III° Concorso 2000 |
Tutti gli autori dialettali |
RENZO DE SCRILLI
"Dalla mia finestra"
Michele Gianotti: |
PREFAZIONE di CARLO BO
Ho conosciuto il dottor Renzo De Scrilli una mattina d'inverno, ero malato nella stanza numero sedici dell'albergo del signor Pierino in Urbino. Dico d'averlo conosciuto di persona soltanto allora, ma dopo molti anni che lo vedevo in piazza sull'angolo della farmacia, sotto i portici o di fronte, davanti al tabacchino. In fondo bastava l'incontro per cogliere dalla sua fisionomia la gentilezza, il segno dell'altra figura più vera e nello stesso tempo così intimamente legata a quella del medico, la figura segreta del poeta. C'era nel suo modo di fare un certo piglio, un che di baldanza che non sfiorava mai l'eccesso ma tradiva soltanto una diversa partecipazione della vita, una forma più alta di conciliazione e di intelligenza. Sempre in quella visita mi disse, al momento del congedo «Un giorno Le farò leggere i miei versi». La promessa non fu mantenuta, a volte - ma senza peso, quasi di sfuggita - fu appena ripetuta. Continuai per qualche anno a rivedere il medico al suo posto di colloquio, in piazza. Poi un giorno mi dissero che era molto ammalato. Seppi così, dopo una mia assenza da Urbino, che se ne era andato. La conoscenza col poeta data, dunque, da poco ed è una conoscenza che per gran parte resta sul limite dell'ammirazione e un po' tocca il rimpianto. Ci si rammarica sempre di non aver capito, di non aver fatto un segno di riconoscimento. Ci sono passati vicino degli spiriti degni d'attenzione e non abbiamo fatto nulla per testimoniare la nostra partecipazione: il dottor De Scrilli rientra in questa grossa famiglia di poeti segreti, timidi. Gente che non ha cercato né la piccola gloria né il rumore del momento ma ha coltivato il campo della loro piccola musa con un amore geloso, con un riserbo di cui riesce difficile calcolare il peso interiore, il valore spirituale. Perché il dottor De Scrilli è diventato poeta? Che cosa c'è all'origine della sua ispirazione? Mi sembra che si debba cercare la prima chiave della sua voce nella costante e generosa frequentazione degli umili. Evidentemente egli sapeva ricavare dalla professione, esercitata per tanti anni nel Ducato di Urbino, una conoscenza delle passioni umane che determinava nel suo spirito non stanchezza, non sfiducia ma, al contrario, pazienza, e ancora amore, partecipazione sincera. La sua poesia ha gli stessi confini del suo mestiere di medico condotto, la campagna, i monti, le stupende colline che disegnano uno dei paesaggi più palpitanti di poesia che l'Italia offre e come centro la sua Urbino, questa città che è diventata nel corso della sua vita una parte dell'anima, un luogo dello spirito. Se non ci fosse stato nel suo cuore questo disegno armonioso, questa capacità di cogliere l'essenza delle cose egli non sarebbe mai uscito fuori dei termini ambigui della poesia dialettale. Ora il cammino fatto dal poeta De Scrilli va misurato proprio in questo senso, da una musa tutta particolare, quasi casalinga e umorale a una visione completa della vita, con le aspirazioni e le cadute, con un ritmo più ampio e profondo. Naturalmente non sempre gli riusciva di « tenere » su un registro così alto ma il fatto che qualche volta abbia potuto mantenervisi con forza sta a dimostrare il lavoro, la pazienza del poeta. La vita che De Scrilli evoca o assale nei suoi versi è priva di grossi avvenimenti, non porta tracce di storia grande. Non restano le imprese né lo potrebbero perché sono anonime, restano però le passioni o, meglio ancora, il ciclo stesso della vita che macina e annulla passioni, sentimenti precisi. Ed è proprio allora da questa fatale distruzione del tempo che si leva qualcosa di consistente, di eterno, un altro mondo a cui il poeta dà i colori delle stagioni, il sublime calendario urbinate e sopra tutto l'urto, la violenza delle sue domande. Con ciò non si vuol dire che la sua poesia tocchi il dramma, dal momento che la distruzione è avvenuta in una specie di rassegnazione o, per essere più esatti, sul filo di domande imprecanti e di conoscenza della vita, del sangue, dei nostri limiti terreni. In tal modo la .storia terrena degli uomini si divide per De Scrilli in due libri diversi, a dirittura contrapposti: da una parte la serie degli avvenimenti che in campagna, nel mondo naturale del poeta, sono scanditi su tre soluzioni, fisiche (la nascita, il dolore e la morte), dall'altra parte il giuoco delle luci, la voce del cielo. Il curioso è che dall'opposizione non nasce mai un giuoco facile, la trama di una filosofia elementare: quando diventa veramente attiva, essa suggerisce al poeta un sentimento, una passione, quella che un tempo si sarebbe chiamata passione intellettuale. A questa immagine robusta dell'uomo che sa, che conosce