150° Anniversario dell'Unità d'italia URBINO 1860 di raffaele molinelli |
VICENDE RISORGIMENTALI
Nell'agosto 1860, mentre la spedizione dei Mille portava a compimento la liberazione del Mezzogiorno, il governo piemontese si preoccupava di una possibile prosecuzione della impresa garibaldina verso Roma e per impedirla decideva di andare incontro alle camicie rosse realizzando così la contiguità territoriale fra il Nord e il Sud con l'occupazione delle Marche e dell'Umbria. A determinare l'azione di togliere l'iniziativa politica alle forze garibaldine aveva non poco influito sul governo piemontese il timore di una possibile evoluzione repubblicana dell'avventura dei Mille. Verso la fine di agosto il Ministro degli Interni L.C. Farini e il generale Cialdini in visita a Chambery ottenevano da Napoleone III il benestare all'occupazione delle Marche e della Umbria. L'imperatore, già compromesso nella questione dell'annessione delle Legazioni, irritato con il Papa per il fatto che il comandante delle truppe pontificie era il Lamoricière, nemico dell'impero, e che i volontari pontifici nelle Marche inalberavano alle volte lo stendardo borbonico dei gigli d'oro, diede il proprio consenso all'impresa, pronunciando, a quanto sembra, la frase: "Faites, mais faites vite!". Il pretesto allo sconfinamento nello Stato Pontificio doveva essere fornito da un moto insurrezionale, in seguito al quale l'esercito piemontese sarebbe dovuto intervenire per ristabilire l'ordine. Nel campo degli esuli marchigiani il piano insurrezionale era stato già discusso e veniva ora organizzato nei particolari. Già il 25 agosto era stato tenuto a 'Rimini un congresso fra i rappresentanti dei singoli comitati insurrezionali. Quasi tutti i convenuti però avevano dichiarato essere impossibile fare insorgere i loro paesi; soltanto il rappresentante di Pergola, la cittadina che era al centro di tutte le trame patriottiche della zona, dichiarò di essere pronto. Il piano approvato dal congresso era quello di far insorgere l'8 settembre tutto il Montefeltro e il distretto di Pergola; nella cittadina dovevano convenire i patrioti della vallata del Cesano, di Fabriano, Sassoferrato e Jesi. Il Farini avvisò il Comitato Centrale di Bologna degli emigrati, retto dal principe osimano Rinaldo Simonetti, che tutto ormai era stato deciso e che bisognava dare inizio all'operazione. Da Bologna fu mandato a Firenze ad avvertire il Rica-soli l'anconetano Cesare Beretta; il barone fiorentino la sera del 29 agosto convocò i capi del Comitato Centrale Umbro-Marchigiano e diede loro la grande notizia: l'esercito sardo era pronto ad intervenire con 30 mila uomini. Ecco come uno dei capi dell'emigrazione marchigiana, il marchese jesino Antonio Colocci, descrisse l'entusiasmo degli esuli alla lieta novella: "Le notizie provocarono uno scoppio d'esultanza; quegli esuli si abbracciavano, si baciavano, piangevano di contentezza; tutte le tenzoni, le divergenze, le ansie, le trepidazioni di un anno d'esilio erano dimenticate ; il passato non esisteva più ; si fissava giocondamente l'immediato avvenire". La macchina della piccola rivoluzione marchigiana si metteva il moto : Beretta telegrafava al Simonetti a Bologna : "Spendi pure denaro e poni in conto, come d'accordo col Barone Ricasoli,, e in una lettera gli scriveva: "annienteremo le orde de' barbari... Che le Marche dunque si facciamo onore”; il Comitato di Bologna, quello dipendente di Rimini, il cui animatore era il pergolese Ascanio Ginevri Blasi, cominciarono a provvedere le armi, le munizioni, le coccarde e tutto l'occorrente possibile; l'impresa, diceva il Simonetti, "deve essere condotta da persone energiche ed ardite del paese, e la riuscita deve dipendere dallo spirito delle popolazioni,,. Un'altra insurrezione sarebbe dovuta scoppiare nell'Ascolano; patrioti di Macerata, Fermo ed Ascoli si dovevano concentrare al di là del confine, a Martinsicuro, agli ordini dei commissari di guerra P.F. Frisciotti Pelliciani di Civitanova e F.S. Grisei di Morrovalle, e di lì irrompere nello Stato Pontificio. Il 31 agosto, intanto, così Cavour aveva messo al corrente dell'impresa nell'Italia Centrale l'ammiraglio Persano : " ..Onde impedire che la rivoluzione si estenda nel nostro regno, non havvi ormai che un mezzo solo : rendersi padroni senza indugio delle Marche e dell'Umbria. Il governo è deciso a tentare quest'ardita impresa, qualunque possano esserne le conseguenze. A questo scopo ecco ciò che fu stabilito. Un movimento insurrezionale scoppierà in quelle Provincie dall'8 al 10 settembre. Represso o non represso noi interverremo. Il Gen. Cialdini entrerà nelle Marche e si porterà rapidamente avanti Ancona. Ma egli non può sperare di rendersi padrone di quella città se non è secondato energicamente dalla nostra squadra. . . .". L'esercito regio, composto di due corpi d'armata, secondo il piano del generale in capo Manfredo Fanti, doveva operare in due direzioni : un corpo di spedizione comandato dal generale Morozzo della Rocca doveva dirigersi dalla Toscana verso l'Umbria, l'altro, guidato dal Cialdini, doveva passare dalle Romagne nelle Marche. L'obbiettivo dell'operazione era quello di prendere in mezzo l'esercito del Lamoricière e sconfiggerlo in battaglia campale fra Macerata e Tolentino. L'esercito pontificio poteva disporre di circa 10 mila uomini di fronte ai 39 mila uomini circa dell'esercito sardo, appoggiati dalla squadra navale del Per sano. Il 7 settembre il Cavour inviava un ultimatum al cardinale Antonelli in cui si diceva che le truppe del Re avevano l'incarico di impedire, "in nome dei diritti dell'umanità,,, che i corpi mercenari pontifici reprimessero con la violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria e che invitava a disarmare e a sciogliere quei reparti, che erano "una minaccia continua alla tranquillità d'Italia". Il giorno 9 il generale Fanti inviava, dal canto suo, da Arezzo, un ultimatum al generale Lamoricière a Spoleto dicendo che, se le truppe pontificie avessero represso un qualsiasi moto nazionale in una città delle Marche o dell'Umbria, l'esercito regio sarebbe subito intervenuto. Frattanto la spedizione del Montefeltro si era già messa in movimento. Il luogo di raccolta dei volontari era Mondaino sulla riva sinistra del Foglia: qui erano accorsi gli emigrati marchigiani, patrioti romagnoli e feretrani; invece delle migliaia di uomini quali avrebbero dovuto essere secondo i piani stabiliti, se ne trovarono all'appuntamento solo alcune centinaia: l'organizzazione si era rivelata nella realtà inferiore alle prospettive e, d'altra parte, molti giovani patrioti erano in servizio in quell'epoca nell'esercito