XVII° Concorso
2018 |
Tutti gli autori dialettali |
In lingua: Biografia Via del Popolo Fine di un inverno Quattroventi Emigranti Oltre il fiume Il bosco Oasi della Badia La festa del patrono Giorno dei defunti Natale Pasqua Il carnevale In vernacolo: La scola Tornaven a sonè la fin dla nevicata La brinata Dop el vent Fortunat chi pó arturnè T'i poneriggde sol dl'estat Ecch ch'artorna rapid un ricord Urbin, Urbino mia
AnnA RITA AMBROGIANI
LUCA BUSIGNANI
INES QUIETI
GIOVANNI VOLPONI
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BIOGRAFIA:
Giancarlo Cecchini è nato in Urbino dove ha compiuto gli studi classici presso il Liceo Raffaello. Sempre in Urbino ha frequentato l’Università laureandosi in Lettere Moderne ed in Giurisprudenza. Ha svolto attività amministrativa presso l’Azienda sanitaria urbinate. Ha pubblicato, con la casa editrice Quattroventi di Urbino, tre raccolte di poesie:
L’esordio è avvenuto con la silloge Giardino d’inverno, con presentazione di Gualtiero De Santi, che vi segnalava la presenza di “una sorta di impressionismo raccontante e sonoro, introspettivo e pur anche minuzioso nei riferimenti alle circostanze ed ai luoghi, che fa tesoro della tradizione a cavaliere tra Otto e Novecento”. La seconda pubblicazione, la raccolta Arcani, è una rivisitazione dei tarocchi definiti “pungenti” da Maria Lenti nel n. 42 /2004 della rivista Punto di Vista, e che, sempre secondo la Lenti: “Non sono poi tanto carte da gioco, ma carte giocate per ammonire ed esortare dentro il costume contemporaneo…”. Arcani che “diventano e sono anche l’infanzia che torna alla memoria, il mondo che non si snoda (ma si vorrebbe) sul proprio desiderio…”, “la storia con le sue anomalie…”. Di questa seconda opera Enzo Concardi, nel Dizionario Autori italiani contemporanei, edito dalla Casa Editrice Miano di Milano nel 2006, segnala la presenza di una forte “critica verso i nuovi persuasori occulti della civiltà tecnologica…” ed “un verseggiare rimato e dalla fonetica rimbalzante…” attraverso il quale “il poeta canta e narra le sue storie come un antico trovadore smaliziato da secoli di illusioni e delusioni.” Canti gioiosi è la terza raccolta di poesie ed è composta da cinque sezioni (Richiami, Canti gioiosi, Calendario, Volario, Isola), con in coda una breve raccolta di Poesie sparse. Una quarta silloge è intitolata Effetti Personali ed è uscita in successive tappe presso alcune antologie letterarie.
Qui di seguito viene prima riportato un gruppo di poesie in lingua e, più avanti, un secondo in vernacolo urbinate, scelte e fornite dall'autore.
Via del Popolo di Giancarlo Cecchini - Urbino
Come un sol giorno l' estate trascorreva lungo la strada sterrata e polverosa. Appena svegli, al sorger del mattino, fuori uscivamo di corsa a ricercare gli stessi amici che già la sera prima fra risa e strilli nei giochi più svariati rincorrevamo allegri e spensierati. E con le biglie di terracotta rossa ci sfidavamo al gioco del pancotto. La palla sgonfia che a stento rimbalzava lasciava il segno battendo sulle gambe.
Venne l' asfalto ed i lampioni nuovi con i ligustri in ordine piantati, andava perso così dei nostri giorni pian piano il gusto della libertà. L' età cresceva e già qualcuno andava verso la vita, lontano dalla strada. Nella pineta, al fondo della via, coppie abbracciate dietro le ginestre, le mani strette sulle bianche cosce, vivevano, immutabile e struggente, strano il mistero che ci sconvolgeva.
Fine d' un inverno (Oasi della Badia) di Giancarlo Cecchini - Urbino
Lingue di neve restano scolpite sfruttando l' ombra delle siepi sparse sulla collina sopra le marcite, dove le pavoncelle in brevi corse
contendono ai gabbiani le appetite pasture. Fra bianche nubi scarse appare il sol col suo tepore mite a risvegliar del mondo le risorse.
