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Teatrini della memoria
 

ricchezza non cerchiam né più ventura
che balli e canti e fiori e ghirlandelle.
Franco Sacchetti

 

II clima della pittura, direi meglio delle pagine grafiche, di Mario Gambedotti appare contrassegnato da un pregevole ricupero di trascorsi eventi, di luoghi, di feste popolari che suggeriscono tutta una serie di considerazioni intorno all'impegno espressivo e alla sua indiscussa capacità tecnica. Si tratta, indubbiamente, di una ricerca trentennale, di una costante evoluzione del segno che, in ogni caso, assume il valore di una brillante sequenza narrativa, di un «dire» che prevalica la società contemporanea e il probante sviluppo tecnologico, per riconquistare la dimensione del quotidiano e di una più genuina gioia di vivere.

Un percorso, il suo, che nulla concede al gusto corrente, alle vicende ed alle concettuali cadenze di tanta arte dei nostri giorni, ma sembra voler ripercorrere un mondo di fiabeschi accadimenti, di incontaminati sentimenti, di candide annotazioni che rivelano l'attenzione con la quale l'artista guarda al passato, alle più antiche e suggestive immagini. Immagini che hanno il fascino sottile delle feste campestri, dei mercati rionali con ceste colme di verdura, uova, frutta, ortaggi, mentre i bambini giocano rincorrendosi su per una scala. Lentamente il discorso si dipana come un balletto e acquista una propria personalità, un tratto caratteristico e caratterizzante questi suoi teatrini della memoria.

Vi è in Gambedotti una naturale predisposizione al racconto minuto, alla visualizzazione di un'azione, di un incontro, di una partita di pallone fra fratini, di una processione con volti ora assorti ed ora permeati da una sorta di interiore spiritualità. Vi è in queste tempere una vibrante accensione del colore intessuto di una luce che esalta l'intensità dei rossi, il solare incedere dei gialli, le più fredde cadenze dei verdi, degli azzurri che sfumano nel silenzio della notte rotto da un gruppo di cantastorie sotto il balcone di una graziosa fanciulla.

Canti e balli e improvvisate orchestrine accompagnano anche una «Arrampicata sociale», una particolare «scalata al potere» vista con ironia, con uno sguardo disincantato, volutamente pungente. In queste sue raffigurazioni il movimento appare l'artefice di una composizione mai statica o spoglia o inquieta e inquietante, ma sempre e comunque riconducibile a universo in cui — ha suggerito Attilio Boccazzi-Varotto — «le istanze sono il ballo, il banchetto, il riposo: il tutto rappresentato con perfezionata maestria di segno e di composizione... Ed è un segno fatto di falsetti, maniere, citazioni occulte, rugiade, goliarderie, ma non senza note sfogate, abbandoni a franche risate...».

Un modo, quindi, di operare che discende dalla sua formazione presso l'Istituto Statale d'Arte per la decorazione e l'illustrazione del libro di Urbino, dove si è specializzato nella Tecnica del Cinema di Animazione.

Una tecnica appresa alla scuola di Francesco Carnevali che in occasione della personale al Palazzo Ducale della primavera del 1985 ha scritto: «Tale è la sua bravura nella esecuzione nitida e vibrante, capace di preziose variazioni, di raffinati passaggi chiaroscurali, tanto che in alcuni casi la materia sembra trasfigurarsi pur non tradendosi mai». E questa sua esecuzione lo ha guidato attraverso una limpida definizione dei personaggi delineati durante una scelta professionale che lo ha portato, dapprima, a lavorare per la Gamma Film a Milano e poi, trasferitosi a Torino, per la RAI e infine per la SIPRA. E sono le «tavole» animate per i «Caroselli», le copertine dei dischi, le scenografie per la televisione, le illustrazioni per Mursia e per la SEI, che determinano un itinerario senza cedimenti e senza scontate concessioni a una piacevolezza di maniera. Gambedotti, infatti, riconduce ogni figura a una ben precisa entità e il segno circoscrive con unitarietà i personaggi, li estrae dal fondo per portarli in primo piano collocandoli in uno spazio più sognato che reale.

E sono le suore, i frati rubicondi, gli allegri musicanti, gli anziani spettatori e gli acrobati sul filo sospeso nell'aria, a sancire la qualità di un dialogo sommesso tra l'autore e questi suoi uomini e donne e assonnati avventori dell'osteria «Da Placido», dove a tratti i visi si illuminano di sorrisi un pò 'forzati a causa del troppo vino, mentre in altri momenti i fiaschi di Chianti, i salami di campagna, i formaggi piccanti, lasciano il posto a tetti dell'antica Urbino, dei cascinali a Gualdo Tadino e a Gubbio, dell'incontrastata e mistica poesia di Assisi. In tale angolazione prendono forma i fogli ricchi di testimonianze, di scampagnate e di «grandi abbuffate», di giocatori di bocce e del «Torneo» tra cavalieri con damigelle e una folla festante, sino alla svettante «Torre di Babele».

L'esperienza di Gambedotti, pur sviluppatasi in maniera appartata e lontana dai gruppi e dalle correnti contemporanee, ha trovato negli anni Ottanta precisi riscontri nelle rassegne al Museo della Xilografia di Carpi e nelle personali a Sauze d'Oulx, Bar-donecchia e all'«Atelier des Beaux Aris» di Cogne. Contemporaneamente ha realizzato le xilografie dei «Poeti, Santi e maledetti del duecento», per le Edizioni del Pavone di Priuli & Verlucca e quelle del «Processo di Frine» per la Phelina Edizioni d'arte suggestioni.

Scaturiscono da tale vicenda sempre scandita tra fantasia e decisivi riferimenti con la poesia del Duecento e l'indagine intorno ai «Canti e Canzoni Piemontesi», gli ex libris e le figure incise nel legno, segnate dalla fatica del vivere, pur temperata da una felice resa delle scene, che possono, in qualche misura, ricordare, come è stato più volte rimarcato, le grandi saghe popolari di Brueghel e il legame con la lezione di Rabelais. Soprattutto si ravvisa nelle sue composizioni la stre-

nua disposizione della linea che circoscrive con ferrea unitarietà le varie figure, ma il «vigore plastico, le incredibili mezzetinte ottenute con i durissimi bulini d'acciaio, l'ariosità delle prospettive architettoniche, la coralità di certe scene corposamente popolari — ha sottolineato Raffaele Violi — sono infilo diretto con chi ama la bellezza». E da questa impostazione emerge una rappresentazione nella quale si avverte una armonica ricerca della forma che, tondeggiante ed essenziale, costituisce la cifra riconoscibile di una figurazione che gli appartiene con quella sua peculiare esecuzione di un'immagine che non è mai banale, ma indica una vera e, talora, rara intuizione nel «costruire» i suoi fiabeschi e arguti personaggi: la loro semplicità riscatta ogni altro aspetto di un'esistenza segnata dalle tensioni della società degli anni Novanta.

Angelo Mistrangelo