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UN RICORDO di Guido Garufi :    IL FUMO DI ERCOLE

 

Te salutt. Così sempre mi "salutava" Ercole Bellucci dalla sua abitazione di Urbino, in via Cappellini, al n.10. Si erano fatte sempre più fitte le telefonate ed i contatti con lui in questi ultimi quattro anni: avevo bisogno di informazioni per redigere l'antologia sulla poesia delle Marche nel Novecento e la specola sugli anni cinquanta montefeltreschi me la forniva Ercole, insieme a tanti cartigli, appunti, fotografie, aggiornamenti bibliografici. Lui, con quel basco sul capo, era per me la Scuola d'Urbino. Una scuola appartata, senza troppo clamore, un lavoro riservato, continuo, fatto di frequentazioni "ermetiche" e semiologiche, di libri da "rilegare", di stamperie d'autore, di convegni.

Una messe di ricordi che venivano a galla e che il telefono amplificava: la sua voce, cavernosa e roca faceva apparire  nel fascino dell'assenza dell'interlocutore  tutta una storia, un vissuto dentro il quale distinguevo l'istinto animoso e la sua apparente negazione. Non era semplice "nostalgia": quelle vie di Urbino, quei summit ai quali l'amico alludeva e quella voce roca, anche spezzata da certi silenzi e da stupefazioni angosciose sembravano a me simili a quei resoconti delle partite che Nicolo Carosio ci faceva "vedere" tramite la Radio.

Meglio, dunque, di altre fonti, per me è stata la "voce" di questo scriba dall'aspetto sabiano (almeno in certe foto o nel nostro inconscio collettivo), un po' avvolto o riepilogato dentro di sé, senza pipa o bastone ma con quel basco e una ininterrotta fenomenologia di fumo e sigarette: una dopo l'altra, ininterrottamente, un Basso continuo di aspirazioni e riti e liturgie. Quanto di questo fumo sia capitato nei suoi testi dei quali ho parlato nell'antologia non saprei: qualcosa afferro di quella volatilità solo ora, ora che i suoi amici, Ghiandoni e Ferri, in particolare, mi invitano a scrivere per la loro Cartolaria, qualcosa dicevo di quel fumo, tossico ma necessario, nocivo ma liberatorio come certe accelerazioni veloci dei suoi versi, l'aumento della "corsa" delle consonanti e delle vocali, certi corrugamenti e bizzarri rigiri ghirigori o aggrottamenti sillabici simili a fughe o fuoriuscite mi sembrano la "traduzione" di quella "leggerezza" che lui osservava mentre il tabacco bruciava. Il fumo se ne andava, spariva, si dileguava, ma soprattutto volava verso l'alto.

A Recanati, ad Urbania, a Civitanova ci eravamo incontrati, a partire dagli anni ottanta, tutti dentro l'illusione della piccola barca poetica, in una regione o topos urbano odiato amato: a Civitanova, per il premio Sibilla Aleramo, mi disse che non voleva venire, che si sentiva stanco e intuii una emozione dura, un fiato mozzo, diceva che si vergognava a leggere davanti al pubblico, e lo diceva in modo infantile, quasi scusandosi: non me ne meravigliai più di tanto, eravamo entrati in confidenza e sapeva di poter parlare "direttamente" senza mediazioni. Mi chiedeva, a proposito dell'antologia: quando esce, quando esce? E ben sapeva, essendo stato in qualche modo, si direbbe, un critico complice, che il parto era laborioso e lungo e non poco impervio. Così, per anni, al telefono, per lettera, l'amicizia si consolidò: mi descrisse la casa, mi parlò della sua famiglia, del padre, della tipografia, della sua gioventù, e poi di Luzi, Pasolini, Ungaretti, Manzini, Gadda, Parronchi, Leone Traverso, Vittorini, dei labirinti della sua Urbino, di Volponi, mi parlava, cioè, di ectoplasmi che il telefono realizzava "viva voce" e forse lui ne traeva giovamento, non so fino a che punto, ma le mie telefonate (e le sue) si erano fatte sempre più frequenti e forse, paradossalmente, la poesia e l'antologia si erano trasferite nel "filo" del telefono, i personaggi e gli interpreti, Bo in primis, rivivevano nelle Stanze separate di Macerata Urbino, e forse fu questa la più vera antologia, come paread ascoltar Montale  che i veri amori siano solo quelli "telefonati".

Avevo premesso che non avrei scritto nulla sui suoi testi, diciamo sulla sua "poetica": ho preferito riprendere quella voce e anche quella della moglie che mi diceva, a volte: "torna per cena perché è in piazza", e subito dopo Ercole telefonava. Si riaccendeva quella azione in absentia che per Barthes è fondamentale e senza la quale non si autorizza il testo, non si procede se non v'è "mancanza", vuoi di Laura, di Beatrice, di Silvia, non si parte se gli "oggetti" non sono "enigmi".

Mi chiedo, a breve distanza, cosa mi sia rimasto di lui, se i libri con la dedica, il basco, la sua voce, oppure altro ancora: se dovessi ricomporre il tutto, parlerei ancora volentieri di quelle sigarette e di quel fumo, alto, leggero, come la poesia, e come la "voce" che mai è scritta ma per sempre registrata.