1.  INIZI, SVILUPPO E FIORITURA DELLA POESIA DIALETTALE

 

Breve la storia, se pur merita questo nome, della poesia dialettale marchigiana (1). Nata forse nella seconda metà del sec. XV, o nella prima del XVI, si annunzia con alcuni sonetti cingolani, semidialettali (2), si fa strada con un bel gruppo di ottave, dalla varia fortuna, si afferma, sullo scorcio del '500, con alcune commedie (maritaggi) e prologhi e intermezzi in dialetto di Cingoli e di Macerata; poi, pare che si arresti, forse perché componimenti dei secoli XVI e XVII andarono perduti o sono tuttora sconosciuti. I sopravanzati, tra i quali una commedia, La Renza, del sec. XVII, in dialetto di Urbino, non rifulgono di luce molto viva. Una certa ripresa si rivela nel secolo XVIII, del qual tempo sopravanza una discreta serie di componimenti, che ingrossa via via che ci avviciniamo al sec. XIX, e, più ancora, al tempo nostro.

Divenuta ormai di dominio pubblico, gustata dalle persone colte, uscendo dalle ristrette cerchie di amici, arriva più frequentemente alla stampa, in giornali e riviste, spesso si raccoglie in volumi, sempre accrescendo il pubblico favore.

Dopo il 1860 giornali di provincia cominciano ad accogliere poesie e prose dialettali, fino a che queste prendono il sopravvento e i giornali si riempiono di dialetto, diventando talora esclusivamente dialettali (a Iesi, in Ancona e altrove). Fino a che la Mostra folklorico-dialettale nella esposizione di Macerata (1905) mette in vista, con articoli, con saggi, con recite, molti componimenti e molti poeti sin'allora quasi ignorati, affratellandoli tra loro, dando impulso vigoroso alla produzione dialettale, fattasi, d'un tratto, più larga, più varia, più disciplinata (3). Oltre aver promossa la compilazione di studi dialettali, di grammatichette e dizionarietti non inutili, e più che cento traduzioni della nota novella boccacesca (conservate presso di me) ; oltre aver indotto a curare maggiormente l'uso dei segni diacritici e a spiegare, con glossarietti, le locuzioni e le parole non chiare, la Mostra accrebbe il pubblico favore per la poesia dialettale, continuata e secondata dalle riviste L'esposizione marchigiana, la Rivista marchigiana e il Picenum, e dai giornali, il Birichino di Iesi, bimensile, quasi interamente dialettale (1906), seguito dal confratello il Marchigiano, durato sino al 1914. Nelle loro pagine furono ospitati versi e prose di qualsiasi provenienza, purché regionali, furono svolte tenzoni poetiche, combattute a colpi di sonetti, furono propugnati e preparati convegni, e incoraggiati tutti i poeti.

In quegli anni fu una gara feconda di scrivere e pubblicare versi, durata sino all' inizio della grande guerra, e ripresa, un po' più straccamente, a guerra conchiusa. La musa dialettale marchigiana, periodico nato in Urbino nel 1928, parve accelerare la ripresa, ma morì sul nascere. Eppure il fervore per la poesia dialettale non diminuì.

Ne sono prove sicure i molti volumetti di versi, originali o ristampati, che sono venuti, e vengono, in luce assai di frequente, le modeste commedie dialettali, sempre più numerose, salutate dal pubblico con viva simpatia, e l'abitudine ormai comune di recitare o far recitare pubblicamente versi dialettali e di ripetere nelle conversazioni sonetti e motti di singoli autori. Possiamo asserire, con piena verità, che la nostra poesia dialettale attraversa, adesso, l'ora più fervida della sua piccola storia.

 

 

2. CENTRI NEI QUALI ESSA PROSPERÒ DAGLI INIZI AD OGGI

Chi bene ne osservi gli svolgimenti modesti si accorge che essa ha fiorito inegualmente nel territorio della regione, ma più vividamente in paesi determinati e meno in altri, per ragioni diverse e contingenti.

Il primo fortunato paese fu Cingoli (compresi, naturalmente, anche i paesi vicini) il quale dovette vantare una tal fioritura nel '500, continuata nel '600, da far sorgere e prender piede la frase «alla cingolana» che troviamo precedere a molti componimenti di allora (4).

Al tempo stesso, o poco dopo, la poesia dialettale trionfò a Macerata, dove Ottavio Ferri scrisse, intorno al 1550, pregevolissime ottave, e Francesco Borrocci rese popolari le sue Intervenute che, per essere azioni drammatiche, dovettero interessare un pubblico largo e vario, quasi si direbbe tutta la cittadinanza.

Nella seconda metà del 700, di una lieta fioritura di poeti e di rime dialettali gode Arcevia, che allora offriva spesso accademie per gli studenti e la cittadinanza, ove non mancava mai il componimento dialettale. Autore principale, D. Francesco Cesari (in Arcadia Giosilbo Aristandeo) (1700- 1780), che in Arcevia tenne il «pubblico primario magistero», animatore di quel movimento spirituale che dette ad Arcevia una invidiata nominanza.

Tra componimenti di ogni genere, in latino classico, in latino maccheronico, in fidenziano, in italiano, perfino in greco, egli scrisse in dialetto rustico arceviese egloghe, intermezzi, dialoghi, canzonette ed epigrammi.

Oltre il Cesari, che mi appare come il direttore dell'orchestra, scrivevano rime dialettali D. Germano Benvenuti (in arcadia Ermanno Metragio), del quale è noto un poetico applauso in onore del Padre Predicatore Modesto da Montefilottrano (1789); il canonico Salvioni, del quale si conosce una canzonetta « risposta all' invito del Vicario generale » e il canonico G. Angelelli, del quale ripubblicai un sonetto, che, però, è del 1819.

Da questi pochi componimenti conservati ci è dato arguire che molti altri ne fossero composti, se tanti erano i cultori del dialetto arceviese, e tanto graditi riuscivano al pubblico i loro saggi, inseriti perfino nel seno di raccolte, tutte redatte nella più pura favella arcadica che si potesse desiderare (5).

Sul finire del 700 e i primi dell' 800 ebbe un momento propizio Mogliano, come attestano alcuni sonetti di G. B. Cosimi, e in particolare due dialoghi di Vittorio Tamburrini, così raffinati da far supporre logicamente molti predecessori, e mettenti in mostra anche una specie di maschera locale (Ciafrì o Ciafrino), la quale avrà fatto risonare certo anche prima gli accenti del proprio dialetto.

Più tardi il dialetto fu, di nuovo, amorosamente coltivato a Macerata (fra il 1850 e il 1875), specialmente per opera di Giuseppe Mancioli, cui plaudiva da Sanginesio Alfonso Leopardi, poeta di molto merito, e seguirono presto vari altri, taluni ancora viventi (6).

