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Ercole  Bellucci:   Poesia - I magi neri

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I MAGI NERI

di Ercole Bellucci

 

visite lampo

(adesso mi pento)

fuggivo come il vento

non eri più tu

 

se mi riconoscevi

spendevo un minuto di più

in appunti

(a questo siamo giunti)

non hai fame & sbadigli

mi chiedi se voglio il caffè

per trattenermi di più con te

ti alzi per riscaldarlo nel bricco

ammaccato che traballa

infiammato al minimo sul fornello

e poiché mi trastullo con un libro

domandi se li leggo tutti da cima a fondo

e se continuo a scriverli, ti rispondo

di stare attenta a non bruciare il caffè

e tu di rimando: da un orecchio ci sento,

fa così quando cambia il tempo.

 

più tardi mi riaccompagni all’entrata

e dal corridoio alla sala

ci fermiamo sui cocci dei fiori

che hai ritirato da fuori

intirizziti stecchiti i gerani

hanno ripreso e cacciato

getti sottili e inermi

rinfrancati dalla temperatura

vanno sacrificati

ché dentro intisichiscono

e ritardano la fioritura.

 

Arrivati alla porta

finalmente ricordi cosa volevi dirmi

che i piccioni del Comune

hanno invaso il cortile

e fatto la cova sui barbacani

e riempito la gronda e la cola

di calce e concime

e Quelli del piano di sotto

richiamati dalla Guardia

per ripicca continuano a dargli il mangime

ringozzano a tutte le ore

arrivano a ondate a vortice

e quando si rialzano

spaventati dal lancio di un calcinaccio

coprono il cielo del cortile

 

 

[Segue una specie di poemetto di vita domestica]

I

- Quelli della Televisione vanno & vengono

vanno nelle camere come fossero a casa loro

e nessuno li manda via da casa mia,

Ercole spegni l’apparecchio

 

negli ultimi giorni

andavano anche dalla nonna

che stentando a riconoscerli

si faceva ripetere il nome

il grado di parentela dei morti che

attoniti & indolenti

appoggiati di rimpetto alla sponda del letto

o apparenti & contrapposti

seminascosti nei cantoni

ora in piedi o seduti

facevano segni & starnuti

come avessero un focolaio di pulci nel cervello

da fare impazzire di rabbia

l’uccellin Bel verde nella gabbia

 

adesso sono venuti da te

non danno la caccia ai primi posti

e con la contromarca dell’ultima volta

fanno a meno di visti & permessi

 

irriverenti intrusi

impersonano i peccati omessi

inverosimili allusivi infondati

quanto si vuole irreali

arretrati retrivi

mortali redivivi

 

imprevisti impulsivi

si comportano da ossessi

e i più dimessi

apprensivi repressi

hanno il sopravvento

mettono la camera in movimento

a giostra il soffitto

la testa come un relitto

a carambola a capofitto

a proiettile la rimanda

gioca di sponda

(tempia nuca)

va in buca

salta in terra

 

cosa aspettano a riportare la palla

cercano la testa che non torna a galla

 

 

II

girano in lungo & in largo

sostano dietro le porte del corridoio

per scaricarsi un buco del naso

e lasciare libero il passaggio come

davanti alle viacrucis

durante il Giro del Perdono

si avvicendano & spariscono

per ricomparire più in là tinti

dal verderame delle lumiere ad olio

da te lucidate tutti i giorni & mantenute

squillanti come ottoni a risalto

della cassa-corredo

che ora

    per l’occasione

                un’altra cassa regge & pesa

                    sulla tua dote di federe & lenzuola

 

ancora mi chiedo come mai non ti abbiamo rivestita

con quella biancheria risparmiata nata pulita

tenuta da parte con decenza

umiliata da un’assenza rassegnata

una vita secondaria

di faccende compite

sistemate & rimesse

al loro posto

 

 

