Maria Grazia
Maiorino:
L'AMERICA DEI FARI |
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L'HARMONIUM il racconto
L' 8 Luglio 2013 la direzione del Museo
Leonardi di Urbania in collaborazione con il Circolo Acli
Universitario di Urbino presentano la raccolta di racconti di Maria
Grazia Maiorino L'America dei fari (Ed. Gwynplaine, 2013; è
presente il direttore Orlando Micucci). La presentazione si svolge
nel giardino del Museo Leonardi di Urbania in ambiente essenziale e
nel contempo austero, reso teneramente accogliente dagli
organizzatori con variopinti vasi di fiori. |
L'HARMONIUM
L’harmonium! Il pensiero sfiora la mente di Reginaldo in un lampo, le sembra di vederlo passare fra due rughe lievemente corrugate. Devo andare alla funzione mariana... E si capisce subito che lui non è più lì, in quell’affaccio di paese sulle colline popolate di ginestre e di rondini, vicino al mare. Un’altra ora lo ha richiamato nella sua Urbania, ma l’harmonium questa sera resterà in silenzio. Al solo nominarlo lo scenario cambia: dalla bottega-laboratorio di Maria Sole alla loggia del Casina, dove l’harmonium è stato trasportato per accompagnare il rosario e i canti del mese di maggio.
Durante il resto dell’anno il suo posto è nell’atelier di Reginaldo,
semisommerso dalle altre affollate presenze, un fedele compagno di
strada del quale lui ti racconta la storia come se la percorresse
risalendo molto più indietro nel tempo. Nelle piccole chiese di
campagna che non potevano permettersi un organo, si usavano questi
fratelli minori, di legno, trasportabili, più semplici da suonare,
battezzati da chissà chi con un nome solenne e dorato. Anche nei
seminari era più facile trovare un harmonium che un pianoforte, si
può dire che alla sua ombra Reginaldo, che aveva studiato alla
scuola dei preti, ci era cresciuto e non lo aveva mai lasciato. La nuova scena sembra nascere da una delle ceramiche di Maria Sole appese alle pareti o allineate sui ripiani di credenzine e cassapanche, come la Madonna dipinta in un trono di conchiglia sull’acquasantiera vicino alla finestra. Il raduno non avviene in una delle tante chiese di Urbania, ma nel vecchio podere di cui oggi resta la bella casa con il loggiato: là si preparano l’altare per il quadro della Madonna e le panche. Reginaldo descrive con pochi tratti veloci, come fa con i suoi disegni a punta di penna sui cartoncini lucidi che porta sempre con sé, pronto ad abbozzare un ritratto, un paesaggio, un pensiero trasmesso velocemente alle mani come la nota musicale di uno sguardo. Nel coro del rosario si mescolano tante voci, donne, vecchi, bambini e ragazzi, una famiglia insomma. Una di quelle famiglie di vicini che nelle nostre città sono piante estirpate per sempre. Reginaldo accompagna con l’harmonium le canzoncine tradizionali che la gente conosce, Le squille benedette, Stella del mare, In questa valle, Quanto sei bella, Lieta armonia. I bambini più piccoli non le sanno, ma le donne cantano tutto a memoria. I sentimenti non c’è bisogno di dirli, pace e quiete sono in quella specie di rapimento che Maria Sole vede sul viso dell’amico. La vibrazione quasi impercettibile di nostalgia nella sua voce non offusca la contentezza di essere da un’altra parte. Maria Sole finalmente è riuscita a realizzare il suo grande desiderio: quel rudere, acquistato insieme al marito per un colpo di fortuna e ristrutturato a poco a poco. All’inizio usava solo il pianoterra, ci veniva a cuocere le terrecotte in un forno finalmente tutto suo. Adesso ci sono stanze aperte sopra e sotto, piene di gente e di fiori. L’intero paese è rappresentato, amici e conoscenti sono venuti anche da fuori per l’inaugurazione della mostra di ceramiche. Tutti le fanno i complimenti e lei stessa è incredula, le sembra di non riuscire ancora a distinguere tra realtà e sogno, un po’ stordita dall’emozione e da tante voci. Da quando si è trasferita a lavorare nel grande ambiente accanto al forno si è abituata