e sopporta ne segue un'altra diversamente venata e percorsa da un sangue ricco di sentimenti più facili, più vicini alla storia temporale del poeta. Non sarà difficile a chi ha conosciuto il dottor De Scrilli ritrovare in certe cadenze, in certi abbandoni le conidenze e gli sfoghi immediati del suo animo. È, dunque. una gamma abbastanza ricca di voci e di espressioni: un'altra cosa da notare, di fronte a un poeta che a prima vista appare così circoscritto e magari conchiuso. Ma resta la prima domanda. Da dove ha tratto questa immagine di vita ancor oggi così palpitante, così recuperabile alla lettura dei suoi versi? Dobbiamo interpretare la sua disposizione poetica come una specie di rivalsa sulla parte del male, sullo spettacolo quotidiano dell'apparente ingiustizia, meglio ancora del mistero che regola la nostra vita e sembra placarsi e illuminarsi per un attimo nel momento della morte, nella voce dei morti che ha così bene restituito sull'eco delle campane di San Bernardino? La miseria umana, i limiti di chi soccorre, di chi viene in aiuto, la ruota delle stagioni, il piccolo giardino di casa le scale, il passo del fratello morto: la sua poesia conosce soltanto questi avvenimenti privati sì ma dotati di una carica generale, assoluta, di una porzione di verità. Che caso curioso, questo, di un poeta dilettante che riesce a toccare la sponda ingenua, naturale della poesia attraverso la ripetizione dialettale. Di solito il poeta dialettale (e il dottor De Scrilli occuperà un. bel posto nell'antologia che un giorno si dovrà pur fare della poesia urbinate) é vittima del bozzetto, della macchietta, risolve tutto in chiave .sentimentale. Per De Scrilli la posizione è rovesciata,: egli ha .saputo fàr tenere in un fragile vaso, un'onda ben più alta di poesia, diciamo pure, un sentimento universale. E direi qualcosa, di. più, l'immagine di una vita spesa bene: non legata agli interessi immediati ma alimentata, nutrita da un senso delle proporzioni. quale la poesia sola può restituire, molto di più della .scienza e della stessa vocazione (nel bene o nel male). « Un giorno le, farò leggere i miei versi », sento ancora il tono di confessione, un movimento di gioia e mi pare di capire finalmente il senso vero di quelle parole. Che cosa voleva, dunque. dire il dottor De Scrilli, alzandosi dalla sedia posta accanto alla finestra della stanza numero sedici? Che cosa se non questo: il poeta parla da solo, parla da sempre e non ha bisogno di grandi mezzi, di grosse soluzioni critiche ma per vivere e restituire la vita agli altri gli basta avere la fede, credere ingenuamente alla voce che avverte dentro di sé e a volte lo travolge. Era in fondo una piccola lezione che quel, caro dottore di campagna dava a un letterato presuntuoso, la lezione di un nonadetto ai lavori favorita a chi credeva di non essere mai uscito dal cantiere della poesia nuova, insomma la vittoria del sentimento vero e onesto sul calcolo.
Carlo Bo Urbino, 14. febbraio 1961
'Na striscia d' sol ch'arentra dal bug d'una persiana com una ftuccia colorata d' rosa, só p' i tett, una strana conversasion de passre . . . tra pr'el cel un stridio de rondon ch' van come matt.
Giò pr'el vigol do' gatt in t'un canton te tirne l'ultme not d'na sinfonia, principiata a l'oscur malé, pett a chel mur propri stanott !
Sbattne le prime fnestre, s'arsentne le prim voc ed i prim pass. . . già s'arcompon el giorne e tutt' intorne s'arcmincia sa chla vita, sa chla solita vita, semper la stessa storia sempr'el sistema stess per tutt, anca per no' che tant volt, ansi spess voriam cla fossa fnita . . . e non è vera ! Perché ma no' ce piac, anca se non da pac, sta nostra vita.
Urbino, 6 agosto 1954
Io sono sempre in ascolto: tutto mi parla all'intorno ! O quante voci mi giungono . . . semplici voci ed immense !! Vorrei accoglierle tutte, nell'anima mia !
Stamane un suon di campane chiamava accorato: " Vieni, ritorna" e suonavan a dolci e mesti rintocchi !! Ma io son rimasto . . . con lacrime agli occhi !
Vieni, che pensi? che fai ? Perché soffri tanto ? La vita ? È semplice cosa ! La morte ? non è dolorosa ! Ci apre le Porte del Mondo, del Mondo dell'Anima . . . E tu non vieni al richiamo ?"
Non sono andato. . . Sono rimasto lontano!
Debbo andare ? Andrò ! . . . Piegherò d' innanzi all'Altare i miei doloranti ginocchi; offrirò . . . il mio peccato e dirò: " Padre, perdona . . . io cercherò di non peccar più . . . aiutami, aiutami Tu!.. .''
Alla prim'ora di ogni mattino mi giunge all'orecchio un fruscio lieve come un sospiro !
Lo spazzino accarezza la sua strada!
Urbino, 19 settembre 1953
Le ombre della sera s'addensano sui tetti grigi; un tenue color di rosa, ultima luce del sole che cade, illumina il Palazzo ducale!
Corron le nubi, inseguite dal vento impetuoso che par voglia cacciarle dal Cielo !
