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di Anna Maria Cappellacci - Urbino Segnalata all' XI Concorso 2012 per la sezione "Ricerca nelle tradizioni"
Da una piccola altura, nei pressi di Rancitella, si vede Cà Primo. Il grande casolare spicca, bianco, nel sole estivo. Sento una gran voglia di raggiungere questa casa, perché rappresenta qualche cosa dì speciale legato alla mia giovinezza. Era una casa di contadini, circondata da tanto terreno. I campi erano coperti da varie coltivazioni: alcuni di sola erba per produrre fieno, altri di grano, granturco e fave. Cerano anche le piante di melica per fare le scope e anche quelle di canapa e lino per confezionare i tessuti. Vigne e filari contribuivano a riempire il podere. Lì abitavano i miei nonni. Assieme a loro abitavano due miei zìi con rispettive mogli e figli. Era una famiglia molto numerosa, come nelle tradizioni di quei tempi. I nonni prevalevano su tutti per la loro esperienza ed età. Appena raggiungo il luogo, mi accorgo che la casa, che da lontano sembrava la stessa, ora è ridotta poco più di un rudere. Il tetto è crollato e tutt'attorno è un'invasione di erbacce varie. Mi sento triste ed avvilita, poi mi accorgo che nonostante il passare degli anni, nei dintorni sono rimaste tracce di cose e oggetti, testimonianze di casa vissuta. C'è ancora la "possa" con due grandi pietroni. Lì le donne di casa lavavano e sbattevano i panni. Ora è diventata arida ed asciutta, solcata da crepe tra le quali è cresciuta l'erba. Resiste anche un pezzo di steccato dell'orto del nonno dove coltivava verdura e frutta per il consumo quotidiano e i pomodori per la conserva. In un angolo pezzi di arnie annerite mi ricordano le api che producevano miele. Nei pressi c'è ancora il pozzo, ora sbarrato. Da lì si attingeva l'acqua per annaffiare e per gli usi domestici. C'è ancora il vecchio fico, ai cui rami qualcuno aveva attaccato le corde per "la pciangla" (altalena) per divertire i bambini più piccoli. Ora è cadente, quasi sdraiato a terra. Anche il noce resiste al tempo. Ricordo che noi ragazzini eravamo soliti salire sugli alberi, nascondendoci tra le foglie, finché qualcuno arrivava a ricordarci quanto il gioco fosse pericoloso. Vedo la montagnola di tufo, dove eravamo soliti fare la "liscia". Intorno ad essa facevamo i giri con le biciclette di legno costruite dai miei cugini più grandi. Quanti capitomboli e quante ginocchia e mani sbucciate ! Dietro la casa c'è l'aia, ora piccola boscaglia. Un tempo era circondata da pagliai di paglia, pula e fieno. Era territorio preferito da galline, oche e tacchini starnazzanti. All'interno della casa non si può entrare però me la ricordo perfettamente: grandi camere piene di letti e lettini. La cucina dove si viveva prevalentemente, aveva un enorme camino. Sulla grande "aiola" c'erano sempre i "pignattini" con il latte per fare la ricotta. In un angolo della stanza c'era un "batusc" che nascondeva una scaletta di legno. Di lì passavano i miei zìi di notte per accedere alle stalle al piano di sotto, andavano a controllare i vitellini nati da poco. Era una casa gioiosa e felice ma tanto rumorosa. Mi sembra di risentire le voci, le risate, i pianti dei bimbi piccoli, le grida degli uomini alle prese con i buoi e delle donne che richiamavano polli e pulcini sparsi per l'aia. A quel tempo io abitavo a Cavallino. Appena terminavano le scuote venivo in vacanza a Cà Primo, dai miei nonni. Era