regio o nelle file garibaldine. La sera del 7 i volontari, il cui nucleo più importante era costituito dal corpo dei "Cacciatori del Montefeltro,, comandato dal maggiore in aspettativa Odoardo Pierazzoli, ingegnere minerario di Imola, ricevettero dall'ing. Jonni di Pergola, da Achille Carnevali e Giovanni Bertuccioli le armi raccolte. Al corpo dei "Cacciatori,, diviso in tre compagnie, due delle quali erano guidate dal capitano Giuseppe Clementi di Ancona e dal conte Gommi-Flamini di Ferrara, si erano aggiunti gli emigrati, una settantacinquina di finanzieri romagnoli comandati da tre ufficiali ed un gruppo di volontari bolognesi. Dato il numero troppo esiguo delle forze raccolte, si decise, invece di puntare su più obbiettivi, di dirigersi con tutto il gruppo su Urbino, anche perchè in caso di insuccesso il Montefeltro avrebbe potuto costituire una buona posizione difensiva. Con i patrioti della città si era tenuto in continui rapporti l'ing. Jonni che la sera del 6 aveva loro inviato, nascosto sotto il fieno di alcuni carri agricoli, un buon numero di fucili da riporre in una casa di campagna vicino le mura ; doveva servire ai cittadini i quali avevano avuto anche l'incarico di aprire porta S. Bartolo ai liberatori. Gli eventi però dovevano avere un altro corso. Nella notte del 7 i volontari diedero inizio alla loro marcia. Il comando della spedizione fu assunto dal Piezzaroli che divise in tre gruppi la colonna : l'avanguardia costituita dai finanzieri, agli ordini del tenente Barlocci, il grosso delle forze al centro, sotto il comando del capitano Clementi, ed infine una retroguardia guidata dal Conte Gommi-Flamini e le salmerie al comando del Bertuccioli. Fino al torrente Tavullo, che segnava il confine fra la Romagna liberata e le Marche, marciarono sbandati ; benché l'oscurità, la difficoltà dei sentieri, il terreno fangoso e sdrucciolevole rendessero il cammino duro ed aspro, tuttavia per un certo tempo tutto procedette per il meglio. Ma nei pressi del fiume Foglia si ebbe un incidente. I volontari marciavano formando una lunga colonna e occupando un buon tratto di strada tanto che dalle ondulazione del terreno nei pressi del fiume, descrivendo in quel punto la strada una lunga curva in discesa, spuntò l'avanguardia della colonna sul fianco sinistro ; scambiata da quelli di coda per un drappello di pontifici che avesse teso un'imboscata, ci fu uno scambio di fucilate ed anche un ferito; la colonna si scompigliò e gli ufficiali durarono non poca fatica a ricomporla. Se l'incidente non era stato molto grave, tuttavia però esso aveva ritardato la marcia della colonna che doveva giungere in Urbino nottetempo ; invece già a Campocavallo il giorno era sorto. Il contrattempo però fu assai benefico per i volontari. Infatti la guarnigione pontificia, sul chi vive per le condizioni dello spirito pubblico nella città e magari forse messa anche in allarme da qualche voce, era stata per tutta la notte in agguato lungo le mura e fuori porta S. Lucia, tra la Villa Tortorina e la chiesuola della Madonna di Loreto ; all'alba, stanca dell'inutile attesa e sicura dell'impossibilità di un attacco in pieno giorno, aveva abbandonato la guardia alle porte ed era rientrata nelle caserme, lasciando fuori solo qualche pattuglia.
I pontifici di fatto vennero colti di sorpresa. Infatti solo il giorno 8 settembre il Delegato Apostolico di Pesaro e Urbino, monsignor Tancredi Bella, residente a Pesaro, scriveva al conte Fabiani, Prolegato di Urbino, mettendolo in guardia che "i faziosi riuniti a S. Giovanni in Marignano nel numero di soli duecento avevano "divisato di invadere ed occupare per sorpresa" la città ed invitandolo ad arrestare "in via precauzionale li quattro o cinque fautori principali della rivoluzione" ivi dimoranti; gli faceva poi presente che gli attaccanti avrebbero indossato la divisa per farsi credere soldati piemontesi. Scriveva poi anche al capitano della gendarmeria Gennari incitandolo ad opporre la più energica resistenza in caso di invasione e di ritirarsi su Pesaro solo dopo che l'eventuale conflitto avesse decimato i sui soldati. Non funzionando più il telegrafo, egli inviava i due dispacci per espresso che così giungevano ad Urbino troppo tardi, quando i pontifici erano stati già cacciati. A Campocavallo si ebbe un primo scontro. Una squadra di gendarmi e di ausiliari pontifici, andata ad arrestare Camillo Felice Giunchi, uno dei capi più noti ed autorevoli del movimento liberale, da poco scarcerato e che ora si trovava nella sua tenuta di Camoscione, mentre stava perquisendo la casa del patriota, si vide passare innanzi la prima pattuglia dei finanzieri ; aprì il fuoco, ma, poi, accortasi di avere a che fare con forze di gran lunga preponderanti, si ritirò precipitosamente per la via di Pesaro, lasciando sul terreno un ferito. Per timore che i colpi sparati potessero aver destato l'allarme in città, che ormai non era molto lontana, la colonna affrettò la marcia di avvicinamento. Alla Villa Tortorina un'altra squadra di gendarmi, che proveniva dal Montefeltro dal quale era stata richiamata a rinforzare la guarnigione della città, avvistata la colonna, si era appostata per impedirne l'avanzata. I fuorusciti urbinati della colonna, che volevano essere i primi ad entrare nella città, si gettarono all'attacco impetuosamente gridando "Viva l'Italia, viva Vittorio Emanuele,, e, trascinandosi dietro tutti gli altri, assalivano i pontifici che dopo una breve scaramuccia si rifilavano in fuga per la via di Schieti. Si scorgeva ora, a quella distanza, la porta di S. Lucia aperta ed il maggiore Pierazzoli dava perciò ordine al tenente dei finanzieri Paolo Angelini di impadronirsene e di presidiarla fino all'arrivo del grosso della colonna. Il Paolini con gli urbinati e un piccolo gruppo di uomini, seguito a distanza dal Barlocci con gli altri finanzieri, arrivava fino alla porta che trovava indifesa. I pochi uomini di guardia l'avevano abbandonata ed erano fuggiti, alcuni fuori delle mura ed altri in città ad avvertire il presidio; per non dar tempo alla guarnigione di apprestarsi alla difensiva, il drappello, lasciato un piccolo presidio alla porta per assicurarsi la via libera in caso di ritirata, entrava decisamente in città. Alla testa degli attaccanti era il conte Gommi-Flamini con la sua buffa divisa di scozzese ; seguito da tutti gli altri, sbucò nella via di S. Francesco per dirigersi verso la piazza; al collegio Raffaello gli attaccanti furono accolti da un nutrito fuoco di fucileria da parte di un posto di guardia di volontari pontifici, che la gente chiamava per scherno "barbacani,,. I finanzieri si riservarono l'onore di snidarli