S'è fatto già buio nel mio giardino; ma scorgo le piante agitate, sconvolte dallo scirocco, brancolare qua e là, come in cerca d'aiuto . . . Emettono suoni che sembrano voci d'angoscia e talora sospiri !
Ombre cupe son anche nell'anima ed opprimente tristezza e paura della notte che incombe !!
Do prac'tin de spinac ch' nascen adess e vent bugh de pisei ch' spunten apena, timidi, ratrapit, ch' fann guasi pena qualch palla d'cavi, boni da fa less.
El per, el succne en come ischeletrit e sol el gall, canta de bona lena fra le galin ch'en tutt' ingrufolitt tien testa dritta; el fred en i dà pena !! De passre un branc s'arversa pr'el stradin e saltella a beccà tutt chi granei che dalla catinella dle galin en caduti per terra . . . t' 'n angolin un calicant ha mess fora i su' fior e s' ún i va da vcin se sent un gran odor da ch' l'arbre sensa foi, ch'par come mort . . . e ch' prima ch' la sia fnita vol spanda tra per l'ort el profum dla su' vita.
Risento il passo del Fratello mio. il passo lento che salia le scale; altri è che passa e pur mi sembra uguale !! Altri è che passa e non mi sembra vero che a Casa nostra un altro sia venuto a star dove sei stato tu, mio Renato !
Non sei neppur nel nostro Cimitero, morto non sei Fratello, è tuo quel passo, è quello
e sei tu che saluto da dentro lo studiolo affaticato a combattere il mal, anch'io malato!
Tu sei giunto, Fratel, seguo il tuo passo: io pure salirò tutte le scale e ti raggiungerò là dove credo di non trovar più il Male !!
Un passarot strapat da la so' cova e mess dentra 'na gabbia al de fora d 'na fnestra, dichne che canta ! Ma me me par ch' se lagna, ansi che 'l piagna e non tant pr'el magnà ch'alfin qualcun li dà !! Vlem fa 'na prova !? Provam, provam un po' d'arportal t'la su' cova? I' so' guasi sicur ch'el passre en piagnrà piò che daver cantarà ! Cosa vlet che I'afanna artrovand la so' Casa e la so' Mamma !?
suoni - rumori - voci e persone di primo mattino
A la matina arsent la mi' campana che per prima rintocca a San Francese, e quella piò lontana de Santa Caterina e po' quella d' San Serg ! E dal rumor di pass giò giò per la stradina de bon'ora arcnosc la gent ch' va fora per i so' fatt . . . e la voc di vicin quella de Pungolon e d' Leoncin ch'arentne in discussion s'el temp arfarà trist o s' farà bon ! Ecc, atacne i motor dle corrier che van giò per Pesre e Fan e apena spunt' el sol le scarp del latarol che sal su' tamburlan fa un rumor special mentre a bass, tel giardin dal polar, le galin sa l'antra, quà quà quà, reclamnen da magnà!
M'als anch' i' de bon ora e da casa vagg fora ad incontrà per prim quasi sempre Gagin e piò in là Roboam sa 'l giornal in t'le man e sa chi occh stralunat ch' metten paura ! S'avansa la figura d' Sor Antonie che pien de cerimonie me cerca de spiegà cosa dic l'Unità ed un nombre m' ne dà quasi sempre aretrat, forsi pensand ch'en so' tant avansat ! Ariva de gran fuga e mezz sfiatat intant Ughett ch' me fa veda el brodett e po' Brenno ch'artorna da la spesa per daver matutina e me cmincia a parlà dla su' fiolina ! Dop, sensa tante storie cominc in piassa el prim ambulatorie !
Anca per tutt ste cos e non soltant per quelle mravios ce sto ben t'el mi Urbin Amir i grand, mo voi pió ben ma i pcin.
La matina, pr'el fresc, pianin, pianin vagg, per la strada vers el Cimiter e, fatta la salita de Bianchin, prend a man manca só per un sentier! è la costa de sora a Ricotin, dov sta Piston, en v'arcordat quant ser sem gitti a beva quale chicott de vin alegri, in pac e sensa tant pensier !? Sbocch in t' la strada sotta la Pineta ss 'l respir aross ... me ferm un cuncinin … arprend el fiat che a poc a poc s'acueta !
Quant'è bel da chel sit, el nostr' Urbin ! Dal torion d' Santa Chiara 'na cometa se stacca e fila vers San Bernardin !!
Campi fioriti, rossi de lupin. aria frisant e tutta profumata. s'alsen triland t'el ciel i lodolin; el falch intorna a lor fa la " slalata ". Ved el Carpegna, guarda San Marin e la spiaggia d' Catolica, adagiata . . . . . . … una vela in t'el mar ch'è tutt turchin stacca sa la su tela colorata!
Ecca el Neron acciliat e fier, el Petrano fiorit com un giardin l'Acut el Catria da l'aspett sever; piò in qua la Strega . . . o bei monti d' Urbin quand el sol infocat cala tant ser e ting de viola i fianc e d'or le cim !!
Ho 'na passion per te, bella Cesana, pr' la to aria i to bosc ed i to fior pr'el silenzi la pac soav, arcana ch'amansisc ed acueta i mi dolor. Da te me vien com 'na dolcessa strana ch' penetra, invad e fa tant ben mal cor, e vad content per la tu strada piana da la gioia ch' me dè, nasc el mi amor !!