al silenzio, che si interrompe solo all’arrivo di Giacinta e Ludovico, i suoi collaboratori, o di qualche cliente. Il silenzio le piace, le permette di concentrarsi e a volte le sembra che il pennello, decorando la cristallina bianca di un piatto o la superficie irregolare di una tavella, trasformi in immagini le voci, come in filigrana, del paese ammucchiato intorno a lei: campane, scalette, orti, siepi, tetti e terrazzini, la strada provinciale e scorci di campagna ondulata fra il Conero e la striscia del mare. Ancona non è lontana, ma qui la distanza non è misurabile in chilometri. Questo si dicono lei e Reginaldo con gli occhi, simili a tessere di un paesaggio ricomposto: il mare, le colline, i campi di lavanda e l’Appennino, le valli, i fiumi solcati dai loro ponti... La pupa che stringe al petto la colomba in un cerchio di rose di maggio se n’è andata a cantare il Salve Regina vicino ai monti, le mani di Reginaldo volano sulla tastiera dell’harmonium che riempie le stanze della bottega-laboratorio con le sue melodie, quasi facendo palpitare, tra scintillìi e ammiccamenti, i colori delle decorazioni di albarelli, piastre, crespine, edicole, brocche, faentine, grandi anfore... Sì, lo spazio è un’anfora cavità istoriata di meraviglie. L’harmonium è piantato come un arbusto in mezzo alla città. La città assomiglia alla grande casa che Maria Sole abbozza con tocchi rapidi sul cartone per le decorazioni. E sola nel laboratorio e si perde nel disegno ritornando al giorno del primo incontro. Lei dietro il suo banco di esposizione, orgogliosa dei rossi gialli verdi blu delle maioliche, resi ancora più smaglianti dai raggi del sole. Lui alto, aereo, con il panama chiaro e il fazzoletto di seta annodato sotto il collo della camicia. Si era avvicinato curioso, l’aveva guardata negli occhi e le aveva sorriso. Un colpo di fulmine artistico! Parole sue. Urbania si era aperta a poco a poco, una stanza dopo l’altra. Reginaldo aveva tutte le chiavi. Al centro ardeva il forno. I pezzi se ne stavano assiepati ovunque sugli scaffali, grigi, ocra, quasi informi, pazientemente in attesa di ricevere un’anima colorata e dipinta, i più fortunati uno smalto spruzzato di faville d’oro. Il custode andava e veniva sorvegliando la cottura dei suoi tesori, ben chiusi, dopo essere stati stipati nel castello di ripiani con trepida attenzione. L’apertura comportava un’ansia, un sospiro di gioia o di delusione per la riuscita di ogni oggetto. Gi ambienti intorno non avevano nulla della solennità del forno. Erano dimessi ma c’era un grande fermento di vita negli attrezzi, nei cartoni, nei blocchi di creta che giacevano ancora inerti. Maria Sole immaginò gruppi, artisti, bambini, via vai di forestieri che venivano a imparare l’arte della ceramica nella sua culla marchigiana. Lei conosceva il piacere di apprendere tecniche nuove e antiche, e di trasmetterle a qualcuno che si appassionava scoprendo come plasmare una forma e vederla nascere dalle proprie mani. Immaginò mani e mani come farfalle addormentate dietro le schiere di soldatini che aspettavano il loro turno, quando la magia del fuoco avrebbe fatto risuonare l’arpeggio di centinaia e centinaia di dita. Lo studio di un pittore era aperto sul vicolo dietro il Duomo. Tele grandi quanto le pareti, oscure nella penombra, in contrasto con la luminosità primaverile dell’esterno. E le confidenze del giovane che con naturalezza raccontava i suoi progetti, come se non esistesse niente altro al di fuori del suo antro, in quel ritaglio di primo pomeriggio che altri dedicavano a prolungare il pranzo domenicale o alla siesta. Lui li aveva catturati nelle geometrie di enormi tappeti astrali, notti tagliate da improvvise spaccature che lasciavano vedere pezzi di foresta lussureggiante, di grandi fiori e stoffe damascate. E poi fuori nel vicolo di nuovo, davanti al portone del Museo diocesano, nelle sale che si aprirono solo per loro due. Non le era mai successo di visitare un