III

nonostante l’età

svelta ben messa fino a poco tempo fa

si mette a urlare

la vogliono avvelenare

l’obbligano a mangiare i vomiti

- mi prendono per i gomiti

come una pignatta

non mi danno retta –

 

(la fanno passare da matta)

 

davanti a tutta questa gente

sono io che stravedo

non ci credo

 

entrano uno alla volta

fanno finta di ammirare l’antichità

complottano nell’angolo del salone

tirano la corda che solleva il battente del portone

da sotto bussano in continuazione e rimbomba

e continuano a entrare

cosa vengono a cercare

fermali con l’asta della bandiera

prendono la misura dei muri

controllano le spie nelle spaccature

svitano le maniglie dalle porte di noce

(sono quelli della Compagnia della Morte

che per entrare abbassano la Croce)

 

Angela zia

sono i Magi della mia poesia che ritorna

e ti portano via

vanno dietro la scia

che lascia la tua pena

 

la volta che persi la vena

desiderai che mi morisse Qualcuno vicino

io mi conosco come sono fatto

dopo aver ridato da matto

ritorna la Poesia

se pur da buttar via

(non sia mai detto)

in quel punto il dolore è pretto

lesa la ragione

qualcosa si scompone

e una luce inietta

l’anima eretta

come una cialda d’aspirina

una lucciola di febbre mattutina

incendia la ramaglia dell’alba

scioglie il nodo in gola

che sa di scuola patita

sulla sedia i vestiti pronti

lavati & stirati per la gita

che sempre sono tornati

macchiati & strappati

indifesi agli affronti

 

 

IV

come non lo sapesse

che la donna

che fa la notte

complotta in combutta

con suo fratello morto

e ricomparso sul più bello

intenzionato a riprendere moglie

 

da dietro la parete

lo sente quando si spoglia

che stabernacola col vaso da notte

e cava il prete

 

e lei

la mercenaria

la miliardaria

con la scusa di rimboccargli le coperte

lo raggira lo mette contro

come a tavola

 

a cena gli scarti di ieri

mi vengono certi pensieri

 

ho un mostro

nel cervello un rostro

lo spiedo del girarrosto

nella spina dorsale

 

V

e io a darle Pesca

a montarle la tresca

con nomi di persone

a darle ragione

 

 

con atti inconsulti

suffragati dai fatti

tenuti sotto controllo

al limite del tracollo

 

 

VI

ristabilita la vista

(l’effetto del collirio?)

sopito il delirio

sfoltito l’immaginario

con un cenno illusorio

rispondeva all’augurio

sillabando il rosario

a suffragio delle anime del Purgatorio

a favore del suo mortorio

prossimo & transitorio

 

era curiosa di sapere

se era stato ritrovato l’Ostensorio

che illuminava il tugurio

dai ladri rubato

all’Eremita del Furlo

che dopo quell’agguato

era andato via di mente

(sospeso & sconsacrato)

scansato dalla gente

un sabato mercato

l’aveva riconosciuto

al bivio del Pelingo

 

altre volte in sogno

l’aveva rincontrato

rincorso & raggiunto

 

e a quel punto si svegliava

convinta di aver mangiato

un fungo avvelenato tinto

affumicato da sembrar finto

 

 

VII

ne hai abbastanza dei trucchi

a non stare lì con gli occhi

ti spaiano le scarpe

ti portano da un’altra parte

(per la strada più lunga)

 

indisturbati cercano le carte

nascoste in alto

in un canto

a portata di mano

un granchio nel cassetto

(sotto la sveglia i contanti)

li tieni a bada dal letto

con la coda dell’occhio

il viavai continuo di recipienti

l’ammucchiarsi di lenzuola & indumenti

da buttare o introdurre nella lavatrice

che entra nel cervello

il giro del cestello

e come non bastasse srotolano le fasce

riprendono a disinfettare la cicatrice

che screpola la pelle

tra le gambe & sotto le ascelle

dell’infermo che si sporca

un’altra vestizione non sopporta

 