Magg è gentil e t'ha portat in don 'na bella vesta tutta colorata de mille fior, el mes piò bell e bon! Dicembre te fa trist e desolata t'arcopre d'un di chi su gran nevon, mo la blessa nascosta è piò bramata !!
S'arivat fora d' Porta, quella d' Santa Lucia, vo vedet subit Loret !! C'è com 'na montatina tra do fil de Cipress, só só, propri in t' la cima 'na Chiesa e t'la facciata dentra 'na nicchia, sta la Madonina, ch'artien in tla bracciata el Bambin ! Tutta nera, carina se pur non agrasiata, semper 'na Madonina !!
M'arcord che da pcinin, m'arcord com fossa adess quand'era Primavera i portavme ogni sera de fior un massolin! Ce pareva contenta quand' i davan chi fior, la Madonina luminata dal Sol ch' tramontava infocat fra el Carpegna e i Simon. Era el Magg profumat e giò per chle grepat
com cantaven i grill ! So, pr'aria tutt un trill un vol de rondanin e fra i Cipress un cantà piò somess de passre e de cardlin !
O bei sit del mi' Urbin ! quant volt me so fermat a guardav, a pensà ! E semper una blessa nova i ve c' ho trovat; e semper 'na dolcessa nova ho sentit in t' l'anima per l'armonia cangiant fra le vall ed i mont fra le alb e i tramont fra la luc e i color fra le erb ed i fior fra la terra ed el Ciel ... O bei sit del mi' Urbin dov se ved, dov se sent ch' ve poi avé creat El Maestre Divin, Lo' solamcnt !
Urbino, 15 agosto 1947
Mi bab, quand'er pcinin, mis giò 'na massa d' Pin, m'arcord, in t'un pogett de sora d'un boschett;
e ce diva: " Fioi mia, quand' i sarò git via, sti arbre saran maché ! . . . ve potret arcordé ch' i avet piantat sa me! "
Com'en cresciut i Pin ! Anca i', da pcinin, so' dventat bell e vecch i', c' ho i capei canuti e ch' i arbre qualch ram secc!
Ho in t' l'anima un mal fin, 'na spec d'ipocondria; finirà la vita mia ed armanran i Pin !!
Mo guardand tra per l'aria ma chle piant propri bell, ved la Processionaria só, só per el modell !!
Me vien fatt de pensà ch' in t' l'anima anca i Pin sentiran el mal fin. . . ch'avran l' ipocondria dla vita che va via d'acsé, pianin pianin, anca ma i Pin !!
Da qualca sera, a la medesim'ora, fors da la stessa pianta, el Cucch arcanta la vecchia e cadensata nota: cu cu . . . cu cu ! . . . E non se stuffa e non arprend mai fiat . . . è un ucel disgrasiat sa ch' la voc scansonata, pró ve sa dì che la bona stagion è ormai tornata ed anca lo, a su mod, se fa capì !!
S'arforma ormai l'orchestra d' Primavera ed el prim Profesor ad arivà è sempr'el Cucc, se sa, Profsor de Contrabas artista da strapass ! ! …
Mo' quand piò cald è el sol e pio seren el ciel eccate l' Usignol sa'l su' flaute divin dal bosc, sotta le stelle . . . e grill e raganelle e tanti atre animal l'acompagnen in cor sa 'na gran frenesia ! In t'i foss i ciambott fan la part di fagott !!
Tutta sta Sinfonia quant nott m' la so' goduta apogiat in t'la fnestra dla mi cambra, sol sol a casa mia. E fra d' me 'niv pensand cosa mai vlessa di' sta gran musiga strana . . . e, pensand, armirava a la lontana el Ciel stelat, la su' volta infinita e pió me sprofondav int'el mister dla vita . . .
Quindici ottobre: Santa Teresa ! Cielo terso, azzurro, lucente; sole autunnale, aria frizzante, aspra! Nebbioso ad oriente l'orizzonte !
Santa Teresa ‑ Colomba presa !
Un uomo sta nella tesa, quasi in esultanza per una speranza che s'affida all'aria, al cielo, alla fortuna, al caso !
I richiami sono nel pieno del loro concerto verso su verso canto su canto sinfonia seducente d' innamorati ciechi d'amore fuori stagione ! Si propaga quel canto... va per la valle, lontano ! . . . L'odono, l'ascoltano i compagni migranti . . . virano e s'indirizzano, calano e degnano, aleggiano e si posano, trepidanti, confusi, un po' diffidenti perché questo canto, se non è primavera ??
Perché questo colpo diretto da un occhio sadico e bieco verso chi è cieco, per un canto d'amore !?
Ve' !! . . . guarda le luccle, mamina ! Fam fam la sactina de mussola bianca . . . valà? O quant lucciolin t'la cambra voi metta da pid al lettin a fa da lumin !!
Lucciola, lucciola, calla calla !