Tra gli ultimi lustri del sec. XIX e i primi del XX versi e prose dialettali a dovizia mise in luce Iesi, come s'è detto, ove il Magagnini, il Felicetti e vari altri seguitarono per anni ed anni la loro produzione. Oggi un bel numero di poeti, dei più validi, contano la città e la provincia di Ascoli ; ma, veramente, il vanto della poesia dialettale spetta ad Ancona, dove molti poeti la coltivano con bravura indiscutibile : senza parlare del De Bosis, del Vecchini, di Enea Costantini, del Passarini e di altri, morti da tempo, dei quali conosco poche composizioni, si fanno pregiare non poco lo Scandali, il Giangiacomi, il Tornassi, il Leoni, il Beer e vari altri, autori di un bel numero di volumi.

 

 

3. GIORNALI DIALETTALI O SEMIDIALETTALI

Come abbiamo già detto, favorirono la diffusione della poesia dialettale i giornali, specie quelli prevalentemente dialettali, usciti in luce specialmente tra il 1890 e il 1915 (ma alcuni anche prima), che spesso ebbero la vita di un giorno (numeri unici), spesso di una stagione (la balnearia), e talora anche di uno o più anni, conservandosi, però, ora settimanali, ora bimensili, ora mensili.

Faccio seguire un elenco, certo incompiuto, di giornali parzialmente o prevalentemente o integralmente dialettali :

Accolsero via via versi dialettali giornali come l'Ordine di Ancona, il Corriere adriatico, ecc. ; almanacchi, come il Margutto di Fermo la Strenna di Marco di Ancona, la Strenna marchigiana, e cento altri. Ricordo, in fine, Vita picena, che si viene pubblicando ora, e ospita spesso componimenti dialettali ed anche il Calendario popolare piceno per il 1933 (Grottammare, Tip. ed. F. Rivosecchi), dove sono riportati componimenti di Pio Salvi, Vincenzo Belli, Carlo Contenti, Ernesto Ciucci, Giuseppe Procaccini, Francesco Bonelli, Duilio Scandali, Bice Piacentini, Luigi Mannocchi, Odoardo Giansanti, Vincenzo Castelletti, Mario Affede, Carlo Neroni.

 

 

4.  CULTORI DELLA POESIA DIALETTALE, DI TUTTE LE CLASSI SOCIALI

 Palese indizio del favore goduto nelle Marche dalla poesia dialettale, la molteplicità e varietà dei poeti (poeti e poesia, naturalmente, in senso molto relativo e attenuato!) provenienti dalle più disparate condizioni sociali:

 Insieme presa, questa turba di poeti provenienti da tanti campi dell'umana attività, ognuno col suo fardello d'idee e col suo piccolo mondo interiore, riesce a mettere dinanzi agli occhi del lettore una visione intera della psicologia e della morale del nostro popolo, fedele alla sua storia e alla sua tradizione. 

 

 

5.  IL SORGERE  DELLA  POESIA DIALETTALE; POESIA  VOLGARE, POPOLAREGGIANTE E POPOLAR

La letteratura dialettale marchigiana comincia, io penso, nei primi decenni del '500, quando, cioè, gli scrittori, liberatisi dalle scorie del volgare regionale, e accostatisi alla lingua italiana, videro più chiaramente nelle questioni linguistiche, ormai agitate largamente da un capo all'altro d'Italia, e scorsero la profonda differenza che correva tra la lingua che essi ormai adoperavano (la italiana) e quella parlata dal popolo (dialetto).  Solo allora si resero ragione del binomio, per l'innanzi poco o punto avvertito, e compresero, che, scartato il volgare, quale elemento ibrido ormai inservibile, al dialetto potevano convenire soltanto argomenti lievi, da essere apprezzati solo nell'ambito dei territorio ove il dialetto era compreso: per gli altri argomenti occorreva la lingua. 

Nacquero così i primi componimenti dialettali, che differiscono profondamente dai volgari, perchè quelli sono scritti intenzionalmente in dialetto, mentre questi sono scritti intenzionalmente in italiano, anche se, preterintenzionalmente, dialetteggiati. 

Ne consegue che noi dalla storia della letteratura dialettale marchigiana dobbiamo escludere, ed escludiamo, tutti i componimenti volgari delle origini, ben altrimenti importanti, e anche quelli del '300 e del '400 (compresi alcuni del '500), anche se talora sembrino, e siano, mezzo dialettali (7).  Omettiamo pertanto, nella nostra rassegna le Laudi urbinati, il 'Pianto delle Marie, il Ritmo di S.  Alessio, la Giostra delle virtù e dei vizi, e altri componimenti non pochi; tacciamo dell'Acerba di Cecco d'Ascoli, delle poesie sacre attribuite a Pietro da Mogliano (8), della Mascherata di tre trastulli, canto carnascialesco del sec.  XVI che ha carattere popolaresco (9), del 'Poemetto della passione, rifacimento attribuito a Niccolò Cicerchia, del '300 o del '400 (10), e di altra materia di questo genere che appartiene più alla storia del volgare che del dialetto marchigiano.  Risente molto dei vari dialetti della regione, sì per i vocaboli che per i fonemi, e anche per forme flessionali, ma, nell' intenzione dello scrittore, è italiana più che marchigiana. 

L'intenzione di usare il dialetto, ripeto, si rivela netta e spiccata solo nel '500.  Può fare eccezione, tutt'al più, la canzone, che è un contrasto, da Dante attribuita a un tal Castra fiorentino (e che io ritengo scritta da un Messer Osmano, delle Marche) nella quale veramente si rivela una volontà determinata di adoperare il dialetto, ma non allo scopo di nobilitarlo o di metterlo in valore, sibbene (se la parola di Dante risponde al vero) di denigrarlo e di vituperarlo.  Il che, dato che sia vero, ripeto, fa del famoso o famigerato contrasto un componimento singolare, che nulla ha di comune, tuttavia, con la poesia intenzionalmente dialettale, di cui noi vogliamo occuparci, e che non iniziò la tradizione della nostra poesia dialettale. 

Qualora, invece, come io credo aver dimostrato (11), il contrasto sia opera di scrittore marchigiano (Messer Osmano), intenzionato di scrivere in dialetto, esso, pur non avendo avuti continuatori, almeno a nostra conoscenza, rimane un componimento singolare, dialettale intenzionalmente, ma con intenzione diversa da quella degli scrittori moderni. 

Taceremo anche della poesia popolaresca o popolareggiante, famosa assai più che nota, della quale le Marche furono nel '400 e nel '500 così feconde, da importarla nelle altre regioni, perché neppur questa va confusa con la poesia dialettale, cui può solo essere avvicinata. 

