Giancarlo Ceccnini GIARDINO D'INVERNO |
ISBN 88-392-0414-8 1997 Edizioni QuattroVenti Snc, Urbino Finito di stampare nell’aprile 1997 con i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino |
EDITORIALE La prima raccolta di Giancarlo Cecchini si involge nelle suggestioni e nei ricordi di scuola, riflettendo e assimilando nella scrittura un rimuginio di parole e figure lasciate crescere e screziare sopra un gusto proto-novecentesco - una sorta di impressionismo raccontante e sonoro, introspettivo e pur anche minuzioso nei riferimenti alle circostanze ed ai luoghi, che fa tesoro della tradizione a cavaliere tra Otto e Novecento per spingersi alla volta della disposizione immaginale che gli è tipica... Il fatto è che Cecchini nutre un’immagine di poesia partecipante già con la propria forma di una dimensione elettiva, mai esteriorizzata e invece interagente con una pacatezza di espressione che accoglie in sé i contrasti e le scoperte, l’istanza esistenziale e un’ottica generazionale e geografica, che porta anche a pensare ad autori dell'area urbinate come Volponi e Piersanti... Il ricordo è il punto decisivo della poesia di Giancarlo Cecchini: l’attimo di sospensione dall’esperienza circostante e da ogni contingenza, specie esistenziale, in cui possa alfine avvertirsi lo “svolgere del tempo”, con i suoi sensi eterni ma anche con le evoluzioni e le revulsioni della storia. Gualtiero De Santi
di Gualtiero De Santi Potrebbe indurre un qualche sospetto l’uso frequente che è in Cecchini della rima come di qualcuno che, irretito in un invincibile preconcetto epigonale e non sempre al passo col mondo, logorasse l’ispirazione nell’elisione inevitabile di un gusto e una forma perenti. Eppure, l’ultima poesia italiana (da Franco Fortini a D’Elia) ha ben recuperato la disposizione di senso affidata alla metrica e alle incidenze retoriche, pur dentro un orizzonte di contemporaneità: senza che tale scelta dovesse marcare una differenza oppure determinare un’interruzione e una cesura sul piano espressivo. Vero è che la prima raccolta di Giancarlo Cecchini si involge nelle suggestioni e nei ricordi di scuola, riflettendo e assimilando nella scrittura un rimuginio di parole e figure lasciate crescere e screziare sopra un gusto protonovecentesco una sorta di impressionismo raccontante e sonoro, introspettivo e pur anche minuzioso nei riferimenti alle circostanze ed ai luoghi, che fa tesoro della tradizione a cavaliere tra Otto e Novecento per spingersi alla volta della disposizione immaginale che gli è tipica. Ecco ad esempio in Infanzia: «di colpo uno schiocco veniva dal ciglio / dell’orto, quale suono di secco / percuoter di sassi, con cui segnalava, / la capinera, che il rischio arrivava». I detriti e i riporti letterari da Pascoli a Montale appaiono visibili. Ma essi non hanno tanto in mira di rappresentare una falsa imitazione quanto invece di introdurre a quel che si presenta più intenso e immaginoso alla fantasia: «Così adesso mi perdo al pensiero / di quando correvo al sorger del sole, / nel viale», che è in qualche modo un impennarsi della linearità discorsiva del testo verso un aleggio e un abbandono al proprio mondo interiore. Corre in ogni caso una ben precisa corrispondenza tra il senso delle cose avvicinate coi versi e quel calcolo di regole e di leggi deferite alla metrica, come se un ordine finito trapassasse sconfinatamente in una rete pur libera di rispondenze espressive. Nelle composizioni di Giancarlo Cecchini, la gestione del linguaggio tenta all’inizio di sottrarsi alle giocolerie e agli imperativi della rima, ma poi la zona dove si spiega la vita lirica si integra irremissibilmente ai moduli conchiusi (si veda il caso dei sonetti). Il fatto è che Cecchini nutre un’immagine di poesia partecipante già con la propria forma di una dimensione elettiva, mai esteriorizzata e invece interagente con una pacatezza di espressione che accoglie in sé i contrasti e le scoperte, l’istanza esistenziale e un’ottica generazionale e geografica, che porta anche a pensare ad autori dell’area urbinate come Volponi e Piersanti. Poesia dice una lirica è allegrezza e musica, ma insieme essa è amarezza e profilo destinale. Ecco dunque che, sulle sue svolte, può adunarsi la vita nel momento in cui è prossimo il varco verso la maturità, con l’assillo per il tempo trascorso, per le figure scomparse, in