M'arcord che 'l Profsor quand'ermi in Liceo, parland di bordei in Grecia e di lor giocarei, " Alora ed adess i gioc di bordei en semper l' istess " - diceva – " Kalή, bella bella Kalή, calla calla, corevne de dria ma le luccle cantan e chiamandle l'istess alora ed adess, mettendle de dentra al sactin da pid al lettin a fa da lumin !''
Ch'el foc e chla luc che vien e che va, ch' s'acend e se spegn ch' s'inalsa e s'abassa portat qua e là in t' l'oscurità, adess en è piò misterios !! Se cnoscen tant cos ch 'na volta erne pien de mister mo alora, com erne piò belle com favne piacer !
Un fior, un uclin che cantava 'na lucciola d'or ma'l cor i bastava da pcin, bastava un sactin de luccle da pia del lettin a fa da lumin ! . . .
Adess ch' ne savem tant e gnent chi è piò content? E ditme un po' só, chi è che god piò !?
Uh, questa pioggia lenta che scoppietta sulle piante dell'orto e ne spegne l'arsura ! e questo lacrimare raro e lento che sento scivolare sulla mia guancia e placa questo dolor che brucia ! Han sete di conforto le piante del mio orto ! Più forte piova e che più forte io pianga!
Urbino, 12 marzo 1956
Basta con questa bufera, con questo opprimente candore, vattene, neve, o cambia almeno colore! Sei troppo bianca, silenziosa, insistente, incombente e mi stanchi.
Questa notte, ad un primo risveglio, la Bora, con voce ovattata mi disse che ti aveva portata e, di nuovo, cadevi ! Ne avevi smorzata la voce ululante sibilante, paurosa, ma non la forza; ché ti sollevava, trasportava qua e là in un turbinio violento, ti faceva cadere dove non avresti voluto e tu, leggera, non potevi resistere! Mi sono alzato a vedere! In sostanza sei acqua; ed allora sciogliti presto, scorri ai ruscelli, ai fiumi, va, gettati a mare, fondi il tuo idrore nel colore delle sue acque, confonditi in esso! Poi verrà il Sole! Ti farà risalire in vapore nei Cieli, ma . . . in incontro di Bora, non ti affidarc se non vuoi tornare a cadere, a tormentarci quaggiù, nel tuo tormento.
San Bernardin, com sonen le Campan da la tor dla tu Chiesa e com el son è dolc e chiar e se difond lontan destand t'el cor 'na strana comosion !
Scendne da la Cesana, giò i vilan ed han tla faccia un non so che de bon, caminne e dann de mors t'un pess de pan e chiamne e toccne " Namoré ", " Faicon " !
T 'el prat tutt pichietat de primaver se god un fresc, 'na pac profonda e mesta com godne i mort in t'el tu Cimiter !
La vita che dovria essa 'na festa se confond sa la Mort t'i mi pensier ma se pac dà la Mort, la festa è questa !
El campanil del Dom sa' chel caplin d'la cupola, me par un cuntadin quand a la festa, te mett só chel capel piò pcin d'la so' gran testa e sa cl'orlog t' la pansa !! Snell, 'stil, elegant invec è 'l campanil de San Francesch, ch' par intarsiat sa le cel biforat e sa un cartocc, t' la cima che guardat da distant, te da com un'idea che sia fatt de crocant !
Ho dovut arcercalla la stradina pr' artornà giò ma la Madonna dl' Om, tutta nascosta com la Chiesolina !! En potev artrovalla! . . . quand' ho arvist la siep d'acac ch'era tutta fiorita, a man dritta chel grepp infalascat, verd, de margaritine trapuntat e d' botoncini d'or . . . me so' artrovat ! Me guidava el profum, la luc, un son, un cant lontan come de litania, e so' gitt dritt da la Madonna dl' Om !!
O Chiesolina fatta per pregà com l'atre Chies, mo mei ch' in t' l'atre Chies, ho sentit propri el bsogn d' nitt' a trovà ! En c'er piò nut da pcin, quand per el Mes de Magg, ce 'niv insiem sa la mi' Mama che m'arcontava com 'na storia strana d'un tal ch's'è sprofondat in t' la stradina, per avet ingiuriat, o Madonina !
Madonna dl' Om, o quanta, quanta gent, en te cnosc, en t' vol cnoscia né arcordà !! Ma un giorn vnirà, 'nirà cert el moment che, come me, 'sta gent artornerà comossa, inginocchiata d'vanti a te muta, pentita . . . e tu perdonerè !!
Ed anch'i tornerò, Madonna dl'Om, perché avrò ancora bsogn del tu perdon.
Urbino, 29 maggio 1947
I c' ho 'na Madonina t'na nicchia, per le scal, tutta bianca, carina, sa un sguard sentimental ! . . . I' ho fatt 'na volta azzurra, i' ho mess 'na lampadina e un fior in t'el bocal ce mett ogni matina . . . So' anch'io sentimental !? Quant volt me so fermat a guardai, a pensà, a dimandai qualcosa, d'acsé, sensa fiatà !!
Anca per la Cesana, quand vagg pr'el mi camin, i pass semper davanti a tante Madonin ! C'è la Madonna Rossa quella di Gasparin, la nicchia d' Garibaldi e chl'atra d' Ca' Marin. De Magg, oh quanti fior i portne chi pastor ! . . . e d' intorna i bordei ce fan i giocarei . . . c'ardunne un po' de sass ed ogni petra è n'anima de quei ch'en già trapass!