 I molti e vari componimenti di Andrea dei Martinozzi da Fano, autore di cantari, di Belisario da Cingoli e del più famoso Benedetto da Cingoli, detto il Piceno, di Venturino dei Venturini da Pesaro, di Benedetto Silvi da Tolentino, di Giacomo Cataldini da Cagli, di Percivalle da Recanati, di Gerolamo Candorfini da Cagli, di Conte dei Conti da Camerino, di Vincenzo Citaredo da Urbino, di Cales Saturnino da Corinaldo, di Venanzio Piermattei dalla Pergola, di Gaugello Gaugelli da Gubbio (ma considerato della Pergola), e sopra tutto di Baldassarre Olimpo degli Alessandri da Sassoferrato, il più fecondo, il più vario, il più popolare di ogni altro, ristampato sino agli ultimi tempi per il popolo, tutti i loro innumeri componimenti, come quelli di molti altri, e le prediche, le laudi, le cronache, le epistole, ecc.  ecc.  , che pur furono numerosissimi, possono avere e hanno spesso involontario sapore dialettale, ma della letteratura dialettale non fanno parte, evidentemente (12). 

Taceremo, infine, anche della poesia popolare, considerandola estranea al nostro tema, anche se teoricamente indissociabile dalla poesia dialettale. 

 

 

6.  I COMPONIMENTI RIMASTI SINO  AL 1800

Toccheremo, invece, dei componimenti in puro dialetto che, a nostra conoscenza, sono (per i secoli XVI - XVIII) i seguenti (dei successivi, innumerevoli, parleremo in altro capitolo):

 

 

7.  I  QUATTRO SONETTI  CINGOLANI

 Primi saggi di poesia dialettale nelle Marche sono quei quattro sonetti (tendenti, del resto, più al volgare che al dialetto) conservati nella biblioteca Vaticana, che a me paiono piuttosto del sec.  XV che del XVI, i quali trattano materia burlesco - satirica (17). 

Il primo porta la etimologia di Cingoli da «cingolo», e la sua ubicazione «nel mezo de la Marcha», fra il Tronto e il Foglia; ricordato che nella Marca d'Ancona è il punto più alto «ove so raggi splende el vivo sole», si chiude col richiamo del proverbio notissimo nella regione e fuori:

 «Pensa che a Cingol non è nocte ancora»

 Il secondo sonetto è rivolto contro la

«Epocregia iniqua et maledecta,

Che vay basciando i santi per le mura»

accogliendo non meno di cinque proverbi o detti «(Da l'acqua quita sempre may te guarda; Non è beccaro et pur besciche vende», ecc.  ); e pare più satirico che burlesco, avventato contro una persona determinata.  Analoga intonazione ha il terzo, contro un tale che «de male operar giammay se stagna», ed è pieno d'ogni menzogna: d'ira, d'ipocrisia, di superbia, d'invidia; sfruttatore e baro.  Di lui tesse questo elogio:

«Coda de golpe, riccio de castagna,

Pelle de squadro, razza paganina,

Dente de lupo, lengua serpertina»

Noto che l'ultimo complimento si ritrova tale e quale in un canto popolare tuttora vivo («Cosa t'ho fatto, lingua serpentina, che di me vai dicenno tanto male?»). 

Il quarto ed ultimo sonetto è lo sfogo di un contadino che giura di non coltivare mai più certi suoi campi (Berta morica, Pian de Sala, Sterpara, Lombricara, ecc.  ) la cui coltivazione costa più che non sia il reddito, rende, sì e no, due misure per una, e rovina i buoi adoperati per la maggese e la semina:

«Lo gran non ò e 'l bô me scortechato»

 

Per i temi trattati, per i detti popolari che ricettano e per il colorito vernacolare, ho collocati questi sonetti, burlesco - satirici, in capite libri della nostra poesia dialettale; ma il primo componimento, d'indubitabile natura dialettale, sono quelle belle e adorne ottave, anch'esse cingolane, che sono conservate nella biblioteca comunale di Macerata. 

 

 

8.  OTTAVE DI VARIA PROVENIENZA; CANTATA; LA GHIORGHIETTA

 Con questo titolo generico di ottave ricompongo un gruppo di componimenti dialettali di varia lunghezza e di vario tempo tutti in ottave, e legati tra loro da vincoli di interdipendenza:

 Mettendo a confronto questi componimenti, tutti dialettali e tutti in ottave, si viene a scoprire che sono tutti collegati tra loro, e si riesce a stabilire che corrono tra loro le relazioni seguenti:

R1, R2, R3, R4, corrispondono, quasi ottava per ottava, sebbene con altro ordine, a F1 (25); e le ottave si riscontrano quasi tutte (26) in Gh.  ; Cc è composta di 9 ottave (quasi certamente è mutila in fine) che ricorrono tutte in R1, R2, R3, R4, sebbene con ordine diverso; F2 (27), benché conservato nello stesso manoscritto che F1, non ha riscontri notevoli né con R1-7, né con Gh.  (28): come 129 ottave di Gh.  non hanno riscontro con nessun altro dei componimenti ora accennati o da me conosciuti. 

Se ne può conchiudere che uno scrittore a noi sconosciuto, forse del sec.  XV, o del principio del XVI, sull'esempio di Lorenzo de' Medici (Mencia), del Pulci (Beco), del Berni (Catrina) e di altri (29), componesse un certo numero di ottave (R1-7) in lode di una bella campagnola vera o immaginaria che fosse; che altri ne componesse di nuove, sull'esempio delle prime, ma senza copiarne alcuna (F2), che altri ne trascrivesse alcune a suo modo, senza fare alcuna aggiunta, congegnandone una cantata (Cc); e altri,  in fine, con qualche novità, componesse un poemetto (Gh), utilizzando variamente 40 ottave di R'"7 e F1 (30), ma aggiungendo (di suo?) una serie di ottave. 

Chi ricordi che di simili ottave gran numero fu composto allora qua e là per.  l'Italia, così in dialetto come in italiano, nella vicenda delle nostre ottave vedrà nulla più che un riflesso di quel fenomeno nazionale (31).  Le nostre ottave, tuttavia, importano grandemente a noi, marchigiani, per il dialetto che le riveste e per i costumi che documentano, nonché per la notevole bellezza che le illumina. 

Ed ora passiamo a qualche considerazione su i vari componimenti, sbarazzando il terreno da sterpi importuni, e risolvendo qualche insistente quesito. 

Il Raffaelli nel pubblicare le prime due mattinate (32) dichiarò di «averle sentite cantare nel tempo delle messi e della vendemmia dai contadini» di Cingoli, dandole, quindi, per popolari.  Gli credette il Ferrari, riconoscendo preziosa la sua informazione (33); forse gli credettero anche altri, come lui, competentissimi (34); così che le ottave del Raffaelli, poco dissimili da quelle del Ferrari (F1), attesterebbero un fatto non meno importante che inverosimile: che, cioè, quelle ottave, composte nel '400 o nel '500 (come prova il ms.  maceratese che è del '500), vivrebbero, quasi immutate, dopo 4 secoli, nella tradizione popolare anche oggi, come afferma il Raffaelli. 