e, dopo essersi appostati ai lati della via nei vani dei portoni, iniziarono l'attacco; nello scontro veniva ucciso un pontificio ed un altro rimaneva ferito; gli altri si davano alla fuga gettando le armi. Intanto un altro combattimento si aveva fra un gruppo di cacciatori guidati dal Pierazzoli e un drappello di gendarmi pontifici guidato dal capitano Gennari e dal maresciallo Rocchetti che dal vicolo di S. Filippo e dall'angolo del palazzo Castracane, all'imbocco di via Puccinotti, aprì un nutrito fuoco di fucileria. Lo scontro fu assai duro e fra gli attaccanti si distinsero per il loro coraggio i bolognesi Tacconi e Cesarini, il conte Gommi-Flamini, il conte Misturi di Jesi, il tenente Barlocci, Antonio Colocci ed altri. L'urbinate Luigi Marcucci, soprannominato Zapparino, fu uno dei più audaci. Da solo, precedendo di gran lunga i compagni, si era portato per vie traverse da S. Lucia in via Lavaggine e risalendola era sbucato di fronte a un corpo di guardia dì pontifici che si trovava ove è attualmente la farmacia Diani; solo, aveva aperto il fuoco contro il reparto e ferito un sergente al petto. In una breve tregua del combattimento fu intimata la resa ai gendarmi pontifici, ma questi la rifiutarono e seguitarono a combattere accanitamente. Infine, feriti il capitano Gennari, il maresciallo Rocchetti ed alcuni gendarmi, alzarono la bandiera bianca della resa. Ridottisi i gendarmi nelle caserme, restavano ancora intatte ed in forze le due compagnie dei volontari pontifici, ma esse diedero prova di scarsa foga combattiva, per fortuna degli attaccanti, che avrebbero potuto essere anche ricacciati se avessero avuto contro forze della stessa entità dei "barbacani,, ma dotate di ben altro spirito combattivo. Infatti i volontari pontifici, che stavano acquartierati nei locali dell'attuale seminario, mentre la gendarmeria combatteva con onore, si erano schierati con le armi al piede di fronte al Municipio e di tanto in tanto facevano qualche comparsa sui luoghi dei combattimenti per ritirarsi ad ogni accentuarsi degli attacchi. Alla fine, quando era cessato ogni altro combattimento, si mossero dal Duomo e scesero in schiere serrate al Mercatale, aggirando alle spalle e sul fianco gli attaccanti che venivano così a trovarsi in una posizione molto pericolosa. Fu il conte Gommi-Flamini che con un'azione spavalda e temeraria riuscì a risolvere la situazione. Solo, con la rivoltella in pugno, si fece incontro ai pontifici e intimò agli ufficiali di uscire dalle file; quelli, sbigottiti per tanta audacia, si fecero innanzi, obbedendo, e si sentirono dire che dovevano arrendersi, pena la distruzione totale, perchè tutto il presidio era stato annientato o messo in fuga e perchè l'esercito regio era vicino. Gli ufficiali pontifici, presi così all'improvviso, convinti forse di trovarsi di fronte a forze regolari travestite, impauriti per la vicinanza di un forte corpo di spedizione, dichiararono di essere pronti ad arrendersi e delegarono un loro rappresentante a trattare la resa. Il conte Gommi-Flamini accompagnò il delegato dal comandante Pierazzoli che, presi accordi anche con il capitano Gennari comandante del presidio pontificio, pose le condizioni della capitolazione che vennero accettate. I gendarmi dovevano uscire da Urbino con l'onore delle armi e gli ausiliari dovevano arrendersi a discrezione. Nel frattempo Casarini, Gommi-Flamini, Tacconi, accompagnati dall'avvocato Pompeo Natalucci e da Valeriano Pulsoni, si recavano dal Gonfaloniere conte Carlo Boni nella residenza municipale e gli comunicavano la decadenza del Governo Pontificio dalla città, chiedendo di conseguenza la formazione di una Giunta provvisoria di Governo e il suo ritiro dalla sede municipale.
Nella stessa giornata i principali patrioti di Urbino si raccoglievano nel palazzo Corboli e procedevano alla costituzione della Giunta di Governo che veniva composta con il conte Francesco Ubaldini, l'avvocato Bernardino Berardi, Federico Giammartini e il dottor Luigi Alippi, quale segretario. La Giunta fra l'indescrivile entusiasmo dei presenti, mentre venivano abbattuti gli stemmi pontifici, annunziava al popolo la liberazione della città e proclamava il Governo Nazionale: era l'8 settembre 1860. Sul tardi giungevano in città il Regio Commissario marchese on. Luigi Tanari di Bologna, il tenente Luttichau dello stato maggiore delle piazze ed un battaglione di volontari guidati dal maggiore Talentoni della Guardia Nazionale di Cesena e dal conte Laderchi di Faenza. Nel frattempo la Giunta di Governo aveva affidato a cittadini armati la custodia delle prigioni, la guardia di alcuni punti importanti e fatto bloccare e munire le porte di accesso alla città. In quella stessa memorabile giornata dell'8 settembre era insorta la gloriosa Pergola. Da tutti i paesi vicini, da S. Lorenzo, Mondavio, Senigallia, Fabriano, Jesi, erano giunti in schiere numerose i patrioti, i muri erano tutti tappezzati dei manifesti indirizzati dal Comitato di Emigrazione agli abitanti delle Marche e dell'Umbria: "Sorgete, adunque, sorgete! e quel grido che vi fu compresso nella strozza, rimbombi oggi nei vostri monti, nelle vostre vallee, e annunzi agli anelanti vostri fratelli che un'altra tirannide è caduta, e che si compie la risurrezione di un altro popolo oppresso". "Il mondo e Dio saranno con noi! Viva l'Italia, viva Vittorio Emanuele!" Una moltitudine di popolo, di ogni età, di ogni condizione sociale, si era radunata invocando l'annessione alla monarchia costituzionale dei Savoia, aveva disarmato e fatto prigioniera la guarnigione pontificia, aveva issato sul palazzo comunale il vessillo tricolore ed aveva inviato due rappresentanti, il dottor Carlo Geronzi e l'avvocato Giulio Fulvi, a Rimini al Quartier Generale del Cialdini per annunziare l'avvenuta insurrezione e richiedere l'aiuto delle truppe regolari. Ad Urbino, intanto, la mattina del 9 partiva per Torino, quale membro della Commissione Marchigiana incaricata di esprimere al Re i voti di unione delle Marche al Regno dei Savoia, il professor Francesco Massaioli; venivano istituite due commissioni provvisorie, una per provvedere al disbrigo degli affari comunali composta da Adamo Ramenghi, Luigi Mazza, dall'ingegnere Ercole Salmi e dallo stesso professor Massaioli, l'altra per l'arruolamento della guardia cittadina, per il mantenimento dell'ordine pubblico e per la difesa della città, composta da Federico Giunchi, Romolo Corradi, Pompeo Nata-lucci. Accorrevano in città numerose schiere di volontari da tutti i paesi vicini; da Pergola, su cui stava dirigendosi un corpo di spedizione di mille austriaci per reprimere l'insurrezione, giungevano ad