O Madonine, avanti tant volt ce so' passat e propri non me sembra d'avev sempre guardat ! . . . Perché d'arvolgia el sguard i' tant volt en m'azard, en v'ho semper portat ogni matina un fior ch'avessa un gran odor !!
Arguard tant volt la Madonnina mia quella ch' stava in t'la nicchia per le scal, e lavorand sa la mi' fantasia, i dmand qualcò, per me piò ch' natural !!
Guasi ogni giorne legg in t'i giornal ch' l' Imacolata Vergine Maria ha fatt 'n'aparision e tanti mal ha guaritt, ma tutt quei ch' han fed t'un Lia ! I' digg: " Madonna, fam veda ch' ce se', famla sta grazia, falla anca ma me !! "
Par ch' me sorida, la Madonna mia sa 'n soris luminat de gran bontà, com vlessa dì : " Csa pretendi, fiol mia, quel che tu dmandi el credi d'merità !?"
El capisc, o Madonna, t'è ragion ! Anca mi Mamma me diceva acsé " Te farò un bel regal se saré bon ! I' arispondev: "O Mamma com s'pol fa a v'essa bon com propri me vo' te !?" e Lia: "Vien adoprand la volontà, m'arispondeva sa l'istess soris guasi com la Madonna . . . e po' vedré che bel regal tu, da tu Mamma avré !"
D'acsé parland m' acaressava el vis !!
NEL CONVENTO DI SANTA CATERINA
Me fermò la fatora, e: " Sor Dotor, c'è 'na monica a Santa Caterina che sta mal da un peztin ! . . . Un brutt lavor ! per piacer, vol vni a facc 'na scapatina ?!"
"Andam, andam ! " Quand sem in tel porton lia tirò pian pianin el campanell ! Cla gran pac fu turbata da chel son ! . . . Sentii, più tardi, un pass leger e snell
che s'accostava . . . silenziosament s'aprì la porta ed una monachella aparv sa 'n campanlin: ed umilment me dissi " Avanti ! ". . . Andai de dietra a quella
pr' un coridor lung lung . . . e scampanlava ! T'el cor dla Chiesa alzavne un cant gentil l'altre sorelle insiem: e quella andava ! Fora., splendeva el tepid sol d'April !!
T ' un cameron, copert da un baldachin, un lettin bianc, e dentra 'na sorella più bianca di' lensol de chel lettin !! " Dotor, me disser, la malata è quella !"
Te guardai con pietà: la febre ardeva eri 'na fiamma accesa ma'l Signor! Una luc viva in t' i occh te risplendeva: el splendor dla tu fed ! Dicesti: "Mor ! "
" En s'affatichi, en pensi" , " m' hann chiarnat (e sa 'n dit festi un segn sò vers el Cel). È volontà divina ed è pecat opors a questa ". . . ed abbassasti el vel !!
Da la Chiesa, la voc d'le tu sorelle s'alzava dolce e comoveva el cor ! Cantavan tutte le lor preghier più belle pr' acompagnat, sa quelle, dal Signor!
Oh monachella bianca ! Te passasti calma, serena e tutta speranzosa ! E prima de spirà me riguardasti sa la luc di tu' occhi luminosa:
po' lentament el sguard al ciel levasti !! . . . Presi dal comodin alor 'na rosa, t' la posai sopra el lett. Te te voltasti: un soris ! . . . e po' fredda e silenziosa !!
Mi chieser: " morirà, sta per morire ?" Non so, rispondo, e leggo su quei visi un'espressione di compatimento !! Io sento dir, io sento (e nessun apre bocca) " Misera scienza e sciocca (fors' io lo penso?) che sua vita salvar non sol non puoi ma nemmeno sua morte veder sai !!"
E per questo mi dolgo ? Amici miei, no, non per questo sol, ma pel dolore di Lei, sorella in Dio, ma pel dolor degli altri in Dio Fratelli !! Com'era bella moribonda e morta ! O quanto belli, quanto erano tutti quelli a Lei d'intorno, nel dolore e nel pianto !!
È sera ! Scrivo la mia preghiera: Mio Dio, mio Dio, che non ci renda belli che fratelli non ci faccia sentir, io te ne prego e con tutto il mio cuor, solo e sempre il Dolor !
Urbino, notte del 12 maggio 1953
Albicant sublunaria extructa sepulchra inter nigras cupressos . . . Ululo angit et maeret, vox amota videtur animae heu dolentis, inconsolabilis !
Noli strepere unquam nottua maligna!! silete rame pravae atque perversae et grilli insane canentes ! ! Solitudo silentiumque mihi necesse ut, sicut ulula, Heam, propter dolorem meum!!
Sotto la luna, fra i neri cipressi, biancheggiano i sepolcri . . . Singhiozza l'assiolo accorato e par l'eco lontana di un'anima dolorante. inconsolabile!
Non strider più civetta maligna !! tacete rane perverse e grilli con quel cantar frenetico che sa di pania !! Ho bisogno di solitudine e di silenzio a singhiozzar così, come l'assiolo !