Ma convien dire subito, francamente, che ciò non è vero, senza escludere che qualche spunto o qualche immagine si ritrovi nella poesia popolare odierna, alla quale esse sono evidentemente ispirate (35). 

Non è vero, perché non è credibile che il Raffaelli potesse dare, a caso (si noti bene!) alle ottave, che egli avrebbe raccolte dal popolo (non costrette dal senso a rimanere ordinate come le avrebbe dettate l'autore), quasi lo stesso ordine che hanno nel manoscritto, o che queste conservassero, non ostante il logorio quadrisecolare della tradizione orale, quasi la identica forma.  Non è ammissibile anche, perché nelle ottave incontriamo frasi e vocaboli non più esistenti (36), e scorgiamo motivi che, non rispondendo più alla realtà moderna, sarebbero dal popolo stati certo eliminati (37). 

Penso, al contrario, che il Raffaelli trascrivesse le ottave da un manoscritto, a noi ignoto, la cui lezione era un po' diversa dalla maceratese (38), ove le ottave erano anche un po' diversamente ripartite, con ottave in più e in meno (non è caso frequente questo nelle vecchie raccolte?), in modo da formare sette mattinate: le prime quattro, dal Raffaelli pubblicate, corrispondenti alle ottave del primo gruppo, le ultime tre non pubblicate, di diversa provenienza, non corrispondenti, si noti, a quelle del secondo gruppo, ma ad altre ottave contenute nella Ghiorghietta (39).  Ristabilita così la verità, tutta la controversia può dirsi risolta, ritenendo che il Raffaelli giocasse un brutto scherzo agli studiosi, o fosse egli stesso, il che è meno probabile, vittima di un trucco bene architettato (40). 

Potrebbe dar qualche credito alla sua asserzione la lezione, sensibilmente diversa, delle ottave, che in fondo sono identiche, nei tre manoscritti R1, F1 e Gh.  , ma quella diversità potrà tutt'al più far pensare a libertà che si prendessero i vari copisti, ed anche al grande numero delle copie che se ne dovettero fare in tempi diversi, avendo quelle ottave incontrata certo grande fortuna.  Ogni altra illazione mi parrebbe arbitraria (41). 

I  due gruppi di ottave pubblicati dal Ferrari (F1 e F2) sono qualificati «alla angolana», il primo, composto da «un cingolano», che vano sarebbe indagare chi fosse; il secondo scritto dal Sig.  Ottavio Ferri da Macerata.  Che un cingolano scrivesse «alla angolana», nessuna meraviglia; farebbe meraviglia, invece, che scrivesse alla cingolana, cioè alla maniera usata in un piccolo paese, un cittadino di Macerata, se non si sapesse che Cingoli fu la patria di vari scrittori di simil genere (Benedetto da Cingoli detto il Pizeno, famoso [cfr.  mie Marche, p.  130 e 131], Belisario da Cingoli (42), l'autore dei quattro sonetti (43) ecc.  ecc.  ), che alla cingolana scrisse anche il Borrocci, che la sua Intervenuta asserì ridicolosa (44), proprio come le ottave del Cingolano.  Siffatte coincidenze potrebbero indurre a sospettare lo stesso Borrocci autore delle ottave, grande essendo l'affinità del dialetto delle due scritture, ma non si avrebbe documento valido a una dimostrazione definitiva. 

II  Ferrari (45) sospettò che il Ferri, autore del secondo gruppo delle ottave (F2), fosse autore anche del primo (F1), senza venirne a capo.  Un attento esame consiglia a rigettare l'ipotesi (46).  Non va, intanto, dimenticato che nel ms., mentre l'uno è, dichiaratamente, cingolano, l'altro è detto esplicitamente maceratese, e non si scorgerebbe la ragione di tale mendacio; il dialetto, poi, ancorché lievemente, suona diverso nei due gruppi; le ottave, infine, sono variamente dialetteggiate (assai più le F1 che le F2); e quelle di F2 sembrano anche più elaborate: l'autore a un certo punto esclama (ott.  XXI): «O bella cosa d'esser littirutu E di saper nel mondo ogni coelle!».  In conclusione, l'autore di F1 rimane ignoto; Ottavio Ferri, invece, autore del secondo gruppo (F2), viene a risultare uno dei primi, se non il primo, che usasse dialetto  marchigiano. 

Di lui sappiamo che nel 1541 fu Governatore di Terracina e Castellano di quella rocca; che fu Luogotenente generale di Spoleto, di Viterbo e del Patrimonio; che fu Preside di Fano, Governatore di Camerino, Auditore di Bologna, Vice-Duca di Parma, con patente rilasciatagli da Ottavio Farnese il 3 maggio 1549; che fu in seguito Commissario e Vice-Legato di Romagna e finalmente Auditore di Paolo IV nel Concilio di Trento (47).  Guardando alle date del pontificato di Paolo IV (1555 - 1558), dobbiamo ritenere che il Ferri scrivesse le sue ottave nella prima metà del sec.  XVI.  Considerando le cariche, tutte elevate, tenute dal Ferri, rileviamo come i più antichi componimenti dialettali appartengano a un personaggio di alto rango, proprio come era avvenuto in Toscana (si pensi a Lorenzo il Magnifico); seppure non si voglia ammettere, com'è assai probabile, che fossero composte dal Ferri prima di allontanarsi da Macerata, cioè nella sua gioventù, come fa sospettare il nudo nome dell'autore, non accompagnato dal titolo di nessuna carica da lui occupata, nel qual caso le sue ottave risalirebbero ai primi decenni del '500. 

Che i componimenti menzionati siano dialettali è palese; piacerebbe, invece, dimostrare che essi giovano molto alla conoscenza dei costumi e del folklore del tempo, ma occorrerebbe troppo lungo discorso. 

Chi legge le mattinate del Raffaelli e le ottave edite dal Ferrari (F2), sente spirare attorno l'aria della campagna: immagini, richiami, similitudini, paragoni, tutti campestri.  Campestri i costumi cui si accenna, i sentimenti, il linguaggio.  La donna idoleggiata è saporita più che 1'insalata condita, è morbida come la caciaia, è dolce da leccarsene le dita, è fresca come la ruta, e così via.  Stante la sua crudeltà, il povero amante non ottiene mercede: anzi ci rimette «l'onguentu e le pezze»; invano passa coll'asino davanti all'uscio, tanto essa non bada; l'incendio del pagliaro, lo scorticarsi dell'asino stesso, la rottura della truffa e altre disgrazie la lasciano indifferente, tanto che il poveromo, in fine, se ne va, temendo d'assordarla, anziché di dilettarla (48). 

