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Ercole  Bellucci:   EDIZIONI

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Quaderni della Fenice

Quinto Quaderno Collettivo

 Sebastiano Addamo -  Significati e parabole

 Ercole Bellucci - Basso continuo - Poesie 1971-75

 Franco Buffoni -  Nell'acqua degli occhi

 Attilio Lolini -  Salomè

 Alberto Mari -  Scomparse

 Roberto Mussapi -  I dodici mesi

 Giovanni Pascutto - La piccola vedetta friulana

 Giovanni Perich -  Gli incantevoli mattini

 Giancarlo Pontiggia -  La gioia

 Folco Portinari -  Relazione di viaggio

 

Guanda  Ed. - Milano 1979

 

 

da: Basso Continuo

 

Editoriale

 

In modo davvero sapiente, Ercole Bellucci parrebbe a prima vi sta concedersi l'alibi ambiguo delle minuzie, la modestia esibita di un tono e  di un atteggiarsi dimesso  eppure suadente,  l'am micare verso  il  lettore,  l'interlocutore  ideale, imbrigliandolo, catturandolo... Ma tutto ciò prelude solo alla possibilità di smuoverlo, insinuante, via via scuoterlo perciò maggiormente  coinvolgendolo con improvvisi soprassalti, passando dal soffice al sordido, dal tratto sottile e prezioso di penna al segno che graffia impassibile il  foglio, che lascia un'impronta imprevista. In  ciò il poeta procede ancora con mano  sicurissima, senza sfiorare il benché minimo  rischio, con  assoluta, nitida  precisione e  rara compiutezza formale. Eleganza, raffinatezza, gusto naturale, non costituiscono dunque che il pregevole, prezioso involucro di una poesia che offre  sprazzi di una vicenda solo adombrata o allusa, allontanata prudenzialmente  sugli sfondi,  reticente ma emergente a tratti per  necessità in frecciate, scariche, parvenze di morte, senso circolante di lenta e subdola decomposizione. Facendo così più netti  e fisici i contorni, offrendo  già  stravolte le figure, ma confermando la sofferta assenza o  la  volubile latitanza  del protagonista, l'apparire gracile, sfumato, dei comprimari, quasi anime  trascoloranti  in un ambiente  angusto,  in una cornice di mediocri camere, neutre  pareti,  muti arredi, opprimenti  soffitti. Dentro o attorno, la musica ineffabile  e indifferente delle diverse scene e dei gesti, degli interni e delle nature morte. E ancora, negli « azzurri »  di Bellucci, nei suoi misurati stacchi di tono, l'ergersi in una luce che scioglie la compattezza, la compostezza del  procedere, l'orizzontalità  di  ogni presenza, verso  una più astratta essenzialità di senso conferita al reale fino alle più esigue tracce del suo quotidiano manifestarsi.

 

Gufo allo spioncino


I
Il caldo luminoso
scemava dietro gli scuri
veniva a galla sui muri
il pomeriggio oleoso
le lucciole della polvere
scomparivano sul piancito

o da poco se n'era andato
il parroco che era venuto
          a disperdere i sorci.

Dentro un piccolo cranio
batteva gli occhi azzurri
la nonna intrappolata
dai vimini nella poltrona.

Dappertutto non visti
ordivano nemici
non sarebbero bastati
pozzi e cortili
per seppellirne i corpi
tremendi e paonazzi,
stravolti e tiepidi,
claudicanti in sogno,
gli unici a non temere
fucilate alle finestre
dei fascisti le pattuglie
aguzzini e sbirri.

Giorni e giorni hanno penetrato la casa
con orchestrine d'ombra piena di brividi
piccoli suoni freddi
e dolci. Nella latrina

dietro l'usciolo
a imbuto sullo scalino
grigio il puzzo si fermava
umido sulla pietra

come un gufo allo spioncino
uccello cieco che beccava
inesorabilmente chi restava
più del necessario nel buio
fetido e lo riportava il fiume
il cadavere di uno sconosciuto.
 