Stan degli storni le coppie già formate, segno per me della vicina estate, quando riascolteremo il verzellino
e l' upupa allieterà le mie giornate con l' ondular dell' ali sue svogliate, come farfalla nel vento mattutino.
Quattroventi di Giancarlo Cecchini - Urbino
Ecco stasera, anche se son lontano, (ma, stranamente, chissà perché son certo), sento la neve nella mia Urbino. Ricordo quando a lungo me ne stavo ad osservare il manto che cresceva sotto la luce fioca del lampione.
Nevica forte, è un giorno di febbraio poco lontano dalla Candelora. Resta nascosto il passero sul tetto, occupa il nido che fu del balestruccio. La tira a vento e non smette ancora, resta sospesa un attimo e poi... scende a coprire le tettoie scure, fatte di coppi coperti di lichene. Forse nei vicoli nascosto è gia il selciato... nelle scalette a stento s' indovina, ai lati estremi, il rosso del mattone.
Forte sul viso l' aria mi batteva. Un soffio freddo, dal Monte di Pallotta ai Quattroventi, la valle risaliva ed il respiro quasi mi toglieva, tanto che, a volte, la schiena rivolgevo al forte vento e, col cuore in gola, prendevo fiato, per poi ricominciare, lento, il cammino verso l' Ospedale.
Rivedo il borgo con le sue salite, e, degli amici, le orme indefinite. Le scivolate fatte per Valbona, ad inseguirci, allegri, verso sera, a far bravate, sì, per attirare delle ragazze lo sguardo, dritto al cuore. Ma fra gli amici ora, nel ricordo, ne vedo alcuni, in mezzo al gruppo allegro, stare in silenzio, con lo sguardo strano. Come un saluto muovono la mano e se ne vanno su, verso la piazza, e sulla neve s' appoggian così piano... che ormai le orme non si vedon più.
Emigranti di Giancarlo Cecchini - Urbino
Partivano gli amici, salutati la sera prima, nelle buie mattine d' inverno. Scivolavano lungo la via, ai lati rapide occhiate senza mai voltarsi. Logora la valigia issata sulla spalla, con l' ombrello legato di fianco.
Forte, nel cuore, un contrasto di dolore e speranza. Forte la rabbia di dover andare. Un sorriso incerto nascondeva la paura di non tornare, come altri che erano andati in altre mattine nebbiose: la corriera blu che vibrava sul selciato, verso la ferrovia. Sul treno l' ultimo brivido di sudore, storditi già nel ricordare le pacche sulle spalle e le parole di chi era restato.
Oltre il fiume di Giancarlo Cecchini - Urbino
Radente il vento increspa il Candigliano, ed i cavedani affiorano nell' acqua: lenti si muovono incontro alla corrente, scartano ai lati e accorrono curiosi, ad inseguir le ombre verso il fondo. Sopra uno scoglio pieno di mosconi due trote morte, le carni lacerate. Dall' altro lato appare la ghiandaia dal volo breve, e subito scompare fra i bruni lecci e le carpinelle. Più in alto i faggi dai grigi tronchi dritti che nelle notti di luna sembran schiere di chiari spettri che ondeggiano lontani.
Lontani ondeggiano al vento del mattino. Ancora un poco rimango in riva al fiume, poi passo oltre, incontro a quelle schiere, finché m' accorgo d' avere superato come una soglia dai contorni incerti. Mi sento parte di un mondo sempre uguale. Son nell' eterno, nel suo lento cambiare, che non s' avverte se non dopo che è stato. Spesso percorro questo tragitto vago, e so che un giorno non dovrò tornare, lungo il sentiero che a valle mi riporta, nel resto dei miei giorni avvelenati.
Il bosco di Giancarlo Cecchini - Urbino
Aspetto ancora, altro non so fare, aspetto perché voglio ritornare a Pian del Bosco, nella Mercareccia, dove, coperte dalle foglie secche, sotto i tronchi di faggio sul sentiero, le trombette da morto, nell' autunno, crescon velate dall' umida rugiada.