Urbino più di trecento patrioti che secondo i piani prestabiliti dovevano ritirarsi nella zona del Montefeltro di fronte ad un'eventuale avanzata di preponderanti forze nemiche. In Pergola rimasero solo le donne, i vecchi e bambini e il Gonfaloniere Gaetano Ginevri, che, per rendere meno cruda la repressione, volle recarsi incontro agli austriaci, accompagnato da una rappresentanza del clero che spontaneamente si era voluta unire a lui in quella caritatevole e umanitaria missione. Il Gonfaloniere dovè ascoltare in silenzio i più atroci insulti, i più sarcastici motteggi ed anche minacce di morte da parte delle soldatesche che, malgrado le insistenti preghiere sue e del clero, sembravano volersi dare al saccheggio della città, quando l'annuncio dell'avanzata delle forze regie le mise in fuga. Le forze dei volontari concentratesi in Urbino raggiungevano e superavano le millecinquecento unità per cui si credette opportuno farle marciare su Fossombrone per liberare anche questa città, che era stata già raggiunta dai volontari forsempronesi Ascanio Manca e Guglielmo Fabbri che vi avevano portato i proclami del Commissario Regio. Una colonna di trecento volontari e finanzieri guidata dal Pierazzoli marciava sulla città che però trovava già abbandonata dalle truppe pontificie allarmatesi per il fermento che regnava fra la popolazione. I volontari, accolti con grande entusiasmo, provvidero alla proclamazione del Governo Nazionale. Circa duecento rimasero a presidiare la città, comandati da Alessandro Vecchioni di Pesaro e da Filippo Binotti di Rimini; gli altri rientrarono ad Urbino. Qui cominciavano ad arrivare da Pesaro voci insistenti che il Delegato Apostolico monsignor Bella, fremente di sdegno per l'insurrezione della città, aveva giurato di riprenderla ad ogni costo. Infatti il Delegato aveva telegrafato al Lamoricière affinchè inviasse una colonna a riconquistare le città insorte e il comandante in capo aveva subito ordinato al De Courten di marciare da Fano sulle città ribelli dell'interno. Il De Courten che disponeva di circa milleduecento uomini, del 1° e 2" battaglione dei bersaglieri austriaci e di due cannoni, divise le sue forze in due colonne, guidate rispettivamente dal colonnello Kanzler e dal luogotenente col. De Vogelsang, che avrebbero dovuto ricongiungersi a Mondavio. Operatosi il congiungimento, il Kanzler si gettò immediatamente su Fossombrone, mandando avanti un forte gruppo di ausiliari che, penetrati in città, sorpresero i volontari sparpagliati nelle case ed immersi nel sonno. Appena questi si furono riavuti dalla sorpresa, sotto la guida del Binotti, si recarono incontro al nemico che stava già cannoneggiando la città, ma a porta Fano il comandante cadeva fulminato da un colpo di fucile, che almeno così si disse, gli fu sparato da una finestra di fronte da un noto reazionario del luogo. I volontari, senza più guida alcuna, si sbandarono ed alcuni caddero anche nelle mani del nemico; i feriti, circa ciquanta, venivano posti in salvo nelle case coloniche delle alture ed in città sotto la cura del dottor Getulio Carletti. Fra i pontifici vi furono un morto e molti molti feriti. All'alba del giorno 11 tutto il grosso delle truppe pontificie entrava in città ed il colonnello Zappi, comandante del distaccamento, diceva al vescovo e al governatore che gli erano andati incontro : "Se tardavate a venire, avevo già deciso di spianare la città!,, Veniva subito, poi, proclamato lo stato d'assedio. La notizia della riconquista di Fossombrone e dell'arrivo di tutto il contingente pontificio mise Urbino in grande orgasmo e costernazione, dei quali fa fede l'allarmistico ed esagerato telegramma al Cialdini del sotto-commissario G.B.. Jonni : "A Fossombrone rinnovati i fatti di Perugia". Ad ogni modo si provvide subito alla difesa della città: furono munite le mura e le porte, trecento uomini guidati dal capitano Clementi furono inviati a prender posizione sulla strada di Pesaro, il tenente Paolini con un forte drappello venne mandato ad occupare l'altura a sinistra del ponte, che, vicino il cascinale Ca' Volpone, domina la strada per Fossombrone, l'ingegnere Castagnoli faceva saltare due ponti, sui monti vennero fatti i convenuti segnali di pericolo al Governo della Romagna e fu inviato a Mondaino Luigi Borgogelli a sollecitare urgenti soccorsi, che non tardarono a venire. Il Cialdini, infatti, il giorno 11 apponeva la data al famoso ordine del giorno, già preparato in precedenza (e sembra lo facesse in occasione dell'arrivo della missione pergolese Geronzi-Fulvi) che cominciava con le note parole "Soldati del 4" Corpo d'Armata, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse ai vostri paesi,, e si chiudeva dicendo : "L'inulta Perugia dimanda vendetta, e benché tarda l'avrà,,. Varcava il Tavullo, e con due divisioni (la 4a e la 7a agli ordini dei generali Villamarina e Leotardi) si dirigeva su Pesaro, mentre inviava il Cadorna con la 13a divisione alla volta di Urbino. Verso il mezzogiorno dell'11 settembre il Cadorna muoveva da Saludeccio e per la strada che porta dal Foglia a Montecchio e che risale la valle dell'Apsa giungeva sul far della sera ad Urbino entrando in città alla testa delle sue truppe fra il grande entusiasmo popolare e le più festose accoglienze. Il nemico intanto si ritirava da Fossombrone; mentre la brigata "Parma", il 2° bersaglieri e la 2' batteria proseguivano la loro marcia per Calmazzo e Fossombrone, il nemico abbandonava la città: il colonnello Zappi ripiegava su Pesaro ove era stato richiamato per assumere la difesa della rocca nella quale si era rifugiato monsignor Bella traendo seco una cinquantina di ostaggi; Kanzler e De Vogelsang ripiegavano su Senigallia e il De Courten si stava avviando verso Ancona per organizzarvi la difesa. La colonna Cialdini che marciava lungo la litoranea si era diretta intanto su Pesaro investendola da più lati e cannoneggiandola; alle ore 15 il 7" bersaglieri entrava in città scalando porta Collina ed altri soldati da porta Rimini, aperta agli attaccanti dai cittadini. Monsignor Bella dalla rocca si opponeva all'intimazione di resa, malgrado il parere del colonnello Zappi, ma il giorno successivo dopo un cannoneggiamento di piccoli calibri, usati per riguardo agli ostaggi, anche l'ultima resistenza cessava e il Bella e gli ausiliari pontifici potevano sottrarsi all'ira popolare soltanto per la protezione delle forze regolari. Il Cialdini proseguiva per Fano che veniva conquistata quasi senza colpo ferire lo stesso giorno 12 ed il 13 veniva occupata anche Senigallia, il giorno 15 era la volta di Jesi e di Osimo. Il Lamoricière, intanto, perduta Perugia e sgombrate