Che le ottave R1 7, F1 e F2, e quindi anche Cc che ne deriva, abbiano rapporto col territorio di Cingoli, nessun dubbio: lo provano le parole dei manoscritti, l'intestazione di F1 (49), gli accenni a nomi di luogo, come appunto Cingu (cioè Cingoli), Apiru (R1, ott.  IV e ott.  V della mattinata 2a), Monteniru, che è monte vicino a Cingoli (ivi e note corrispondenti), Castrecciune (ivi), che è castello a cinque chilometri da Cingoli,  ecc. 

Le ottave, a uno sguardo estetico anche non profondo, appaiono adorne di modesta, ma sincera bellezza: fresche, quasi sempre, le immagini, anche se talora un po' ardite e sforzate, vere e naturali le posizioni, abbondanti i motivi di amore, comuni, i più, alla poesia popolare; ricco il lessico maneggiato alla brava, grande la varietà.  I versi, arieggianti al popolaresco, anche se talora zoppi e saltellanti, procedono sostenuti e spediti, scevri di zeppe e di empitivi.  Le ottave, poi, in regola per la composizione e anche con le rime (le quali vengono ripristinate facilmente, dove sono state corrotte: es.  piangeresti: tristi: partisti - ristabilisci piangeristi, come esige il dialetto), sebbene popolareggianti, sebbene spicciole e non collegate, fanno pensare a mano esperta di autore letterato (50). 

Quelle dettate da Ottavio Ferri, poi, non ostante che egli voglia far credere di buttarle giù all'improvviso (ott.  I e XXI), sono martellate con cura anche maggiore e accolgono anche spunti letterari (51), come, si poteva immaginare, data la condizione sociale dell'autore. 

Tutte queste ottave, assai antiche, ricche di vocaboli non più in uso, di accenni a costumi parimenti tramontati, meritano adeguata illustrazione, così in un senso come nell'altro, e interessano alla letteratura come alla storia.  Al marchigiano esperto di costumi, di vocaboli e anche di suoni, la lettura risveglia un volo di immagini e di ricordi. 

  

GHIORGHIETTA (GlORGHIETTA) (52)

Interessano anche di più le 169 ottave della Qhiorghietta, poemetto che, in fondo, altro non è se non una cantata, in lode della bellissima Iorghietta (Giorgetta), una popolana (53), celebrata con tutti gli onori, non più vagamente, come nelle ottave cingolane, ma con qualche determinazione di tempo e di luogo. 

Immagina, dunque, il poeta, del quale non conosciamo né il nome né l'epoca, che Giorgetta si trovi in mezzo a una festa di ballo tenuta in casa sua, e sia, per la grande bellezza e valentia nella danza, da tutti ammirata.  Il ballo è affollato da donne d'ogni età e condizione; uomini, armati e no, fanno ressa alla porta e vogliono entrare ad ogni costo.  Giorgetta, pronta, corre a un balcone della casa e parla alla folla, esortandola a ritirarsi, e lo fa con tale forza e dolcezza insieme, che tutti si placano e obbediscono.  Ma un uomo sulla quarantina, «lu saviu de la 'illa» (ott.  12), le dichiara: siamo venuti «sol per vedette e basciatte la manu».  Giorgetta, rispostogli con diplomatica cortesia, lo fa entrare nella modesta casetta, e gli rivolge altre parole cortesi, commovendo con la sua grazia il rustico uditorio.  E la danza riprende, fino a che un tale (non certo il primo interlocutore che ha moglie), ricomincia la esaltazione di Giorgetta, in piena regola, domandando d'essere accettato come sposo.  Nelle ottave 24 - 27 fa menzione di un caso stregonico occorso a Giorgetta in una sua gita a Norcia; s'indugia, a un certo punto (ottave 46-51), sulla vitaccia faticosa e tribolata che deve condurre un contadino, su i tormenti che infligge l'amore (ottave 55 - 58), moti comuni ambedue nella letteratura del genere; dalla ottava 82 sino al 101 s'intrattiene sul modo di convincere, mediante ruffianeria, la Giorgetta a sposarlo (interessanti i consigli che dà in proposito un frate, Padre Iotto (54), che pare si presti alla bisogna); nell'ottava 102, senza che sappia come la ruffianeria sia riuscita, riprende la litania delle lodi alla bellissima donna, interrotta qua e là da qualche episodio (ad es.  , l'accidente, mezzo stregonico, del viaggio a Norcia), da riflessioni, da lamenti e rimpianti, sospesa, dall'ottava 136 alla 140, dall' intervento di una femmina che gli consiglia medicali rimedi contro il suo male d'amore.  Seguitando nella sua filastrocca, l'esaltatore s'adira, minaccia, si dispera perdendosi in discorsi piuttosto sconclusionati, fino a che, stanco de l'inutile insistenza e timoroso di avere assordata la bella Giorgetta, si ritira lasciandola in pace. 

Nel poemetto, poco organico, dove, come abbiamo già osservati sono ricettate ben 40 ottave di altri autori e di altra provenienza (55), con ordine diverso, si deplorano, oltre che trapassi bruschi ed oscuri, anche lacune evidenti, dovute non so se a difetto di codice e a trascuratezza di copisti, o al criterio dell'autore, regolatosi più da compilatore che raccatta le ottave qua e là dove le trovi, senza mira né garbo di acconciamente collegarle, che da vero scrittore, risoluto di tutto comporre da sé e di suo genio. 

Per es.  , nell'ottava 6 comincia un discorso che non si sa da chi pronunziato, mentre nella 7 riprende la narrazione; coll'ottava 46 s'inizia l'elenco delle fatiche campestri, che non si collega bene colle ottave  precedenti; tra l'ottava  102 che comincia:

Non voglio canta più men quistu scuru

e le precedenti, narrative e non cantate, non v'ha collegamento logico (56); così in altri luoghi del poemetto. 

Che nel suo complesso e voglio dire per le 129 ottave sulle 169 che lo compongono, il poemetto sia camerinese, non mi sorge alcun serio dubbio: sebbene l'autore sia sconosciuto, una certa tradizione perdura tuttora che camerinese fosse (57); il dialetto, per se stesso, conferma la tradizione, non contraddetta dall' infiltrazione delle ottave cingolane, agevolmente ridotte alla parlata di Camerino (né lontanissima da Cingoli, né molto disforme dalla parlata cingolana); i nomi di luogo, poi, frequenti nel poemetto: Statte (58), Pian d'Aiello (85), Pioricu (98), Bistoccu (58), Gallazzanu (85), Salvazzanu (85), Borghianu (147), rimuovono definitivamente ogni dubbio (58). 

La Ghiorghietta presenta davvero un interesse particolare, specialmente per il lessico dialettale che diremo arcaico, insolitamente ricco e specifico, e per la rappresentazione dei costumi del tempo (veramente numerosi e svariati) che, a parer mio, va dal 700 all'800, ma potrebbe essere anche anteriore; ed anche per i molti nomi di persone e di luoghi, che fissano il poemetto proprio nel territorio dove fu compilato. 