Ricordi, andammo verso il Cardamagna, da Serravalle si arriva a ca' Rossara e sulla strada, in fondo, la sorgente dove, sudati, ci rifocillammo. Poi quella volta dalla Palirosa salimmo cauti sul piccolo sentiero. Forte l' odore della santoreggia ci accompagnava in cima al Campovecchio. E quanti altri difficili sentieri, sulle montagne di Piobbico ed Apecchio. E quante volte la mano ha ritrovato, sui tronchi avvolti di muschi e di licheni, l' eterna vibrazione della vita.
Oasi della Badia di Giancarlo Cecchini - Urbino
Vedo colline che spuntano dal lago di bianca nebbia che copre la vallata. Rosso tra nubi stasera è l' orizzonte lungo la strada da Urbino a Montefabbri.
Sembrano isole sopra un mare fermo quelle colline che sempre ho ritrovato quando cercavo, immerso nella quiete, il senso perso delle mie giornate. E questa strada segnata ha la mia vita in tanti giorni di lunghe passeggiate.
Socchiusi gli occhi a ritrovar me stesso, lesto scendevo verso la Badia e mentre, attento, spiavo degli aironi le lente mosse nell' acqua del canneto, la gallinella la testa dondolava avanti e indietro, nuotando nel pantano.
E piano piano sentivo dal silenzio, pieno, nel sottofondo, di canti e di richiami, rigenerarsi lo scopo della vita. A ricercare, spavaldo, il mio futuro, così ero pronto. Di nuovo, al viver quotidiano tornar potevo con maggior fiducia.
Ora di rado torno alla Badia, ora di rado alzo gli occhi al cielo, a ricercare un volo familiare che nel sereno muti il mio grigiore.
La festa del patrono di Giancarlo Cecchini - Urbino
Il primo giugno santo Crescentino, grande la festa per le vie d’Urbino. I palloncini venduti nella piazza, legati tutti insieme ad una pietra, e li agitava appena verso il cielo l’aria che da Lavagine saliva. La bancarelle coi variopinti giochi, e si sentiva l’odore di croccante.
Per tradizione quasi si sapeva che la giornata, appena un po’ piovosa, di colpo si sarebbe rischiarata nel pomeriggio quando all’insistente rintocco ripetuto di campana, il santo all’improvviso s’affacciava, fuori dal duomo a spalla trasportato, verso la cima della scalinata.
Alle finestre arazzi colorati, e dai canestri i petali di rosa lanciati a pioggia sulla processione. Ci si muoveva coi canti e le preghiere, gli stemmi e i preti in fila con la banda, quindi del santo la statua era spostata in alto e in basso ed a sinistra e a destra, come un enorme segno della croce.
Il giorno dei defunti di Giancarlo Cecchini - Urbino
Sulle ceppaie sotto le robinie, cespi di famigliole color zolfo, sul greppo che delimita la strada, in mostra stanno fra il verde del fogliame. Così anche allora, ai primi di novembre fiocchi di nebbia salivano la valle, e il sole tenue sfiorava i ciclamini sotto le piante verso le Cesane. A piedi con mia madre, come un rito noi fratelli più piccoli s’andava il giorno dei defunti al cimitero. Nel primo pomeriggio si partiva, e per la strada, davanti alle stazioni della via crucis, la gente si fermava. E le orazioni appena bisbigliate ci accompagnavano nella camminata fino al piazzale davanti al porticato che dava accesso alle care tombe. I crisantemi posati sulla pietra che nascondeva le spoglie di mio padre. Lumini accesi e, piano, una preghiera. Poi al ritorno il freddo era pungente, e giunti a casa, ormai all’imbrunire, il profumo dei ceci abbrustoliti sopra i cerchi di ghisa della stufa.
Natale di Giancarlo Cecchini - Urbino
Alla vigilia del giorno di Natale ricordo dopo cena sedevamo alla tavola intenti a preparare i cappelletti, e un po’ ci sentivamo nella bottega di un abile artigiano. Mia madre, che la sfoglia preparava, e la tagliava a strisce e quindi a quadri, sui quali al centro veniva indi posato un mucchietto d’impasto preparato nel pomeriggio, con carne rosolata di vitello, tacchino e di maiale, con qualche fetta di ottimo prosciutto. Al fine tutto veniva macinato, insaporito in pentola e tritato ancor di nuovo e quindi lavorato con burro, uova e tanto parmigiano, noce moscata e scorza di limone.