Spoleto e Foligno, si dirigeva su Macerata, seguito dal contingente del generale Pimodan, per puntare successivamente, seguendo la strada di Porto Recanati, verso Ancona dove sarebbe stata tentata l'ultima e decisiva resistenza. La mattina del 18 settembre nei pressi di Castelfidardo l'esercito pontificio che tentava di aprirsi la strada per Ancona si scontrava con l'esercito piemontese: la colonna Pimodan di circa quattromila uomini, che era ora alla testa del contingente pontificio, attaccava vigorosamente una posizione tenuta da un battaglione di bersaglieri piemontesi; questi dovevano ritirarsi, ma poi, ricevuto il rinforzo di battaglioni del 10° reggimento fanteria e l'appoggio delle artiglierie, rioccupavano la posizione; il combattimento infuriava da tutte le parti e malgrado i tentativi più volte rinnovatisi da parte dei pontifici, guidati dal valoroso Pimodan, di riconquistare la posizione, questa veniva tenuta dai piemontesi che infine facevano indietreggiare il nemico verso il Musone; le truppe del Lamoricière, circa duemila uomini, che venivano di rincalzo si sbandarono al primo urto e l'intero esercito pontificio fu in rotta. Il Lamoricière con pochi fidi riuscì a portarsi in Ancona, ma il suo esercito era stato distrutto. La maggior parte era stata fatta prigioniera: sul campo, a Numana, a Loreto; a Grottammare e alla gola di Marano i "Cacciatori delle Marche,, , che solo il giorno 18, per mancanza di armi, avevano potuto sconfinare ed avevano poi provveduto a liberare tutto il Fermano e l'Ascolano, avevano catturato interi reparti di pontifici. A Castelfidardo si erano trovati di fronte 5-6 mila uomini per parte; i pontifici morti erano stati circa 90 e una settantina di parte piemontese, i feriti rispettivamente 400 e 184. Restava ora in piedi Ancona, ma la sua sorte era ormai segnata, assediata, come era, da parte di terra e di mare. La città era però munitissima; con la sua cittadella che dominava sia il mare che il retroterra, con diversi campi trincerati, con il porto sbarrato da una grossa catena di ferro, con 140 bocche da fuoco e settemila soldati, lasciava prevedere un lungo assedio. Cominciò l'attacco da parte di terra e di mare: vennero conquistate le località di Pietra della Croce, di Monte Pelago e il Lazzaretto; il Persano tentò con un'incursione notturna di scialuppe, guidata personalmente, di far saltare la catena di sbarramento del porto senza riuscirvi; i cannoneggiamenti erano violentissimi da una parte e dall'altra. Il giorno 28 la fregata "Vittorio Emanuele,,, mentre tutte le batterie costiere sparavano sulla flotta, con un'audace manovra si diresse a tutto vapore verso l'ingresso del porto e, virando di bordo, passò a cinquanta metri dalla batteria della lanterna e le lanciò una bordata che mise fuoco al magazzino delle polveri facendo saltare l'intero forte e la catena di sbarramento. I combattimenti continuarono tutta la notte, ma il giorno successivo, il 29 settembre 1860, il presidio pontificio si arrendeva. La liberazione delle Marche era un fatto compiuto. Intanto nelle zone liberate aveva inizio la prima riorganizzazione della vita civile e politica. Ad Urbino la Giunta Provvisoria di Governo cercava di attuare il trapasso dal vecchio al nuovo regime senza gravi scosse. Invitava perciò i cittadini a rispondere con "l'ordine e l'obbedienza alle leggi" al buon volere dei reggitori. "La virtù, il senno — diceva in un proclama in data 14 settembre 1860 — la ricchezza, il lavoro, tutto cospiri a mantenerci uniti e tranquilli, ed allora non mancherà quella concordia di pensiero e di opere che rende efficace e benefica l'azione del governo"; e, dopo aver rilevato le anomalie della situazione civile e politica del regime caduto, proseguiva dicendo : "Tale non debba essere, e non è il Governo Nazionale Italiano, pel quale innanzi tutto deve innalzarsi il sentimento morale del paese"; e così ammoniva: "Guai se il movimento fosse minimamente turbato o dalla malevolenza dei tristi, o dalle sfrenate passioni degli incontentabili, o dalle tenebrose arti dei vili, o dagli intempestivi desideri dell'inte-rtesse"; non sono degni del nome di Italiani coloro che "in qualunque modo disturbano la tranquilità cittadina sia con opere, sia don parole offensive"; "nessun disordine venga a turbare il sublime spettacolo dell'indipendenza, nessun spirito improvvido si attenti a far credere che dove regna Vittorio Emanuele possa trovarsi chi non rispetta la legge; nessuno pensi a vendette, ad ire di parte, a secreti maneggi". Il manifesto, poi, invitava a rispettare gli uomini e le idee e soprattutto la coscienza religiosa: "Rispettiamo tutti e soprattutto la Religione dei padri, la quale deve purificare i cuori italiani, mentre le menti s'illuminano con la scienza, e le destre si fortificano con le armi"; "la bandiera italiana è il segnale della civiltà, della forza, dell'unione e dell'indipendenza". All'alba del giorno 11 tutto il grosso delle truppe pontificie entrava in città ed il colonnello Zappi, comandante del distaccamento, diceva al vescovo e al governatore che gli erano andati incontro : "Se tardavate a venire, avevo già deciso di spianare la città!,, Veniva subito, poi, proclamato lo stato d'assedio. La notizia della riconquista di Fossombrone e dell'arrivo di tutto il contingente pontificio mise Urbino in grande orgasmo e costernazione, dei quali fa fede l'allarmistico ed esagerato telegramma al Cialdini del sotto-commissario G.B.. Jonni : "A Fossombrone rinnovati i fatti di Perugia". Ad ogni modo si provvide subito alla difesa della città: furono munite le mura e le porte, trecento uomini guidati dal capitano Clementi furono inviati a prender posizione sulla strada di Pesaro, il tenente Paolini con un forte drappello venne mandato ad occupare l'altura a sinistra del ponte, che, vicino il cascinale Ca' Volpone, domina la strada per Fossombrone, l'ingegnere Castagnoli faceva saltare due ponti, sui monti vennero fatti i convenuti segnali di pericolo al Governo della Romagna e fu inviato a Mondaino Luigi Borgogelli a sollecitare urgenti soccorsi, che non tardarono a venire. Il Cialdini, infatti, il giorno 11 apponeva la data al famoso ordine del giorno, già preparato in precedenza (e sembra lo facesse in occasione dell'arrivo della missione pergolese Geronzi-Fulvi) che cominciava con le note parole "Soldati del 4" Corpo d'Armata, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse ai vostri paesi,, e si chiudeva dicendo : "L'inulta Perugia dimanda vendetta, e benché tarda l'avrà,,. Varcava il Tavullo, e con due divisioni (la 4a e la 7a agli ordini dei generali Villamarina e Leotardi) si dirigeva su Pesaro, mentre