Non ultima ragione della importanza del poemetto, la schietta bellezza delle sue ottave.  Benché non sempre acconciamente collegate tra loro, benché non tutte ordinatamente distribuite, benché appesantite qua e là da ripetizioni e da esagerazioni (volute, queste, dall'autore, per i suoi fini), benché mancanti di quelle indicazioni che chiariscono i passaggi dal discorso diretto all' indiretto, e maculate, qua e là, da reminiscenze mitologiche (non del tutto estranee neppure alla poesia popolare), le ottave della Ghiorghietta si svolgono con tale snellezza aggraziata, con tale spontaneità, con tale ricchezza e proprietà di vocaboli, di frasi, di immagini da soddisfare il più esigente lettore. 

Chi scrive sa la sua arte, e la corrobora con dottrina derivata dai libri e dalla intima conoscenza del costume popolare; talvolta abusa perfino della sua scienza teologica, come quando sottilizza, citando i casisti, sulla moralità del ballo (ott.  10), e introduce in ottave come queste immagini letterarie, anche se camuffate di dialetto (ott.  11, 65, 69, ecc.  ).  e svariate reminiscenze di scuola e di dottrina, le classiche comprese (le Muse, ott.  37; Vulcano, Bacco ecc.  , ott.  74; Amore, ott.  55 e seg.  ; Bartolo da Sassoferrato, ott.  62, ecc.  ).  Ma sa l'arte di congegnare l'ottava, con versi pieni e schietti, con rime spontanee e non tutte agevoli, con legamenti logici stilisticamente perfetti, con finali argute e piacenti.  Se talvolta indulge al gusto d'allora, ricettando parole e allusioni volgari (es.  , le ott.  59.  78 e 157, ecc.  ) o grossolane, se non cura molto la originalità, come dimostrano l'accoglimento di ottave non sue e quell'andamento conforma alle ottave di altri scrittori compaesani, normalmente l'autore procede con padronanza dello stile e della lingua e quasi direi con sicura baldanza.  Può, pertanto, permettersi di elevarsi, qua e là, a una certa sostenutezza, che contrasta con la futilità della materia, e sfoggiare linguaggio letterario (es.  ott.  94) senza cadere nel ridicolo, anzi provocando il riso e suscitando la ilarità (un certo tono burlesco allieta il poemetto intero, come si poteva aspettare) e condire il tutto con un certo lepore, che ora è arguzia, ora pare umorismo, ora ha sentore di scherzo o di satira (come quando sceglie a mezzano d'amore un frate), e sempre riesce gradevole, anche se un pò grossolano. 

La Ghiorghietta, in conclusione, rimane documento pregevolissimo di poesia, di folklore e di dialetto (59). 

La Ghiorghietta e tutti gli altri gruppi d'ottave da noi menzionati sono strettamente legati ai componimenti analoghi della Toscana.  Con essi hanno comuni, oltre l'argomento rusticale, il fare scherzoso, il fraseggiare popolaresco e il colorito dialettale (che dialettali, in fondo, sono anche i toscani), molti motivi spiccioli, variamente sviluppati ma costantemente ripresi: le lodi sperticate alla bellezza della protagonista; l'amore ardente che questa ha suscitato; la sua amorosa crudeltà; l'offerta (talvolta ironica e scherzosa) di doni e il vanto delle risibili ricchezze del vagheggino; le lodi alla bella per attitudini particolari e specialmente per la sua graziosa valentia nel ballo; la lode di bellezze specifiche (bianca, rosata, fresca, grassa, dolce, sollazzevole, ecc.  ecc.  ), e di singole parti del corpo (occhi, fronte, petto, mani, ecc.  ); l'incontro o l'invito al pozzo; qualche fugace accenno grassoccio e qualche volgarità; la deplorazione d'amore che tutto e tutti investe e travaglia, ecc.  ecc.  Non ostante la grande analogia degli argomenti e dei motivi, le ottave marchigiane brillano per una simpatica fedeltà ai costumi del paese, che le distacca da tutte le altre e conferisce loro un interesse grande. 

 

 

9.  COMPONIMENTI DRAMMATICI (FRANCESCO  D.  BORROCCI; FRANCESCO  CESARI;  LA  RENZA, ECC.  )

 Dopo i quattro sonetti cingolani, e qualcuno dei gruppi d'ottave ora indicate (segnatamente quelle di Ottavio Ferri), i più antichi documenti dialettali conosciuti sono gli scritti di Francesco D.  Borracci da Macerata, che ebbero notevole voga alla fine del '500 e sul principio del '600. 

Se si taccia del famoso contrasto di Messer Osmano già ricordato, e delle laudi drammatiche, abbastanza numerose nel '200 e nel '300, quelli del Borrocci sono i primi componimenti veramente drammatici e teatrali. 

Questo bizzarro scombiccheratore di commedie, che meglio si chiamerebbero sposalizi o maritaggi, di prologhi, di intermezzi e di inventari di doti, non è scrittore da buttare via. 

Nella Intervenuta ridicolosa, che io pubblicai tanti anni fa (60), commedia dialettale in tre atti, più il prologo, di 2486 versicoli, in cui interloquiscono nove persone, egli si dimostra conoscitore espertissimo del dialetto, non ignaro del teatro popolareggiante allora in voga e delle  più comuni industrie drammatiche, osservatore non disprezzabile e inventore di figurette notevoli.  Dichiara di scrivere alla angolana, cioè alla maniera di Cingoli, in sdruzolo (che non si sa che cosa voglia significare), in verso sgroboloso.  Anche questa parola rimane oscura, se non vogliasi credere che il poeta chiamasse «scrupolosi» versi che corrono liberamente senza regola fissa di accento, di rima, di numero, di misura.  In realtà essi sono, la maggior parte, settenari, piani, talora tronchi, raramente sdruccioli; accolgono un discreto numero di ottonari e di novenari, ed anche di senari, quinari, quaternari e fino di ternari e binari. 

In tanta licenza si potrà dire soltanto che il Poeta, messosi sulla via di una commedia «ridicolosa», non s'è limitato alla briosa e variopinta veste dialettale, ma ha voluto, aggiungendo libertà a libertà, sbizzarrirsi in una fuga veramente sdrucciolevole di parole rimate, col solo intento di periodi numerosi, ottenuti con la fusione di versi brevi, che non toccassero la gravità dei nostri versi maggiori. 

Le rime, né astruse, né ricercate, spesso sostituite da assonanze e consonanze, spesso anche irregolari o imperfette; i periodi, procedenti alla meglio, eppure concettosi, efficaci, sebbene bislacchi e contorti.  Piuttosto ricco il vocabolario dialettale, naturale il fraseggiare all'uso popolaresco.  In complesso, gli scritti di quest'oscuro Borrocci, sostenuti da discreta arguzia, infiorati di malizie e anche di volgarità, come ora si leggono volentieri, così, allora, dovettero divertire gli ascoltatori, molto poco esigenti. 