museo addormentato, il rito quasi domestico di aprire e chiudere moltiplicato per innumerevoli porte, alte finestre e imposte. Spalancare, richiudere arrampicandosi su uno scalino, accostando, spingendo ganci e maniglie. Madonne, arazzi, velluti, oggetti velati di polvere, manoscritti e antichi codici nelle vetrine, scale, quadri, cassapanche, inginocchiatoi. Cremisi, marroni, verde oliva. Ancora scale, e su fino al mezzanino, dove improvvisamente squillavano altri colori, ori e argenti, lucentezze inaspettate di smalti. Lì, nelle ultime vetrine del museo, Maria Sole aveva scoperto i suoi angeli, scolpiti intorno a un vuoto. Ventosi, smaterializzati angeli di maiolica lucente, piccole teste come capini di uccelli, ali fiammanti come torce. Cotti a terzo fuoco, così spiegava una didascalia, e lei subito li aveva visti volteggiare in un cerchio del Paradiso di Dante. L’immagine non era stata turbata da alcuna spiegazione, Reginaldo aveva la soavità degli artisti che ti accompagnano per immedesimazione e per sorriso e ti spiegano qualcosa solo se glielo chiedi. Le domande sarebbero venute dopo, numerose, ma quello era il momento delle apparizioni.
Come quando, più tardi, lui suonava l’organo nel Duomo. Lei non ascoltava solo la musica ma sedeva là, dove la musica nasceva. Dove anche le mani si trasformavano in ali inquiete, veloci, e i piedi sui pedali erano altre mani e altri suoni, voci canne fughe tempo che si fermava, risonanze che si inseguivano ovunque andandosi a acquattare in ogni angolo della chiesa. Finché, quando Maria Sole aveva udito una voce raccomandare al suo amico di non passare per il campanile, lei era sicura di averlo visto lassù, volare attraverso la cruna del campanile come una figurina di Chagall e poi scendere lo scalone quasi senza toccare i gradini. E di nuovo erano all’aperto, chiese, oratori, contrade, portoni, nomi di altri tempi, casati, mestieri... E l’arco di pietra del Ponte dei cocci a proteggere il fiume, gli orti, le storie di guerra e di pace della gente umile, che abitava sotto le mura a picco del Palazzo ducale. Ancora angeli da incontrare oltre il cancello del giardino, l’atelier preceduto da un corteo di sculture e dal grande tondo appeso sotto il portico, luna con volto di donna e abito klimtiano. L’harmonium ritornato al suo posto, sommerso da fogli, libri, oggetti, pezzi da collezione, incisioni, acquerelli. Tutto in allegro e vivace disordine. Storie a stento trattenute in pile e cassetti. Maria Sole si sarebbe volentieri nascosta lì per rubare segreti e musiche alle mani di Reginaldo, più veloci e instancabili dei pensieri. Mani magiche. Mani. Maria Sole è di nuovo l’unica presenza nella bottega-laboratorio il giorno dopo l’inaugurazione. Siede immobile al grande tavolo, ci sono ancora i fiori a farle compagnia. Piante e mazzi avvolti in confezioni fantasiose che appesantiscono la loro bellezza, come un eccesso di trucco su un viso giovane. Presto vi spoglierò, pensa, e intanto si accorge del cartoncino rimasto sul tavolo, nella confusione lo aveva dimenticato. Ora si concede finalmente il tempo di rimirarlo a suo piacere. E un ritratto a punta di penna spuntato chissà in quale momento della festa dalle mani di Reginaldo come dal cappello di un prestigiatore. A che cosa fa da specchio il ritratto? Al mio viso? A come nascono i pensieri e si possono fermare prima che perdano la nudità di uno spuntare naturale? Tralci, arabeschi, viticci che si allungano nell’aria bianca della carta a cercare un appiglio, creando una specie di attesa soddisfatta di sé? Sono io? O è il disegno di un piatto, appena abbozzato, dove sta per comparire la pupa con le guance rotonde e la colomba stretta al petto, in una corona di rose porpora? Ci saranno piccole croci di rondini nel celeste del fondo? O il viso si trasformerà di nuovo in un arbusto, con piccole foglie danzanti, come mosse dal vento o da un suono? |
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