inviava il Cadorna con la 13a divisione alla volta di Urbino. Verso il mezzogiorno dell'11 settembre il Cadorna muoveva da Saludeccio e per la strada che porta dal Foglia a Montecchio e che risale la valle dell'Apsa giungeva sul far della sera ad Urbino entrando in città alla testa delle sue truppe fra il grande entusiasmo popolare e le più festose accoglienze. Il nemico intanto si ritirava da Fossombrone; mentre la brigata "Parma", il 2° bersaglieri e la 2' batteria proseguivano la loro marcia per Calmazzo e Fossombrone, il nemico abbandonava la città: il colonnello Zappi ripiegava su Pesaro ove era stato richiamato per assumere la difesa della rocca nella quale si era rifugiato monsignor Bella traendo seco una cinquantina di ostaggi; Kanzler e De Vogelsang ripiegavano su Senigallia e il De Courten si stava avviando verso Ancona per organizzarvi la difesa. La colonna Cialdini che marciava lungo la litoranea si era diretta intanto su Pesaro investendola da più lati e cannoneggiandola; alle ore 15 il 7" bersaglieri entrava in città scalando porta Collina ed altri soldati da porta Rimini, aperta agli attaccanti dai cittadini. Monsignor Bella dalla rocca si opponeva all'intimazione di resa, malgrado il parere del colonnello Zappi, ma il giorno successivo dopo un cannoneggiamento di piccoli calibri, usati per riguardo agli ostaggi, anche l'ultima resistenza cessava e il Bella e gli ausiliari pontifici potevano sottrarsi all'ira popolare soltanto per la protezione delle forze regolari. Il Cialdini proseguiva per Fano che veniva conquistata quasi senza colpo ferire lo stesso giorno 12 ed il 13 veniva occupata anche Senigallia, il giorno 15 era la volta di Jesi e di Osimo. Il Lamoricière, intanto, perduta Perugia e sgombrate Spoleto e Foligno, si dirigeva su Macerata, seguito dal contingente del generale Pimodan, per puntare successivamente, seguendo la strada di Porto Recanati, verso Ancona dove sarebbe stata tentata l'ultima e decisiva resistenza. La mattina del 18 settembre nei pressi di Castelfidardo l'esercito pontificio che tentava di aprirsi la strada per Ancona si scontrava con l'esercito piemontese: la colonna Pimodan di circa quattromila uomini, che era ora alla testa del contingente pontificio, attaccava vigorosamente una posizione tenuta da un battaglione di bersaglieri piemontesi; questi dovevano ritirarsi, ma poi, ricevuto il rinforzo di battaglioni del 10° reggimento fanteria e l'appoggio delle artiglierie, rioccupavano la posizione; il combattimento infuriava da tutte le parti e malgrado i tentativi più volte rinnovatisi da parte dei pontifici, guidati dal valoroso Pimodan, di riconquistare la posizione, questa veniva tenuta dai piemontesi che infine facevano indietreggiare il nemico verso il Musone; le truppe del Lamoricière, circa duemila uomini, che venivano di rincalzo si sbandarono al primo urto e l'intero esercito pontificio fu in rotta. Il Lamoricière con pochi fidi riuscì a portarsi in Ancona, ma il suo esercito era stato distrutto. La maggior parte era stata fatta prigioniera: sul campo, a Numana, a Loreto; a Grottammare e alla gola di Marano i "Cacciatori delle Marche,, , che solo il giorno 18, per mancanza di armi, avevano potuto sconfinare ed avevano poi provveduto a liberare tutto il Fermano e l'Ascolano, avevano catturato interi reparti di pontifici. A Castelfidardo si erano trovati di fronte 5-6 mila uomini per parte; i pontifici morti erano stati circa 90 e una settantina di parte piemontese, i feriti rispettivamente 400 e 184. Restava ora in piedi Ancona, ma la sua sorte era ormai segnata, assediata, come era, da parte di terra e di mare. La città era però munitissima; con la sua cittadella che dominava sia il mare che il retroterra, con diversi campi trincerati, con il porto sbarrato da una grossa catena di ferro, con 140 bocche da fuoco e settemila soldati, lasciava prevedere un lungo assedio. Cominciò l'attacco da parte di terra e di mare: vennero conquistate le località di Pietra della Croce, di Monte Pelago e il Lazzaretto; il Persano tentò con un'incursione notturna di scialuppe, guidata personalmente, di far saltare la catena di sbarramento del porto senza riuscirvi; i cannoneggiamenti erano violentissimi da una parte e dall'altra. Il giorno 28 la fregata "Vittorio Emanuele,,, mentre tutte le batterie costiere sparavano sulla flotta, con un'audace manovra si diresse a tutto vapore verso l'ingresso del porto e, virando di bordo, passò a cinquanta metri dalla batteria della lanterna e le lanciò una bordata che mise fuoco al magazzino delle polveri facendo saltare l'intero forte e la catena di sbarramento. I combattimenti continuarono tutta la notte, ma il giorno successivo, il 29 settembre 1860, il presidio pontificio si arrendeva. La liberazione delle Marche era un fatto compiuto. Intanto nelle zone liberate aveva inizio la prima riorganizzazione della vita civile e politica. Ad Urbino la Giunta Provvisoria di Governo cercava di attuare il trapasso dal vecchio al nuovo regime senza gravi scosse. Invitava perciò i cittadini a rispondere con "l'ordine e l'obbedienza alle leggi" al buon volere dei reggitori. "La virtù, il senno — diceva in un proclama in data 14 settembre 1860 — la ricchezza, il lavoro, tutto cospiri a mantenerci uniti e tranquilli, ed allora non mancherà quella concordia di pensiero e di opere che rende efficace e benefica l'azione del governo"; e, dopo aver rilevato le anomalie della situazione civile e politica del regime caduto, proseguiva dicendo : "Tale non debba essere, e non è il Governo Nazionale Italiano, pel quale innanzi tutto deve innalzarsi il sentimento morale del paese"; e così ammoniva: "Guai se il movimento fosse minimamente turbato o dalla malevolenza dei tristi, o dalle sfrenate passioni degli incontentabili, o dalle tenebrose arti dei vili, o dagli intempestivi desideri dell'interesse"; non sono degni del nome di Italiani coloro che "in qualunque modo disturbano la tranquillità cittadina sia con opere, sia don parole offensive"; "nessun disordine venga a turbare il sublime spettacolo dell'indipendenza, nessun spirito improvvido si attenti a far credere che dove regna Vittorio Emanuele possa trovarsi chi non rispetta la legge; nessuno pensi a vendette, ad ire di parte, a secreti maneggi". Il manifesto, poi, invitava a rispettare gli uomini e le idee e soprattutto la coscienza religiosa: "Rispettiamo tutti e soprattutto la Religione dei padri, la quale deve purificare i cuori italiani, mentre le menti s'illuminano con la scienza, e le destre si fortificano con le armi"; "la bandiera italiana è il segnale della civiltà, della forza, dell'unione e dell'indipendenza".