Tradizione verbale nell' Urbinate racconti brevi CON CANTILENA
La Pulc e ’l Pdocchj'
'Na pulce, che era la madre premurosa di un pdocchj' giovincell e poch giudisios, dev gì al mercat e lascia tel foc la pignatta sa'l brod, per artrovall pront da colè dop la spesa. Prima de scappè saluta el fiol, el pdocchj, e i arcmanda de stè lontan da la pignatta e de non pensè manch lontanament de colè el brod. Appena scapata da casa la pulc, el pdocchj', che com tutt’ i pdocchj' era 'n gran testard (propi com dic el proverbi: testard com’el pdocchj'), s’mett a colè’ l brod, ma t'el piò bell casca t'la pignatta e mor. Quand la pulc artorna chiama subitt el fiol, e quasi se l' sentiva a scorra ch’era succes qualco' de brutt: “Pdocch, pdocchin mia”, ma lo en rispond. Disprata el cerca per tutt casa:"Pdocch, pdocchin". Alla fin sa’n brutt presentiment guarda dentra la pignatta e scopre el fiol gonfi com 'na palla ch' galleggiava t'el brod. Subito se mett a piagn e urlè com’na disprata: "Pdocch, pdocchin mia, t' l'avev det da stè lontan dal brod. Pora me com farò adess a campè !". Se scarpisc i capei e se straccia i vestitt. El banchett commoss de tutt cla disperasion, en sapend cosa fè, se mett’a ballè. La morletta dla porta stopacitta dal schiamass, dmanda mal banchett: “Se' dventat matt, 'sa ch' è tutt' ste fracass ?”. El banchett rispond:
“Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj', la pulcia la piagn e i' per casa ball."
La morletta sa i lagrimon m'ai occhj tirand un suspiron i rispond: “E io struss”. E se mett a strussè (girè) com 'na matta. Un brocci' che era malè t'el mezz dl' ara vedend sta morletta i dmanda: “Com' è strussi a cla via; fè 'n stridor ch' m'arcidi le carn ?”. La morletta i rispond:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla e i' ch'so' 'na morletta … struss".
El brocci' i rispond “I' 'sa poss fè ? me mett a scapè” e se mett t' na fuga com' 'n' indiavlat facend un gran stromblaticc' e alsand' un gran pulveron. El brocci' dacsè corrend passa sotta la cerqua bella. Lia arman de pissich a veda el brocci', de solitt zag-zag , a corra da ch'la via e i' dic: "Oh brocci' t'ha pres un ragg da matt ! Calmte 'n po', vien machè sotta l'ombra, dim ch' sa t' è sucess." El brocci' sensa fermass i gira intorne e i rispond:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa e i', ch'so' el brocci', corr"
E po' corr via com'era 'nutt. La cerqua bella presa da la disperasion dic: "E io me spoij". Incmincia a smenass tutta e, piena com' era, fa un gran spolveraticc d'foij e d'ghianda. Un por ucc'lin ch' ariva pr' arposass smett a strillè com' un ossess: "En c'è piò religion: sensa 'n fil d' vent te se sbatt tutt i brancon; dai só, datt' una calmata, s'no tra 'n po' manch 'na foja avrè 'tacata !" La cerqua, che bella piò en era, singhiossand i arconta la disgrasia, cascata tra cap e coll ma la pora pulc:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr com un matt, e i', ch' so la cerquella, me sfoij"
L' ucc'lin intona un gran stridori e dic: "Cip, cip, io me spenn, ciricicì; io me spenn, cicì cicì". E giò, svolacchiand e argultilandse per terra, sal becucci' se scarpiva le penn dal pett. 'Na fontana, ch'era malè petta, en credeva m'ai su' occhj: "Com' è, oh mi' ucc'lin, tutta sta pena ? Vien a bagnè 'l becch e famm 'na cantatina." L'ucc'lin continuand a strida e scarpiss le penn i dic: "Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr la cerqua se spoija e i', ch' so' l'ucc'lin, me spenn"
La font, che non poteva piagna dat ch' le fontan piagnen de natura, per dimostrè tutt el su' dolor, dic: "E io me secch". Dacsè tutt' a 'n chiopp el gett en butta piò e l'acqua s'artira. Riva t'un chel moment 'na fiola, che la madre aveva mandat a chiappè l'acqua m'alla font. Quand ved ch' en c'era pió 'na stilla d'acqua, dmanda : "Oh fontana, fontanella, dov' è la tua acqua fresca e bella". La fontana, sa la voc scialata, com chi a piant fina l'ultima stilla, rispond:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr la cerqua se spoija l' ucc'lin se spenna e i', ch'so' la font, me secch"
Presa da 'n gran dolor la pora fiola, romp' in t'un moment l'orci' e l'orciola. Quand'artorna a casa la madre i dmanda: "E l'acqua?". Schioppa el magon ma la su' fiola e tra 'na massa d'sangusson liberatór, vota dalla pena el su' cor:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr la cerqua se spoija l' ucc'lin se spenna la font se secca e i', ch' so' la fiola, ho rott l'orci' e l'orciola."