E noi bambini disciplinatamente ad uno ad uno da quei bei quadratini ricavavamo tanti cappelletti, che contavamo assieme come in coro. E s’aspettava pazienti mezzanotte, la statuina di coccio del bambino puntuali s’andava insieme a collocare dentro al presepio, sulla mangiatoia. Ed il mattino del giorno di Natale le poesie e i canti d’occasione, poi tutti assieme il pranzo ci riuniva, coi cappelletti in brodo di cappone, dopo la carne e un poco di verdura, col panettone ed anche col torrone, si concludeva allegri la mangiata. Di nuovo insieme con la tombolata o al gioco della “bestia” con le carte, il pomeriggio in casa si passava, per ritrovarsi la sera, dopo cena, a festa ormai finita, come prima.
Pasqua di Giancarlo Cecchini - Urbino
Portavamo le cresce al forno di Bedini con le teglie che dovevi tenerle proprio dritte, se no crescevano solo da una parte, perché l’impasto così si rovinava. Se ne facevano tante per la Pasqua e poi quell’ anno della nevicata che si diceva sembrava più Natale. Le cerimonie al duomo nelle grotte, i giri dispari nel lungo corridoio, come di giovedì per i sepolcri che nelle chiese andavi a visitare. Le uova benedette con le cocce che dopo si bruciavano nel fuoco. E dovevi mangiarle nella notte quelle uova se no la biscia nera ti veniva a trovare giù nel fosso. Il ramoscello d’ulivo stava appeso sopra il mio letto con il crocefisso, e il prete che veniva a benedire tutte le stanze di casa ad una ad una. Le vacanze da scuola il giovedì e il martedì di nuovo si tornava con i compiti ancora da finire.
Il Carnevale di Giancarlo Cecchini - Urbino
Giovedì grasso. Per le gelide strade piccole maschere bussavano alle porte. Variamente storpiata una cantilena si ripeteva: “ciccol ciccol mascherina, se ‘n c’è l’ov c’è la galina, el maial l’avet masat, so p’el mur l’avet ‘tacat, ve voj di’ ‘na birbaria, sensa ciccol en vag via.”¹
La scola di Giancarlo Cecchini - Urbino
Tl’entrata dietra chel porton no’ d’la prima, e acant le nostre madre, sa la cartella robusta de carton. Dentra, i quaderne a scacch’ e la matita e tl’astucc, tutti ben in ordin, dodiç’ color che ancora sann de legn. In frett’e furia l’apel fan i maestre e ognun sa la su’ class va per le scal e lung el corridor po’ dentra l’aula. Qualc burdell ced a l’emosion, se lascia andé a un piant sconsolat. Chialtre, sa ‘n sorìs intimorit, stan orgogliosi d’en avé cedut. E tl’aula de c’la scola elementar, dodiç’ banch’ tutti messi in fila, noialtre a seda, vestiti sal grembiul, e po’ sal fiocc azur tel coletin. El maestre de front sa la lavagna, e tla paret de fianc c’ènn le finestre. De fora el sol in cima a la colina illumina la fila d’i cipress. Po’ tutt’intorne i prat tinti de verd, dacsé lontani al sguard de no’ burdei. Piò in giò i camp lavrati in ordin, e dietra, sott’ el ciel, se vedne i pin, e qua e là c’é qualca cerqua grossa. Ma all’uscita en l’ho mai artrovat chel paesagg dal sol iluminat. E quante volt com tun c’la scola s’avert apena che sopragiung un giorne o all’improvis un fatt che lascia el segn. Da chel moment te senti la tu’ vita ch’en ce riesç a essa come prima.
Urbin, Urbino mia di Giancarlo Cecchini - Urbino
Urbin, Urbino mia, sapessi quanti piant quand so gitt via sa la valigia bigia de carton sal spag legata com’un cuntadin. Sa la corriera blu de Luminati che trabalava tutta vers le Conc’. El viagg, che me portò dacsé lontan, era incminciat apena, e subbit un magon m’ha pres de dentra e fin ma la stasion dentra m’ha acompagnat, e da cla volta è sempre continuat e tutti sti ann sempre, in fond in fond, en m’ha lasciat com’ el ritornel d’una vecchia canson che te frulla tla testa tutt’el giorne. E adess che so artornat t’artrov come cla volta, ansi te se arcordata d’una fontana tla piassa principal, cosé se arnuta che sembri, adiritura quella del nonn e quest me fa piacer perché le gioie come sti palass en s’possen piò guasté e han d’armana per sempre ugual, ugual al temp de prima.