II

Passavano ore
prima che la cucina si ripopolasse per cena con le anime
improvvise nel nulla
come albine.
In quel tempo
la nonna cominciava le stazioni della via crucis
con sosta agli angoli cardinali della cucina
frequentati l'inverno dai sorci
o da formiche scese dai davanzali.

Mormoravano più tardi di
Nudi & Peccatori
e come le donne entrate nei camion alleati
giacessero sempiterne nelle folgori
del fuoco che divora

d'altre accoppiate
a cagne o zingare
oscene come zampogne

(mentre
era risparmiata
in disparte una bambina ebrea
rancida e infelice)

del corpo di un prete
composto in un lenzuolo
Incoronato di topi
o rondoni che lo sollevano
In gloria o per l'abisso

nel terriccio ameno e liscio
di un luogo irraggiungibile

il tempo-perpetuo
fra erme e sedili
dove apparivano volti
che uscivano dal nulla
fra erbe ruvide
e spente
e scampati da chiese
dai vicoli
la pioggia fulminea
bambini defunti nelle disgrazie
riemersi freddissimi nei loro abiti cresimali
e chiostri e funerali a picco
ruderi ameni e selve
Monaca & Servitore.

III
Cominciasti col rifiutare di cambiarti,
i cenci ti si erano adattati al corpo

ti costò rinunciare al busto
divenuti gli stecchi una doppia artrite

ti pettinavi ancora da sola
se uno dei nipoti ti teneva lo specchio

il battufolo dei capelli rimasto sul pettine
arderlo bisognava nella stufa

come le cocciole d'uovo e le molliche.
Non accendevi più la luce elettrica

si appoggiava la sera alla finestra
con i brividi grigi, sagome di piccioni

imbromboliti e cilestri. I sorci viaggiavano
di notte attraverso il muro e il soffitto

IV
Non si ritrovavano
dov'erano state messe le fotografie,
il martello doveva essere nelle scatola
delle scarpe dietro l'armadio, fuori
la nebbia che s'ammassa,
il giorno composto di tempo,
(se la passa la notte),
e ancora s'inaugura il mattino
l'urlìo dei piccioni sul gelo limpido
della grondaia, è il sole, l'azzurro dell'aria,
maggio dal dentino d'oro da latte,
la macchia
lillà dell'umidità nella parete
che fa la pancia sul pavimento instabile
(i mattoni si muovono), le bioccole
della polvere sotto la lettiera,
dove a letto vestita
eri un uccello indurito
le ali mosce come maniche
la porta della cucina che restava aperta
se chiedevi aiuto dalla camera
divisa fra gli sbiechi e la falsa
luce della specchiera,
l'astracan, nella croce
dentro il vis-a-vis,
che poi non ti vollero mettere,
ci scendemmo l'ultima volta le scale
e rientrammo subito
e passò anche un altr'anno.

Il più delle volte non mi sentivi
arrivare, intenta com'eri
a tremare nel niente,
lo sguardo grezzo
(il vento che porta polvere fra le palpebre)
tenevi chiusa la finestra
contavi i semi che mancavano alla morte
i grani neri dell'avemaria
svelti come topi piccoli
uccelli bui
giorni diretti e brevi a quel punto

poi non mangiasti più
sarebbe stato il digiuno.
 

Mi sono macchiato
di malinconia con te,
la tristezza è piena
d'impronte. Fra mezze-
porte a vetri caffè-latte,
la noia negligente
dove si tossisce
si mettono dita nei buchi
e smorfie
trasale chi l'attraversa
una paura istantanea
mentre arriva la voce
da un cortile. - sono zuppi
li ho lavati adesso
non toccare con le manine
mi si sporcano.

 

C'è di che girovagare
sporco e sbandato
l'idea fissa d'aver lasciato
qualcosa da qualche parte,

sporcizia, porcheria
che s'ammucchia; tra il dovere
inutilizzabile e la santità,
la vita propria
                 dentro il sudiciume
                       smilzo l'albume.

*
Commessa la vita
o appena riflessa

allarma la vita
che morte l'ammira.