 

VIII

capsule pastiglie

cialde confetti

lenti & lenticchie

nel bollirone

sciampo & sapone

creme per schiene

da spalmare insieme

sulle parti deodorate

esposte al decubito

 

compresse fialoidi

via endovena o rivolti

supposte effervescenti

anfetamine assillanti

efedrine pulsanti

nere farfalline

stelline nelle urine

campioni di placebo

sciolti nella flebo

accelerano le bollicine

idrolitine nel flacone

che dondola a lampione

a lanterna

dietro la processione

precede il Santo

(inclito & vanto)

dopo il gonfalone

strappato al Turco

 

 

IX

e per quella sera avevamo raggiunto

il letto in precedenza sbassato

raso terra la rete

a evitare gli urti

inauditi inconsulti

al tuo gracile corpo

denutrito longevo

inerme il sollievo

della gorgiera corsetto

cilizio maledetto

il busto stretto al costato

cretto incrinato

e ti resiste il cuore

accelerato al trotto

 

 

X

il minimo movimento

annulla il calmante

che non agisce più

 

ti spostiamo

ti giriamo

ti lasciamo lì

sulla poltrona di fronte al visavì

il momento di andare a vedere in cucina

se viene su il caffè

quello ancora lo butti giù

un cucchiaino alla volta

 

quando dalla finestra si rivolta l’aria del temporale

mi chiedi di andare a vedere cosa succede nelle scale

 

e sullo specchio dell’armadio diffidi «l’altra zia»

finta di là (che saresti tu)

a cui resiste la tinta sui capelli

e se i capelli stanno fermi

significa che non crescono più?

 

e sempre nello specchio lì

dentro da parecchio

cosa ci sta a fare l’uomo

con le mie spalle dietro di me

e cosa aspetto ad allontanare la gente

che nel frattempo si è sistemata

e altra ne sopraggiunge

anche perché fuori piove forte

e con le scarpe allagano il pavimento

e tengono l’ombrello aperto come fossero per strada

 

finalmente dalla cucina abbassano l’audio

e la moltitudine si assottiglia sparisce

 

 

XI

solo quando comincia l’Opera

si scansano per farla passare avanti

ai Primi Posti

(il bel canto

il Teatro era un vanto

i Decaduti portavano

l’argenteria al Monte di Pietà

sparivano gli anellini le catenine

svalutate sui bilancini

di un mondo che non esiste più)

e la musica trionfa

(che appena sente)

la scia fremente degli archi

dei timpani (tamburi)

buioscuri come lampi

 

da far tinnire

le tazzine della credenza

che si mettono a ballare

forte a battere i denti

da far saltellare i battenti

delle finestre a libretto

il riquadro del sole ristretto

dilegua sul piancito

svanito sulla parete

 

 

XII

il tempo di accompagnare alla porta

il prete che ha benedetto il corpo

trapela la paura del morto

da rivestire & cambiare

 

sei nelle mani del becchino

che ordina l’acqua nel catino

allontana la gente

che non si sente

ti pettina persino

e ti riscuote il volto

avulso dopo il convulso

ti mitiga la fronte

compremuta dalla mente

corregge la brutta piega

assunta dalla bocca

mortificata senza dentiera

ti migliora che sembri vera

ricomposta nel vestito

a fiori azzurrato

estivo fresco

che mai alla prima

riuscivi a sfilarlo

dalla croce divenuta irraggiungibile

sull’asse dell’armadio

io avrei optato per un tailleur

un panno una stoffa consistente

un filato (amaranto) che un poco

imbottisse le spalle il petto

restituisse l’effetto della persona

che si sente ben messa

ma non eri più affidata a te stessa

eri sparita spirata

apparivi sollevata come

quando avevi trovato la posizione nel letto

e mi dicevi: se il Signore non mi scompone

sto bene

   con una gamba mi allungo un chilometro

      non ho una linea di febbre

         guarda il termometro

 

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