pietra grigia e il vuoto del vuoto siano mia dimora per sempre, che il sangue si perda, e la memoria non duri. Più beati allora i germi infiniti che durano un'ora, e non sanno che sia morire. Ma io sono l'edera sui muri tenace, e salgo e canto con le mie ferite, col profumo di tutta la terra. Come nei giorni della rosa e dell'arco. 5 E poi ch'ebbe il vecchio finito il suo canto all'Antico dei giorni, per l'ultima volta vide salire altissimo in cielo un arco di luna.