L'opera sua principale, L'intervenuta ridicolosa, altro non è, in conclusione, che un maridazzo o mogliazzo o sposalizio, cioè una vicenda di matrimoni tra contadini.  E s'imbranca con altre analoghe del veneto, del bergamasco, del napoletano e d'altri paesi.  Essa, nel ms.  da me rintracciato nella biblioteca comunale di Serra S.  Quirico (61), porta la data del 1606; pare una prima produzione (come lascia supporre la lettera dedicatoria) e invece può ritenersi il rifacimento di altra commedia, detta pure Intervenuta, «recitata nel 1591» (62).  II Borrocci, del resto, le cui produzioni furono dette anche borrocciate, indizio sicuro di una certa popolarità, non si allontanò mai da quel suo genere preferito, così che i prologhi, gli sposalitii e gli inventari di lui, recitati in Macerata, scritti tutti nello stesso metro (63), di contenenza  analoga alle sue commedie, sembrano parti di queste o distaccatene per qualche uso speciale, o preparate per essere incorporate in future commedie.  Altrettanto può dirsi della Intervenuta pubblicata dalla Fedeli, analoga a quella pubblicata da me.  L'autore, simpatica figura di buontempone, merita ricordo nella storia della drammatica popolare del cinque e del sei cento. 

Antonio Gianandrea, studioso serio e attendibile, definì Parentado e pranzo rusticale fatto in una villa della Marca verso le montagne un componimento (64) cui dette poi (o lo trovò nel manoscritto di cui fece copia?) il titolo di canzonetta, il quale, in effetto, altro appunto non è che un parentado rusticano.  Un parentado semplice, col solito rito e le solite costumanze (qualche sonata, quattro botte - spari, molte bevute), nonché il solito pranzo pantagruelico seguito da sbornie e relative conseguenze, e conchiuso con partite a vari giuochi allora in uso: cappelletto, cioccittu e bastoncellu.  Finisce con un'allusione irriverente:

«E vu altri fetù (giovinotti)

Ve polerete 'n pu

Ra sposa a scarcabarile

De là da ru fienile»

 

A questi versicoli segue la parola Fine, sotto la quale si legge: «Fa Gaudenzio Alcioni di Montecassiano», senz'altra indicazione. 

Chi era costui? Seri eruditi marchigiani non ne sanno nulla.  Io meno che meno.  Un'osservazione, però, posso fare: che questo modesto parentado va sulle orme delle Intervenute del Borrocci, cui è somigliatissimo, per il verso e il suo andamento, per il modo del rimare, per il dialetto, per il dialogo e per tutto.  Se proprio non è del Borrocci (ma io penso che sia), sarebbe uscito dalla penna di un suo seguace o imitatore, che, essendo di Montecassiano, avrebbe usato un dialetto molto simile al angolano.  E questo seguace potrebbe essere (perchè no?) proprio Gaudenzio Alcioni.  

Del secolo XVII ci è stata conservata una prosastica commedia in tre atti, in dialetto urbinate, svolta sopra il furto di una caldaia e d'una coperta, perpetrato a danno di uno sciocco contadino.  S'intitola La Renza, è di svolgimento assai meschino.  Se ne ignora l'anno; ne è sconosciuto l'autore.  Il Conte Luigi Nardini, trovandola graziosa, l'ha rimanipolata, ammodernando il dialetto, ampliandone la scena, e dandole titolo nuovo, più rispondente all'argomento, cioè: El calde de Bièg (65).  In effetto altro non è che una delle solite satire contro il villano, con le solite figure di zingari vagabondi e ladruncoli, di contadini gretti e ignoranti, senza alcun risalto personale di caratteri.  Suo pregio massimo, il dialetto, del quale non si conosce, per il territorio urbinate, altro componimento nel secolo XVII (66). 

Intorno alla metà del secolo XVIII molti dialoghi, intermezzi ed egloghe, senza dire degli epigrammi, delle canzonette, ecc.  , scrisse l'abate Francesco Cesari, nato al Montale, nel territorio di Arcevia (7 ott.  1700) e in Arcevia morto, in età di ottanta anni ( 15 gennaio 1780), e in odore di santità, dopo avervi esercitato per oltre otto lustri il «pubblico primario magistero» (67).  Il dialetto da lui adoperato, quello della campagna arceviese, trattato con garbo, sebbene troppo spesso costretto a materia e forma repugnanti alla semplicità campagnola: contadini che discutono, in terzine dantesche (metro preferito), di accademie, di lingua latina, di morale e di filosofia; cittadini che usano, quasi per ischerso, il dialetto delle campagne.  Reminiscenze virgiliane, ovidiane e sannazzariane si alternano, stridente contrasto, con accenni e tocchi locali e paesani.  Vocaboli, frasi, detti e proverbi popolari, a ogni pie sospinto.  L'orditura delle egloghe, per lo più da Virgilio; egloghe e intermezzi hanno andamento scolastico, di famiglia, piacente a chi sappia intravvedervi la vita di una cittadina montana, notevole centro di studi, colta e gentile (68). 

Allo stesso Cesari, o a un suo imitatore, spetta anche quell'intermezzo contadinesco buffo in prosa (che forse s'intitola I lamenti dei Vecchi) pubblicato dall'Annibaldi (69), scritto in dialetto rustico arceviese. 

Intorno al 1800 cadono i due dialoghi di D.  Vittorio Tamburrini di Mogliano, ma essi, dialogati non drammatici, fanno parte per se stessi. 

 

 

10.  I DIALOGHI DI  V.  TAMBURRINI

 Scrittore di forza e di merito grande fu Vittorio Tamburrini da Mogliano, autore di due dialoghi tra cittadino e contadino, ove ha parte principale Ciafrino, specie di maschera contadinesca locale, stupendamente tratteggiata.  Le idee, le speranze, i gusti e i costumi attribuiti a Ciafrino, rozzo ma furbo quanto mai, utilitario, sornione, veemente, sono tutti dal vero, dal vivo, fedelmente e vivacemente riprodotti.  I due dialoghi, scritti forse sulla fine del sec.  XVIII, in pretta lingua contadinesca (l'interlocutore cittadino parla in italiano), snelli, serrati, zeppi di vocaboli dialettali, di accenni folklorici, di richiami a costumi, sono, invero, un documento storico, vernacolare, morale, lucidissimo e una assai notevole opera d'arte. 

