IL POPOLO DI ROMA — 9 Luglio 1936-XTV Pag. 6
Profili di poeti dialettali al Raduno di Ancona
BRUNO BETTI
Il prossimo Raduno dei poeti marchigiani dialettali che si svolgerà nei giorni 17 e 18 luglio in Ancona rivelerà senza dubbio dei valori che ancora sono nascosti o conosciuti solo in una limitata cerchia di pubblico. Sarà interessantissimo ascoltare dalla viva voce di questi umili vati come possa prender luce d'arte anche il vocabolo popolare quando esso è al servizio di un'anima e d'un intelletto.
Anche se il linguaggio non sarà estensibile a tutti ma rimarrà circoscritto nella regione, pure egualmente porterà un contribuito, sia anche modesto, alla madre lingua. Poiché questa strana gente del popolo ha una sua speciale filosofia che si esplica attraverso elementi completi per formare intorno a sè quella base etica che mira al concetto universale, raggiunge talvolta un equilibrio di pensiero tale ed una elevatezza morale così significativa che certe leggi estetiche finiscono con l'assumere una funzione ben definita anche rispetto alla letteratura ufficiale.
Eliminiamo senz'altro quei poeti dialettali che fossilizzano entro forme troppo scaltrite quella parlata che invece diventa mezzo vivo e comunicativo quando la interpretazione non ha come presupposto il semplice motivo di congegnara corone di vocaboli più o meno scorrevoli sotto la lingua raffinata di buongustai imborghesiti.
Il nostro caso è interessante perchè risponde a quei requisiti che sono condizione di una sana poesia dialettale. Il poeta è Bruno Betti di Urbino, forse uno dei pochissimi che veramente siano entrati nel vero clima popolare. Il dialetto assurge a forma nobilissima di espressione poiché il Nostro è nato e vissuto tra il popolo in continua comunione di linguaggio e di spirito. Per questo il vocabolo fluisce immediato e trova giusta coesione in una forma che non esaurisce mai le risorse e non si isola in compiacenze scaltre.
Il pretesto delle poesie dialettali di Betti è sempre strano, sembra quasi causale. Eppure entrando nell'argomento ci si accorge che il semplice fatterello di cronaca va impostandosi sopra una logica, e non soltanto, ma cerca di consolidarsi in una morale non mai inutile e da cui il popolo possa trarre una ragione salutare.
In questo modo saltano fuori verità sacrosante che non è lecito sciorinare se non v'è l'ausilio dell'arte che sappia togliere il crudo offensivo.
A volte il poeta vuol scoprire le marachelle di altri Tizi e per non presentarli con le mani nel sacco se li educa ben bene e li prepara alla ramanzina. Li imbonisce con malizia prima e poi di colpo te li mette con le spalle al muro e li colpisce senza lasciar cattiverie.
Dunque qui la poesia dialettale nel suo tono ridanciano e tragicomico diviene efficace e salutare come uno scudiscio. Ed allora ad un certo momento il poeta diventa temibile. Non è più socievole perchè gli si attribuisce una certa qualità equivoca che smaschera e impone, per un certo senso, delle cautele e limita la libertà d'azione.
Il ridanciano fa benissimo da compare alla verità la quale, volere o non volere, scotta a tutti.
Anche Betti s'è isolato e forse così può osservar meglio il corso delle cose. Sornione sornione, un po' incantato, lancia i suoi frizzi, ai quali però attende la punta perchè non divengano troppo offensivi. Quando cioè il bersaglio è troppo visibile e la situazione può incrudirsi ecco pronta l'arguzia bonaria a smussa gli spigoli ed a far pace con tutto e con tutti. E poi in questa poesia dì Betti v'è un fondo appena appena percepibile che vela tutto d'una strana malinconia. Qualcosa che affiora di tanto in tanto e pare attenda ali per poter vibrare. E' una specie di malcontento che non sa trovare un reagente per poter divenire ragione prima di poesia. Ma forse questo è nel fondo dell'animo d'ogni poeta; forse è il motivo stesso che genera lo stato di grazia dove è posto il nido della bontà. Una bontà senza miele ma sana e scottante e benedetta come pane appena sfornato.
Cosi è caro Betti, questo pane casalingo e non tutti i denti sono in grado di masticarlo.
ERVARDO FIORAVANTI
il Resto del Carlino
CRONACA DI URBINO
(Anno compreso 1957-60)
DA TRENT'ANNI BRUNO BETTI IRONIZZA SUI FATTI CITTADINI
BONARIA POLEMICA
in rime dialettali
Critiche senza cattiveria che avvicinano al cuore
di una terra di cui il poeta interpreta i più intimi fremiti
Non è facile ai nostri giorni saper cogliere gli aspetti più veri e genuini della propria città. Ci ha provato e, dobbiamo dire, ci è riuscito Bruno Betti, figura gioviale e simpatica, cara ad ogni buon urbinate; soprattutto a chi ha superato... la mezza età. Infatti il nostro ha iniziato la propria attività di poeta dialettale oltre trent'anni fa. In questo periodo di tempo egli ha sempre cercato di portare alla luce i problemi che via via travagliavano la nostra città. A nessuno ha mai risparmiato critiche; tuttavia non c'è cattiveria nei suoi rimbrotti e quando la poesia sembra incrudire ecco che il Betti se ne esce con un motto semplice ed arguto riportando il tutto ad una atmosfera più bonaria.
