ANTONIO FABI Urbino |
TRAGICO RISO - Introduzione
Due sono gli elementi che spiccano agli occhi quando si legge la silloge di Antonio Fabi: il recupero della tradizione letteraria italiana, l'uso cioè di una metrica che ha attraversato tutta la storia della letteratura italiana, per poi subire lo scacco, più o meno giustificato, dello sperimentalismo nove-centesco -e qui non si può non citare un altro grande poeta che in tempi non lontani ha tentato questo recupero, il Zanzotto de Galateo in bosco- e, come secondo elemento, quello di una poesia che si definisce particolarmente per la sua vena comica. Lasciamo perdere il primo punto che ci porterebbe troppo lontano e introdurrebbe in una lunga disquisizione, tra l'altro pericolosa, e concentriamoci invece con attenzione sul secondo. Da cosa nasce cioè questa necessità del comico, perché usare proprio il comico, un genere che ultimamente non riscuote troppo favore in poesia? A mio parere per il Fabi la comicità è qualcosa che compare "suo malgrado", si configura, cioè, come l'incapacità di mantenersi nel "serio" di fronte ad una esistenza umana per sua definizione tragica. Il poeta conosce a fondo quel mondo e quei personaggi di cui scrive e sa, sa bene, che sono noti anche ai suoi lettori; sia che parli di persone la cui identità è rivelata o di una tipologia di personaggio. Egli è anche ben conscio del fatto che su quelle persone, su quei topos, non si dovrebbe ridere, ma tutt'al più parlare con serietà. Ma ciò che altrettanto comprende è che egli stesso appartiene a quel mondo. È quello l'ambiente in cui vive, dove lavora, dove è stato educato. Così schernire quei personaggi, anche quelli appartenenti alla mitologia che non sono altro che il riflesso della cultura in cui è cresciuto, diviene un ironizzare su se stesso e sull'ambiente che lo circonda. Il Fabi "si diverte", ma questo divertimento, il riso che ne scaturisce, finiscono per imprigionarlo in una moltitudine di immagini che egli stesso ha creato (si legga ad esempio il sonetto // civilista), trasformando quella che era una risata in un sorriso a volte amaro. Vi è cioè un processo di attrazione e repulsione interno, e proprio sulla varietà del rapporto tra interno ed esterno nasce la modulazione della comicità. Naturalmente in questo senso, spesso, il riso è quasi una copertura del tragico, e cioè sotto l'apparente comicità esistono una serie di elementi e di situazioni dolorose e tragiche, appartenenti alla sfera privata ma anche a quella sociale, che solo il rivestimento comico può rendere comunicabili agli altri; i quali non accetterebbero una simile verità se data loro nuda e cruda, trovandola probabilmente offensiva, come ad esempio nel caso di Don Elvio, sacerdote dedito alle sue "pecorelle" e con la dote di "amare assai le giovani sorelle", o come il medico Salvatore abile soprattutto ad accompagnare i clienti al "Creatore". Si potrebbe quindi affermare che il Fabi ride e scherza sulle che cose che ama, se non altro perché sono quelle che vive quotidianamente e dalle quali è difficile sottrarsi. Egli conosce a fondo quelle situazioni che sbeffeggia e attraverso la loro ridicolizzazione tenta quasi un'operazione di autopunizione (molto vicina alla figura dell''heautontimoroumenos) che può portarlo ad assolverle e ad assolversi. Un'ultima cosa mi sembra importante e riguarda la lingua usata dal poeta. Vi è infatti una mescolanza di italiano gergale, aulico e comune, tutto fuso però con un'abilità inconsueta. Questa miscela, pur rimanendo all'interno della comicità, permette al Fabi di creare versi veloci che giungono e trasmettono immediatamente il significato inseguito, spesso lasciando senza fiato il lettore, colto di sorpresa da un improvviso e sospeso malinconico sorriso come, ad esempio, in questi quattro versi: "Aver Brocchi ministro è una iattura; / non c'è da stare allegri, che è uno sballo. Caligola mostrò maggior misura, / facendo senatore il suo cavallo". Enrico Maria Guidi
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