una occasione per ritrovarmi con loro e i cugini. In campagna, per gli adulti, non esistevano vacanze, anzi, l'estate era il periodo più laborioso. Gli uomini si alzavano allo spuntare del sole e si avviavano verso i campi a tagliare il grano. Noi ragazzi li raggiungevamo nel pomeriggio per dare le bracciate. Era un lavoro più leggero e adatto a noi. Si trattava di raccogliere fasci di spighe di grano, già tagliate e portarle gli uomini i quali formavano dei grossi covoni che legavano con le rocce. Oltre al lavoro era un gran divertimento per noi, che tenevamo sempre d'occhio la stradina dalla quale sarebbe arrivata la zia con un grande cesto con la cena da consumare sul posto. Si stendeva il mantile sulla seccia e si mangiava seduti a terra. Le pietanze erano sempre le stesse: fagioletti in quantità e fette di "lombett" o salame fatto in casa. Il tutto accompagnato da grosse fette di pane, anche questo casalingo. Dopo cena, noi ragazzi tornavamo a casa mentre gli adulti continuavano a lavorare fino al calare del sole. Dopo diversi giorni di lavoro nei campi, i covoni venivano caricati in grossi carri, trainati dai buoi e portati fino all'aia davanti a casa. Lì veniva costruita una grossa "barca" pronta per essere trebbiata. La famiglia era in fermento per l'avvenimento. Le donne erano indaffarate a cucinare l'oca, allevata per l'occasione, e a preparare ciambelline e crostate. La nonna era addetta alla pasta: faceva le tagliatelle a mano e le tagliava rigorosamente tutte uguali. Quando Ciaroni aveva installato la macchina "da batta", rossa, collegata al "Landini" con un cinturone, cominciava la trebbiatura. Tra la polvere di paglia e la pula i lavoranti non si vedevano quasi più. Se alla fine si superava "el cent", cioè cento quintali di grano, la sirena della trebbiatrice lanciava un grido che rimbombava per le valli attorno. Nonostante la stanchezza alla fine tutti mangiavano e bevevano soddisfatti e contenti. Finite le operazioni di raccolta del grano, si ricominciava con i granturco, anche questo raccolto a mano e trasportato dai campi all'aia con la treggia che lasciava solchi lucidi nella strada. La sfogliatura e la sgranatura si facevano prevalentemente di notte. Venivano poste delle lampade in vari punti dell'aia. Alcuni adulti sfogliavano le pannocchie e altri le sgranavano con strani aggeggi di ferro. Chiacchiere e risate si susseguivano, accompagnando il lavoro. Noi ragazzini ci divertivamo a fare salti tra le foglie soffici del granturco, che sarebbero servite poi, per imbottire materassi scricchiolanti e per dare impasto alle vacche. Ho ricordato con nostalgia questi spezzoni di vita ormai lontani, ma veri. Intorno a me ora c'è un silenzio assoluto, rotto solo dal canto degli uccelli e di qualche lucertola che si nasconde fra i sassi. All'improvviso sento un rumore: un trattore sta arrancando faticosamente in mezzo al grano. Un trattore e un uomo, da soli e in poche ore, sostituiscono quella che allora era una faticosa e festosa tradizione.
Motivazione della segnalazione: Nitido spaccato di un mondo contadino che non c’è più, ma che rivive nella mente dell’autrice attraverso segni, frammenti tangibili e in cui prevalgono sentimenti e nostalgia che tendono a “sfocare” gli aspetti più duri del lavoro dei campi. La lingua usata è l’italiano, inframezzato da termini quotidiani e dialettali, che danno alla narrazione maggiore aderenza al contesto territoriale.
