Per le incisioni di Carlo Iacomucci si arriva naturalmente a scrivere
di un “paesaggio dell’anima”: la nascita-crescita a Urbino e la formazione
con i maestri della sua Scuola del Libro, in un luogo definito da scrittori
del Novecento, <<città dell’anima>>. Da questo spazio – o da quella astratta
essenza – scaturisce il suo mondo di artista, ma è necessario andare oltre
per coglierne la ricchezza (quella evidenziata, punto irrinunciabile, nella
raffinata monografia con scritti di Floriano De Santi, Vittorio Sgarbi e
Pietro Zampetti edita nel 2000 da Il Pellicano-, derivata da altri contatti
umani e paesaggistici, culturali ed esperienziali via via accumulati nel suo
lavoro e nelle sue residenze (Varese, Roma, Lecce, ancora Urbino, Macerata-,
quinte di un cammino e di profondità vissute dentro cornici…
Carlo Iacomucci si connota per uno stilema nelle sue opere: appunto la
cornice. Un fornice che, in primo piano, o nel piano mediano o, talora,
sullo sfondo, apre realtà ed entità altre internate in una dimensione
che attinge alla memoria (C’era una volta, Nostalgia,
Incontro campestre, …-, al fantastico Il paese dei sogni, Il
paese dei balocchi, …-, ai sentimenti quotidiani (El merchet,
Volgere, Assidui frequentatori, Indifferenza, …-, alla
ferialità nutritiva (i diversi Incontri-, a quella scena esistenziale
e un poco in Iacomucci anche sociale ma del sociale relazionale e vitale,
cui apparteniamo, volenti o nolenti, essendo soggetti agenti o soggetti
incameranti la sofferenza: vale a dire la scena del teatro, dove il
sipario chiude e svela senza nascondere. (Sipario, Teatro…,
Scena…, i titoli, seguiti a volte da specificazione: Scenauno…,
Theatrum Vestis…, Sipario ducale di sapore volponiano.-
Personaggi sempre in cerca di un autore ed eterodiretti, in ogni caso, da un
autore che sta dietro le quinte (la cornice, le diverse cornici nella stessa
incisione- e che immette i suoi manichini al centro di una rappresentazione
dove la storia – si vedano i personaggi in costume – fa il paio con la
contemporaneità burattinesca.
Lieve è il tocco, il bulino dell’artista, pur addensandosi nelle pieghe di
un essere che va perseguito, scoperto, catturato liricamente perché non se
ne disperda la possibilità di rientrare, di ritentare la parola dopo la
positura di un altare (bianco, al centro, sospeso- sul quale si è consumato
un sacrificio o sul quale, forse ma uguale è il desiderio sotteso, si sta
preparando un rito espiatorio. Perché la natura sia, pur contorta,
interrogata (Autunno, Bosco, Studio di animali, …- e
rinominata come gradino di un vivere che ci contenga.
Maria Lenti
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