La madre, singhiossand piò dla fiola, chiappa le forbicc' e taja tutt la tela, ormai fnitta da ordì in t'el tlar. El maritt 'riva d' corsa da d' la, da la cucina, du' fava da magnè e dmanda tutt stralunat el motiv de chel rapascet. La madre rispond:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr la cerqua se spoija l' ucc'lin se spenna la font se secca la fiola ha rott l'orci' e l'orciola. e i', ch' so' su' madre, taij la tela."
El maritt sa i occhj for dla testa corr tla cucina, alsa el coperchi e a galla t'el brod bell' e gonfi ved el pdocchj'. Alora tutt spirtat urla:
"Sta sitt, sta sitt; è success di brutt guai: è mort el pdocchj' la pulcia la piagne, el banchett t'un casa balla la morletta strussa el brocci' corr la cerqua se spoija l' ucc'lin se spenna la font se secca la fiola ha rott l'orci' e l'orciola. la madre, taija la tela e i', ch' sò el coch, butt la testa t'el foch."
(Così si chiude il ciclo: probabilmente responsabile della morte del povero pidocchio era stata la testa del cuoco, la quale viene infine punita e disinfestata con il fuoco)
di Michele Gianotti
Un forasacch, un de chi sorciulin pcini pcini, forsa da rosicchiè era riuscit a 'larghè el scior intorna la rugiola per entrà dentra la bott piena de lard. Mentre magna a crepa pansa tutt chel ben de dio, de chiopp 'riva la padrona salla luma che de prescia giva vers la bott a prenda un pess de lard per fè 'l sciugh. El sorciulin, per scapè de fuga dal bughinin, se scortica tutt la testa. Salla testulina splata e 'l sangue ch' en i stagnava pensa da gì dal sart e i chied: «Sart, o mi' brav sart me daresti 'na pessolina ch' ci ho da fasciè la mi testolina ?» El sart, che in vita sua en aveva mai fatt gnent per gnent, i rispond: «Se mi dai il pelo» El sorc scappa d'corsa e t'la strada incontra ma 'n can e i chied: «Can o brav el mi can, me de un ciuff del tu' pel ?» «Sent machè - rispond el can - perché duvria dè 'l mi' pel ma 'l prim ch'ariva ?»
«Can', car el mi' can, se te me dè 'l pel, el pel el dò ma 'l sart, el sart me dà la pessolina dacsè me fasc la testolina»
El can a veda ma chel sorciulin salla testa insanguinata se commov, ma propi per non passè da cojon del tutt e dat ch' c'aveva sempre 'na fam ch' en vdeva lum, i rispond: «Se me dè el pan.» El sorciulin giò de corsa va dal fornar e sempre piò insuppat de sangue i chied: «Fornar, o brav fornar, me dè 'n filon de pan ?» El fornar i rispond: «Sa ne farà mai un forasacch com te de tutt chel pan ?» El sorc sa 'n fil de voc atacca:
«Fornar, o brav fornar, se te me dè 'l pan, el pan el dò ma 'l can, el can me dà 'l pel, el pel el dò ma 'l sart, el sart me dà la pessulina dacsè me fasc la testulina.»
El fornar, per en dij de no, i rispond: «S'me dè la legna.» El sorc' giò de corsa va dal bosch e sa la voc de un ch' tien l'anima sa i dent i chied: «Bosch, o bell bosch, me dè la legna ?» El bosch i rispond: «Sa ne farà mai dla legna un sorc malamdat come te !» El sorciulin singhiossand sa i lagrimon ti occhj i s'arcmanda:
«Bosch, o bell bosch, damm' un po' d' legna, la legna la dò ma'l fornar, el fornar me dà 'l pan, el pan el dò ma 'l can, el can me dà 'l pel, el pel el dò al sart, el sart me dà la pessulina per fasciam la testulina.»
El bosch, ch'en aveva voja dle zirle chè l' asciutta el portava pr'aria, i dic: «Se me porti l'acqua.» El sorc 'riva a strascinon fin' al fium e, com un ch' tira gli ultim ansc, dic: «Fium, o mi gran fium, me de la tu' acqua ?» El fium ridend tra i sass: «L'acqua? qui c'n'è quant ne vo'. Ma se ne farà mai un sorciulin malandat come te de tutta st'acqua?» El sorc i dic:
«Fium, el mi' gran fium, damm la tu' acqua, l'acqua la dò ma 'l bosch, el bosch me dà la legna, la legna la dò ma 'l fornar, el fornar me dà 'l pan, el pan el dò ma 'l can, el can me dà 'l pel, el pel el dò ma 'l sart, el sart me dà la pessulina per fasciam la testulina.»
El fium se gonfia tutt e dic: «Ecc l'acqua è tutta tua.» El sorc: «Com facc' a chiapalla.» El fium: «Vien piò in qua.» El sorc': «Poretta me, en c'arriv, en so notà.» El fium: «Dai, vieni piò in qua ». El sorc' fa 'n antre pass, ma brutt e gitt com'era sguilla e casca ti gorg. E stridend a piò non poss "ziiiioooo, ziioo, zio, zi …" el fium el porta via.
Moral: en rubè e, se te trovi ti guai, en sperè tropp t' l'aiut de chiatre.
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