Tornaven a soné di Giancarlo Cecchini - Urbino
Tornaven a soné quand’era sera sa un ritme squilant, le campan dle chiesett erbos de campagna, a indiché ma no l’ave Maria, mai pelegrin l’ ora de fermass. Sa chi rintocch’, a l’ora d’archiamacc’, le nostre madre arnivne ma le soglie o ma le solit fnestre, ad afaciass. Prima de nott, la casa c’aspetava e ‘n altre mond de fora armaneva, per no dacsé divers e sconosciut.
La fin d'la nevicata di Giancarlo Cecchini - Urbino
Arivò la fin d’la nevicata, pian pian la vita arniva come prima: de nov a scola, de nov fora t’la strada, sensa chel bianc che tutt ce nascondeva. Cosé ‘l disag arniva ‘n altra volta, sal stupor infantil che se spegneva, e non serviva a nient’ torné, la sera, ma la finestra, el sguard volt a l’insò.
La brinata di Giancarlo Cecchini - Urbino
Resist la brinata do’ el sol piò tardi ariva a riscaldé la terra. Dacsé le ragnatel imprigionate anca lor e com irrigidit, se spacchen se un po’ la tramontana sbatt i ramett che luccichen t’la pianta.
Dop el vent di Giancarlo Cecchini - Urbino
Per terra c’è ‘na mucchia d’ram dop che de nott’ el vent sa la tempesta ha scoss i platan e ‘i ippocastan, e sotta i tigli ancora piò ce n’era, ma en c’è piò tel vial la mantella de lana nera sa la nera vest d’la vecchia curva ch’i ardunava
e le
fascin faceva per la stuffa.
Fortunat chi po artornè di Giancarlo Cecchini - Urbino
Fortunat chi po artorné a calpesté i stradinin d’l infansia, fra i viottol dla pineta e i cespuj de ginestra, che nascondevne dai sguard curiosi che spiavne ‘i amor de l’innocensa fatti de bac’ e de soris’. Fort sentivi che bateva chel cor dacsé vicin; el tua quasi scopiava. De scola i compit e po’ de corsa ad abraciass felici de chel nient, e nient de piò chel giorne se cercava. E po cl’amor radiosi ce rendeva tant che al’aparensa se vedeva.
T’i pomerigg de sol dl’estat di Giancarlo Cecchini - Urbino
T’i pomerigg de sol dl’estat d’ nascost sa i nostre amic no’ corevam a fe’ tutti el bagn ma la Borzaga. Tun cl’ansa che spess se diceva che un al’ann, ed era ver, el portava dritt mal cimiter. Era la gorga dacsè la chiamavam, per ch’i piò pcin in alt la gorghetta che ce sembrava men pericolosa. Ce sporcavam de terra i ginocch’, quand al ritorne scatava l’ispesion, per non sembré ai occh’ de chi piò grand puliti tropp’, cosa che en era mai. ma quante volt, scoperti, finivam rinchiusi dentra casa i pomerigg fin alle quattre quand’era ormai tropp tardi, e chi altre arnivne so dal fium. Quanti de no, arpresi per un pel da la corent che in bass ce trascinava, e po’ qualcun in so en è piò tornat. E anch’ adess i’ prov un’aversion d’ armana dentra casa el pomerigg, com’ se sentissa intatt ancora el pes de cla benedetta privasion.
Ecch’ ch’ artorna rapid un ricord di Giancarlo Cecchini - Urbino
Ecch’ ch’ artorna rapid un ricord com’ el ramarr che fugg velocement che vedi apena sparì dentra la siep, tun ch’el moment c’è sol ‘na gran paura per el fruscé veloc’ del falasc. Diec de dicembre, Madonna de Loret, un lampioncin de carta sal lumin, che s’acendeva per la procesion fra le navat del dom, se c’era pioggia. Sopra la panca mi madre era al mi fianc e intonava i cant d’la religion, e la su voc ancora me rincora.
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