Il linguaggio anche se non è comprensibile a tutti, è tale però da avvicinarsi al cuore semplice e modesto della nostra terra di cui il poeta conosce le intime aspirazioni. Passiamo ora in rassegna i versi più conosciuti del Betti alla luce di quello che è stato per gli urbinati un sogno, nell'arco di diverse generazioni: possedere un acquedotto degno della nostra città. Tutte le amministrazioni ne sbandieravano la realizzazione ma per una ragione o per l'altra i lavori di costruzione non vedevano mai l'inizio. Già nel 1925 l'allora sindaco Fonti annunciava con orgoglio alla cittadinanza che l'acquedotto è ormai in via di compimento. Betti scriveva:
Un sussur per la città
Perchè d'set più 'n s'morirà
Manifest per i canton
Per la inaugurassion.
Sul mal Mont c'era 'na fila
De person, più de centomila
Poiché a detta dei manifesti sembrava che quest'acqua dovesse allagare Urbino, i falegnami avevano costruito delle barchette:
Tutt i nostre falegnèm
Impieghèt hann el legnèm,
Per le barch e le barchett,
Chi più larg e chi più strett,
Per paura, sti minchion
Gnente d'men, dl' innondassion.
Pietre, el sinich, tra un baccheti
E un gran scrosc de battimèn
Monta su sopra 'n banchett
E ce fa st'bell discorseti:
- Onovati cittadini!
Il lavovo oggi è compiuto!
Mille litvi in un minuto!... -
Tutti artneven el respir
E mal tub cmincne a guardè
Com se'l vlesser gì a succhiè.
Ecch! Mio Dio! l'hann stappèt!
Morirem tutti affoghèt!
Gent... appena el tapp è fora,
'Niva un ragg d'un litre all'ora! ».
Betti conclude amaramente:
Guardèt cum me so' ardott
Per l'affar de st'acquedott:
Benché 'n ciò un guadrin,
a cricca, beva 'l vin !»
Comunque l'acquedotto resta sempre al vertice dei suoi sogni:
« E' giunta l'ora
Ch'st' acqua ch'c'manca, venga fora!
Perché Urbin, è chiar e tond
Ch' sarà un giorne, meta del mond! ».
Anche le autorità cercano di farlo desistere da quella « manìa» (come essi la definivano) per l'acquedotto:
«E t'affanni, t'arrabatti
Betti mio, cose da matti...
Zitto! so già, già, già, già
Vuoi, dar l'acqua alla città».
In un'altra poesia il Betti finge di trovarsi in carcere e di ascoltare l'avvertimento paterno del direttore che ha l'accento meridionale:
- Che t'importa a te dell'acqua?
Da Basili, allu caffè,
La jacciata truvi te...
Da Bertozzi, e ch' iste è vere,
Truvi tutto, anche da bere...
Su lo Monte, u bar Giardino
Già 'n 'arancio suprafine...
E giù fora de Valbona
Ci sta 'na bevanda bona.-
La stessa poesia termina con questa speranza:
... Ho appres all'ultim'ora
Che st'acquaccia nirà fora!
Non se sa da dov vnirà!
Ma verrà, verrà, verrà!
Dal Metauro, dal Neron
Dal fium Foia, i foss d'Brancon,
Dal Caldes, dal verni
ì' 'n el so.., ma ha da vnì!
Finalmente nel 1966 ecco il nuovo acquedotto:
« Bona gent, gridèm osanna!
Or da tutt le fontanelle
Avrem l'acqua a catinelle
E da tutt i rubinett
S' podrà alfin veda ch'el gett
Ch'sospirè un bel pò eia fat
E ch'eia fatt dventè mezz matt,
Per la fila m'I'acquedott
Pie bui UH e per iorc rott.
Ma ormai tutt è passèt.
Ogni strada, ogni canton
(Com el vin mal Cantinon)
C'avrà l'acqua a profusion ».
Ora che il sogno di Betti e degli urbinati è stato in parte realizzato, il nostro poeta viene fatto oggetto di critiche benevole:
« Ogg me dighen: — Sa ch'è dett?
Ch'sa è sbraitai per st'acquedott?
Cosa è dett che Urbin è ardott
Peg del Pej e dia Peschiera?
Ogg t'accorgi del tu sba?!
L'acqua cert fra lum e scur
Colarà da tutt i mur
Sì o gent anch'io ved
Che in Urbin realizèt
Sia un po' stèt (non tant stèt) !
D'quel ch'ho dett, prò, non me peni!
E' servii per ch'le person
che s'atteggne a capiscion!
Evidentemente, anche se qualcosa è stato fatto per migliorare Urbino, molto, secondo il Betti, resta ancora da realizzare. La sua polemica bonaria continua.
Giorgio Nonni