Al seguito delle truppe piemontesi avanzava pure la nuova autorità politica che poneva sotto la sua giurisdizione le terre liberate; era essa rappresentata dal Regio Commissario Generale Straordinario nelle Provincie delle Marche Lorenzo Valerio, ex deputato della sinistra subalpina e già governatore di Como nel 1859, eletto alla carica di commissario con decreto del 12 settembre 1860. Egli aveva nominato, a sua volta, con uno dei primi provvedimenti, l'on. Tanari a Commissario della provincia di Pesaro-Urbino e stabilito che le Giunte provvisorie dovevano essere sostituite nelle Provincie da un Commissario e nelle città principali da un Vice-commissario. La provincia di Pesaro-Urbino venne divisa in un primo tempo nei vicecommissariati di Senigallia e di Gubbio; con decreto, poi, del 20 novembre 1860 l'aggregamento di Gubbio veniva assegnato all'Umbria; ad Urbino veniva inviato un Pro-commissario non volendo mutare il vecchio ordinamento delle due Provincie montana e marittima. Lorenzo Valerio dava subito inizio all'opera di trasformazione civile e politica della regione. Già dalla sede provvisoria di Senigallia metteva in atto una prima serie di importanti provvedimenti di carattere economico, finanziario, giudiziario e politico : diminuiva il prezzo del sale e protraeva la scadenza delle cambiali per venire incontro alle prime difficoltà delle popolazioni; separava il potere giudiziario da quello di polizia, che nell'amministrazione pontificia erano accentrati nelle mani del governatore, per dare una maggiore garanzia di autonomia alla magistratura nei confronti dell'esecutivo; aboliva le interdizioni civili e politiche per gli acattolici, ponendo fine alle condizioni di minorità in cui si trovavano molti cittadini, fra cui i consistenti gruppi ebraici residenti nelle città costiere della regione; estendeva alle Marche la legge comunale e provinciale del Regno di Sardegna che rendeva elettive le amministrazioni locali; istituiva la Guardia Nazionale; scioglieva la Compagnia di Gesù e ne espelleva i membri stranieri dalla regione; aboliva il tribunale del S. Uffìzio e dell'Inquisizione, aboliva il diritto d'asilo e il foro ecclesiastico per affermare il principio dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle leggi. Dalla sede di Ancona, dopo la liberazione della città, emanava altri provvedimenti: avocava allo Stato la pubblica istruzione, che prima era nelle mani del clero; eliminava gli ultimi residui del diritto feudale riguardo alla proprietà proibendo la primogenitura e i feudi fidecommissi ; riformava secondo criteri più umanitari il sistema carcerario; introduceva il sistema metrico decimale al posto dei confusi e multiformi sistemi di misura prima esistenti; istituiva la leva militare obbligatoria; sopprimeva gli ordini religiosi non dediti all'istruzione e all'assistenza e ne incamerava i beni, assegnando i patrimoni di trenta conventi ai comuni, lire 160 mila annue all'istruzione e alla beneficenza e destinando i libri dei monasteri soppressi alle biblioteche comunali e alle Università della regione. Lo Stato sovrano moderno affermava così i suoi diritti anche nelle terre marchigiane, in cui il suo secolare antagonista, lo stato teocratico, aveva avuto reale ed effettiva giurisdizione. Ad Urbino il Valerio, ove, in occasione di una sua visita, era stato accolto da un grande tripudio di folla, in mezzo alla quale erano anche i convittori del Collegio dei Nobili con in testa i loro istitutori, i Padri Scolopi, faceva sorgere un asilo infantile che prendeva poi il suo nome e al quale il fratello, Cesare, lasciava morendo un legato. Vi istituiva pure, in omaggio alla tradizione artistica della città, una Scuola di Belle Arti; riordinava l'Università e vi fondava la scuola normale per i maestri con annesso un collegio contribuendo così a fare di Urbino quel fiorente centro di studi che oggi è. Dal provvedimento di soppressione delle corporazioni religiose, poi, escludeva insieme ai Minori Conventuali di Ascoli quelli di Urbino affinchè rimanessero a custodire la loro chiesa monumentale. La città volle essere riconoscente all'uomo politico che aveva compreso il valore della sua tradizione artistica e culturale e gli eresse nel 1871 un busto con una sottoscrizione alla quale parteciparono molte città della regione ed insigni uomini politici, come il Ricasoli, il Depretis, Quintino Sella. Gli concesse pure la cittadinanza onoraria, così come fecero Ancona, Ascoli, Camerino e Jesi. Urbino non dimenticò neppure i suoi liberatori e concedette, non appena entrò in funzione il suo primo Consiglio comunale liberamente eletto, la cittadinanza onoraria al conte Gommi-Flamini, che su proposta del Cavour per il suo eroico comportamento era stato insignito di medaglia al valor militare, e conferì il titolo di patrizio della città all'avvocato Camillo Gasarmi. La prima amministrazione comunale libera espressione della volontà popolare vedeva assurgere alla carica di sindaco l'ingegnere Ercole Salmi e a quella di assessori Adamo Ramenghi, Luigi Mazza, il professor Massaioli, Giambattista Vi-varelli, Romolo Corradi, Filippo Grifoni; ne era segretario il dottor Vincenzo Romani, il nobile patriota che aveva diretto il comitato urbinate della Società Nazionale, l'associazione Che fondata nel 1857 da Daniele Manin, dal La Farina e da Giorgio Pallavicino con la divisa "Italia e Vittorio Emanuele" tanta parte aveva avuto nelle annessioni dell'Italia Centrale.