di Anna Maria Cappellacci - Urbino presentata nell' XI Concorso 2012
Com tutt 'i ann, pei i mort e i sant facc un gir per el camp sant. Prima pass ma i butteghin a comprè un mass de fiortin. I' cnosc' tutti i pori mort che me guardne dalle tomb. Quasi tutti perché già so' arrivata a una certa età. A guardé tutt chi ritratt èn tutti sorrident me par propri ch'èn content. Facc' el gir del cimiter e per tutti c'ho un pensier, un ricord de quend'era viv bell o brut en è important, tanta adess èn ugual tutti quant. Ecch la tomba dla Cesira ch'en vleva mai fé la fila, vleva sempre passè avanti, perché lia c'aveva da fè, en c'aveva el temp da ciarlè. Chissà se se sarà pentitta da passè prima anca d' là mentre le su compagn continuen a ciarlè de qua? En bsogna avé sempre premura, tocca gì anca pianin, me diceva el si' Gigin "el temp el passa el Signurin". Poch più in là c'è anca la Nitta, sempr' è stata tanta arplitta, anca lia sarà pentitta? Ha risparmiat sold e soldin per lasciai mai su' fiulin. Adess litighne fra de lor, en i portne manch un fior. C'è anche Gino ch'era trist Perché lu quand'era cott la su' moj riempiva d' bott. La Maria, santa donna, 'i tien la tomba com un giardin, a testa bassa lia scarpisc tutt l'erbacc e i fior passit. Quand i lucida el ritratt, lu la guarda contrariât com se quel che fa fossa sbajat. Lia borbotta a testa in sù "guarda quant' par adess en me meni più". Vicin c'è anca la Fiorina che s'lamentava dalla sera alla mattina. Arcontava i su' malann, che i duravne tutta l'ann. Quas' invidie i su' malann, ha campât più d' novant'ann. Facc du pass de là del mur e trov un po' de tomb, facc'el gir per gille a veda e te trov qualch' mi collega. Han scordat tutt i rancor, par che ridne tra de lor. Chissà cosa arconterann de chi temp dietra i bancon? Le fatigat, le discussion, i contrast sa i superior, chissà se el sann che tra de lor c'è anca el direttor? Anche se ló ascolta attentament tant adess en pol dì gnent. Tra lor c'è anca la Rosina, era la mi capa quand'er pcina. Sa tutt i cicchett ch' m' ha dat c'era de che dventè matt. Te perdon perché si malé, un fiortin anca per te. Poch più avanti sulla destra, c'è anca la mi maestra. Adess rìd, mo en rideva prima se en sapev la tabellina Cert bactat su chi ditin, faceva tremè anca el taviin. Se el fasti adess, maestra mia, vedresti subit arivè el padre, la madre e anca la sia. Adess vagh via, è belle nott, lasc ste mond sensa più affann, vag a casa sa un magon che me pesa sulgroppon. Pró appena pass el cancell so felic com un fringuel. Tutt quel che c'ho da fè me par "el fior del bel cantè"
PER UN COLLEGA CHE VA IN PENSIONE Presentata a XI Concorso 2011
Anca te finalment Dop tant' ann de dur lavor È dat l'adio ma i "aliment" Che vendevi per cont d'lor ... Se stat brav tel tu servissi E adess godi el benefissi D' fè la vitta da pensionat E' un ripos meritat. Sa la faccia sorrident Te servivi ogni client Anca quei che ogni tant Fan rabí anca ma i sant. Sempre calm, paciott paciott En t'incassi manch sa i casott; brav e bon da fè ogni cosa se s'rompeva anca qualcosa l'arcmidavi e tel pió bell favi el manich ma 'l cortel !... In tla testa sempre el brett Sia d'inverne che d'estat, dic chel porti anca tel lett qualchedun c'ha arcontat. E' paura dle malattì Ch'ogni tant te fan sufrí Mo el più gross incovegnent Vien dal "tub de scappament" ... C'è la mania dla toccatina, 'na caressa sa la manina, mo sa clia tle panchin en 'i givi manca vicin ... Adess sé 'n liber cittadin, pó durmi tutt le matin, gì a spass quant te par sia ai mont che al mar. pró en te nissa in ment tla testa da comprè n'antra vespa per gì a fnì a rutilon e arvendla s' en se' bon ... bada sol sa la consort, la fameia e vanga l'ort sa chi attress rinovat che no t'avem regalat. Adess l'auguri ch' te facem noiatre tutti insiem è 'na vitta da pensionat tranquill e beat, sorident e gioios godend el meritat ripos.
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