primo luogo la paterna, e col dolore che si scioglie in visione e in fabulosa e concreta assimilazione del passato. L’«eroico tempo antico» in attrito con l’oggi segnala l’anima divisa. Alla quale sovvengono le parole abbandonate alle correnti del ricordo, delicate e lievi, e il defalcarsi delle frasi nella modularità di inversioni tra complementi e soggetto, tra l’aggettivo ed il nome, che rilevano di un’eleganza di dizione dal segno classico tuttavia temperata dall’eloquio familiare e diretto. Nel silenzio e nel tepore della propria dimora, le immagini interiori, o anche quelle del passato, dell’adolescenza, tornano a galleggiare sull’esca del ricordo e così a sovraccentuarsi. Lo slittamento modulante dei piani tonali conserta la materia espressiva, dal rilievo paesaggistico e naturale alla corposa consistenza dell’eros, dai momenti introspettivi al tocco piano e conciso di un pensiero riflessivo e memorante. E in fatto il ricordo è il punto decisivo della poesia di Giancarlo Cecchini: l’attimo di sospensione dall’esperienza circostante e da ogni contingenza, specie esistenziale, in cui possa alfine avvertirsi lo «svolgere del tempo», con i suoi sensi eterni ma anche con le evoluzioni e le revulsioni della storia. Il processo di separazione dall’esterno segue strade di luce che si rifrangono nel buio. I moduli sono gli uguali della poesia otto novecentesca, quando battono il versante dell’accensione epifanizzante. Si parte da un disagio, da un malessere; poi ecco l’avanzare della sera, il brillio delle stelle, l’intermittenza e lo scemare dei rumori. Tutto ciò per dare accesso ad altre voci e visioni, alle prime contigue, ma in grado di condurre l’espressione verso i propri snodi, sospinta metaforicamente dal vento leggero delle parole. Dietro tale abbrivio non stupisce che la coscienza, sciolta dalle gore d’ombra del cuore, sappia infine ricoverarsi in quelle selve ombrose, nel cui folto si rinserra simbolicamente una vita che «fugace ci sfuma tra le dita» ma che lì nella ritualità riservata e sacra del gesto poetico può assurgere ad altra pienezza e a una più salda verità. Gualtiero De Santi
Si ripeteva, mentre salivano
le faville
Stupiti, non capivamo la fortuna
Perché questo lamento
giunge ancora,
Torna il ricordo di quando
mi svegliavo
Sono arrivati i giorni della
merla,
Nell’ora in cui comincia ad
imbrunire
Appena è buio, al verso
dell’assiolo,
La notte avanza e, stanco, il
contadino
E questo oggi è solo un mio
ricordo,
Forte l’odore del pane appena cotto
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(Cliccare sulle voci sottolineate per leggere la poesia) Presentazione Pag. 5 Poesia » 11 STAGIONI Nati nel dopoguerra » 15 Infanzia » 16 Via del Popolo » 18 Al focolare » 19 Candelora » 21 Emigranti » 22 Assurdo gioco » 23 Manoscritto » 25 Domande » 26 Il buio » 27 Maturità » 28 Non ho sparlato dell’amor perduto » 29 Lamento » 30 Amo quel verso ormai dimenticato » 31 La notte » 32 Quando mi sento come il bevitore » 33 Mostrami il voi del falco pellegrino » 34 La rupe » 35 Fine d’un inverno » 36 Nel parco » 37 Non devi mai tu, uomo, trascurare » 38 Giardino d’inverno » 39 L’eco dei tempi antichi » 40 Epifania » 41 Nevica sulle foglie » 42 Giocoso pomeriggio » 44 Oasi della Badia » 45 Nella nebbia » 46 Ombre di sera » 47 I giorni della merla » 48 Vecchiaia » 49 All’alba » 50 Quattroventi » 51 Finestre » 53 Estate del 1944 ad Urbino » 54 14 luglio 1944 - Fucilazione in Urbino » 55 Guerra » 56 L’immagine di guerra ricorrente » 57 Sarajevo » 58 Lacrime spente (Esodo da Vukovar) » 60 Paesi » 61 I BOSCHI SACRI Oltre il fiume » 65 Il bosco » 66 Dimenticare » 67 Nel fitto della vita » 68 All’imbrunire » 69 Il silenzio » 70 Il rito » 71 La vita » 72 L’impronta » 73
Note
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È musica. Così il tenue lambire del
vento
È gioia come l’attimo dolce in cui
sento, E amarezza, che ora ti porti nel cuore da quando
lo sguardo abbassasti dalla fioca
cometa, E destino, come un appiglio che ti sfugge via.
Avanza ormai la sera, Avanza e m’avvolge il buio.
Intorno deboli luci limitano gli spazi
Come quel giorno,
Un giardino d’inverno:
Di tornarci, io penso,
Ora posso solo dimenticare:
Nel pomeriggio, era giorno di festa,
Era il mio nome e tu lo ripetevi
Lenta la tua stagione poi si spense:
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