Anche ad Urbino, come nelle altre città della regione, non erano mancati oppositori e mormoratori contro il nuovo regime politico, tanto che la Giunta Provvisoria di Governo si era vista costretta a pubblicare il 21 ottobre 1860 un manifesto in cui contrapponeva alla moderazione e all'indulgenza "più singolare che rara" del Governo del Re l'azione degli "avversari della pubblica tranquillità, della cittadina concordia, dell'ordine generale", che andavano "seminando voci e notizie vuote di senso nel popolo" che se potevano essere "accolte con il riso della compassione dei saggi", potevano però produrre "deplorevoli effetti fra le menti o deboli per ignoranza, o troppi facili a credere, perchè non esperte, a tali tristi manovre". La Giunta proseguiva dicendo che prima di procedere a misure di rigore credeva opportuno per il momento ammonire, ma che si tenesse ben presente "che tutti, senza tener conto al grado, alla veste, al titolo, alla classe sociale" erano uguali di fronte alla legge che sarebbe stata ben severa contro quelli "che con arti subdole e false" si fossero ancora permessi di spargere i semi della discordia e i timori del pericolo "tra gli idioti e le donnicciole tanto tra le masse cittadine, quanto tra le rispettabili ignoranze dei campagnoli". La quasi totalità della cittadinanza accolse però con soddisfazione il nuovo ordine politico che veniva ad appagare le aspirazioni ad un regime di vita pubblica più modernamente organizzato e strutturato, in cui le libertà del cittadino venissero tutelate e promosse, e che realizzava l'unione alla grande patria italiana. Ciò ci è attestato anche dai risultati del plebiscito che sanciva l'annessione alla monarchia sabauda che venne tenuto in tutte le Marche il 4 e il 5 novembre 1860. La votazione alla quale parteciparono tutti gli uomini di età superiore ai 21 anni poneva il quesito: "Volete fare parte della Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II?" Un proclama diretto alle popolazioni, che accompagnava il decreto del 21 ottobre 1860 che convocava i comizi elettorali, invitava i buoni cittadini a votare, garantiva la piena libertà del voto e poneva il facile dilemma: "O essere parte d'una grande nazione, o provincia di un piccolo stato. O commilitoni di Vittorio Emanuele con le glorie di Palestra e di San Martino, o soldati di Lamoricière e suoi pari coi loro nomi di scherno. O eguali avanti le leggi, che i vostri deputati concorreranno a formare, e quindi reggitori di voi medesimi, o servi all'arbitrio di una classe privilegiata. Dipende da voi appartenere ad uno stato civile che vi dia la giustizia, la sicurezza, l'istruzione, avere industrie e commerci; o nulla di tutto questo come non aveste nulla sin ora. A voi la sentenza". Il plebiscito diede nella regione il seguente risultato : 133.783 sì, 1.212 no, 260 voti nulli. La provincia di Urbino (distinta da quella di Pesaro) diede 21.111 voti favorevoli, 365 voti negativi, 29 nulli; la città partecipò con grande entusiasmo alle votazioni e fra le donne e i giovani minorenni, che non aveva no potuto essere elettori per le disposizioni di legge, moltissimi firmarono un indirizzo al Re che attestava la loro adesione al nuovo ordine politico, così come avvenne in molte altre città delle Marche. Il 22 novembre 1860 il risultato del plebiscito veniva presentato al Re da Lorenzo Valerio che guidava una deputazione di marchigiani: Michele Fazioli per la provincia di Ancona, l'avvocato Andrea Cattabeni, presidente di Tribunale, per le Provincie di Pesaro e Urbino, il marchese Giacomo Ricci per Macerata, il conte Domenico Monti per Fermo, il marchese Mariano Alvitreti per Ascoli, il Conte Giuseppe Parisani per Camerino. Presentando il verbale del plebiscito al Sovrano il Valerio pronunciava questa breve allocuzione: "Sire! alla vostra corona italica si aggiunge ora una piccola ma preziosissima gemma. Le sei Provincie delle Marche col loro milione: di abitanti, offrono il sangue e gli averi a Voi, per la cui virtù si ricompone la grande famiglia italiana, di cui vogliono far parte. O Sire! Voi nelle Marche avrete operosi cittadini, soldati valorosi, cittadini degni di Vittorio Emanuele". Il 17 dicembre veniva emanato il decreto reale che sanciva l'annessione delle Marche, il cui primo articolo così laconicamente suonava: "Le Provincie delle Marche faranno parte integrante dello Stato Italiano dalla data del presente Decreto"; Lorenzo Valerio lo faceva conoscere alle popolazioni con un breve e solenne indirizzo: "Italiani delle Marche, i vostri voti sono definitivamente adempiuti". Il 10 novembre intanto era stato esteso alla regione lo Statuto Albertino. Il 18 marzo 1861 nasceva il Regno d'Italia. Il popolo italiano poteva così organizzarsi finalmente in. uno stato nazionale e costituzionale in cui i principi fondamentali della libertà civile e politica erano tutelati e garantiti. Ancora restava molto da fare, sia dal punto di vista dell'unificazione nazionale per il completamento dell'unità territoriale, sia per quanto riguardava una maggiore liberalizzazione e democraticizzazione della vita politica interna e l'accesso delle masse popolari al governo della cosa pubblica, ma il primo passo era stato compiuto. Il popolo italiano si era ormai avviato con la formazione dello stato moderno nazionale e costituzionale sulla via del progresso e della civiltà; molti ostacoli, conflitti, periodi di stasi e di involuzione, avrebbe dovuto incontrare nel suo cammino, ma tutti, seppure faticosamente li avrebbe superati perchè la fiaccola degli ideali del 'Risorgimento anche negli anni più buii della sua storia avrebbe illuminato la sua azione; quegli ideali di libertà, di giustizia, di pacifica convivenza con tutti gli altri popoli della famiglia umana, che debbono guidare l'ascesa di ogni popolo civile pensoso dei suoi destini e di quelli dell'umanità intera.
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150° Anniversario dell'Unità d'italia URBINO 1860 di raffaele molinelli |