Il dialogo primo prende le mosse da un ballo tenuto in casa di Ciafrino, che vuol innalzare il suo casato, dando festini sontuosi e facendo (è la sua ambizione) del proprio figlio un dottore; prosegue con la enumerazione degli episodi più notevoli della serata: la ridicola smargiassata di un ufficiale, stato prigioniero dei Turchi, i giuochi allora in uso (cappijìttu, calabraca, schioppammuru, ciuttiju), il tradizionale ballo campestre, saltarello, con le sue varie figure (spontapè, 'ntrainana, striscili, contrappassu), con le sue gare e le sue conseguenze, il getto dei confetti, qualche scappatella della figlia Giovanna (da sanare col matrimonio), di cui dà perfino l'inventario dotale (vecchio e abusato motivo comico), col nome dei singoli oggetti che lo compongono. 

Si conchiude coll'invito di Ciafrino al padrone per il ballo del giovedì grasso. 

La scappata di Giovanna levò rumore: un prete ne ricavò una satira (canzona) che mandò in bestia il bravo Ciafrino, il quale, nel preambolo al secondo dialogo, sfoga la sua ira rovente contro di lui.  Dopo 28 martelliani, riboccanti di furibonda bile, Ciafrino, in una lunga serie di ottonari accoppiati, deplora la malvagità del prete canzonatore, giustifica Giovanna, giacché l'amore brucia tutti quanti (l'inno all'amore è vivacissimo), la quale, dopo tutto, sarà sposata dal seduttore che ha già adempiute le usanze paesane del fidanzamento (pagina di folklore molto istruttiva); e conchiude il suo sfogo audacissimo con fiere minacce all' indirizzo del prete insolente. 

Sopravviene a questo punto il primo interlocutore, il cittadino, che calma Ciafrino, dimostrandogli la canzona non essere un'offesa, ma un onore, e inculcando che, in ogni caso, si deve cristianamente perdonare e lo lascia rasserenato e pacificato. 

I due dialoghi, che ne ricordano altri fra padrone e contadino, di intonazione e svolgimento analoghi, diffusi tra i popoli, alternandovisi lingua e dialetto, facendovi il primo la parte del savio (ma interessato!) moderatore, l'altro quella del semplicione (almeno in apparenza) gabbato, si staccano da tutti gli altri (siamo intorno al 1800) per merito intrinseco del poeta, che nel vecchio schema inserisce una vita nuova.  «Egli riproduce il contadino, ma non già come traducendo in vernacolo idee e passioni che siano (non so se al di sopra) certo di fuori e di lontano dalle idee, gusti, speranze, modi del vero contadino...  Il Tamburrini dal vivo li prende, e vivamente li riproduce, e rappresenta il contadino con cervello e senso e lingua sua, e, mediante fantasia naturale, sa riprodurlo anche posto di faccia a sensazione e percezione di cose per lui fuor delle ordinarie, sconosciute, incomprese forse, e pure (benché a modo di lui) sentite e notate».  «Il prete poeta nel suo tempo di felicemente regnanti accademia ed Arcadia, non fa mai del Ciafrino un pastorello quale esce fuori sempre dalle poesie del Meli e di altri; una volta sola, e breve, in mezzo al lamento del suo contadino, fa una descrizione dell'amorino con turcasso e frecce, cosa allora usitatissima». 

«Il Tamburrini, non dico, nel senso esatto di parola, precursore, ma è stato un degno antecessore, certo, del Belli».  (70) Egli, insomma, largamente esperto del dialetto moglianese non meno che di folklore e di psicologia popolare, arguto e sottile, si rivela scrittore forte e vario, capace di rendere intero il suo pensiero, che, per essere di un ecclesiastico, risulta ardito e spregiudicato. 

 

 

11.  MAGGIO RUSTICANO  IN DIALETTO DI FOSSOMBRONE  (1723)

 Questo maggio rusticano, di cui si conoscono la data ( 1723), l'autore (Lattanzio Lattanzi), il destinatario o dedicatario (conte Paolo Passionei) e lo scopo («da cantarsi per suffragio delle anime del Purgatorio»), fa parte di quei componimenti largamente conosciuti (le maggiolate) che sogliono allietare ancora i calendimaggi delle Marche e della Toscana (1).  Muovono drappelli di giovani con cembali e violini, dietro a uno che sollevi, a guisa di bandiera, un ramo frondoso, a cantare le lodi della primavera e a chiedere mance ed elemosine per le anime del Purgatorio.  Spesso in detti maggi (come, appunto, in questo e nell'altro che ricorderemo qui appresso) il sacro si mescola col profano, e le stesse allusioni sacre sono espresse in termini buffoneschi e scurrili, che rivelano l'origine profana del componimento.  In questo del Lattanzi, oltre i detti elementi, troviamo un'aggiunta che credo sopravviva (certo sopravviveva pochi anni fa) anche oggi, cioè «il ringraziamento da cantarsi nello stesso metro, dopo ottenuta la limosina».  Metro preferito, l'ottonario formante quartine, come questa, che è la prima del maggio:

«Fratei cher, passet' è Bruma

Che dal fredd ce fea treme;

Più nisciun se va a scaldè,

E 'l camin né manco fuma». 

 

12.  ALTRO  MAGGIO  RUSTICANO  IN DIALETTO  DI  FOSSOMBRONE (71)

 

Nello spirito, nello svolgimento e perfino nelle parole e nel dialetto gli somiglia un altro maggio, inedito (72), che io ritengo fossombronese e dello stesso secolo del precedente.  Dovette anch'esso essere cantato, nei giorni della pasqua, da una compagnia di canterini, chiedenti un'abbondante elemosina per le anime del Purgatorio.  Precede una descrizione della primavera, con una filza d'improperi a chi ne dice male, ma «el noster fin» dice senza tanti complimenti la brigata, «è d voidavv el brslin».  Dateci paoli, aggiungono, «en v' fet prghè».  Li chiediamo non per noi, ma per quelle anime benedette, che sono fratelli, sorelle, zii, sposi e genitori vostri, chiusi in una stanza piena di dolori, costretti a bollire  «tle stagnet Com' s' fussn i strozzafret» (strozzafrati) che sono una specie di gnocchi molto rustici; come dice il vocabolo.  E conchiudono, con un fare alla brava, e con una finale di qualche grossolano lepore:

 

«Detc l'or, detc l'argent,

Anel, vezz, lenzuol, trabacch;

Voidei giù, ampitt i sacch,

Pr' agni cosa n avrit cent;

V n ascigurn ql'anìm bel:

Avrit pl' acqua 'l muscatel»

 

II sacro e il profano si mescolano anche qui per formare un intruglio ibrido, non sgradito alle folle, perché consuetudinario, e perché accompagnato da canti e da smorfie che, al pari delle facezie ond'è infiorato, suscitano riso e allegria. 

Questi due maggi hanno stretta somiglianza con le pasquelle, tuttora in uso nelle Marche, delle quali toccheremo più innanzi. 

  

 

13.  RIME  NEI DIALETTI DI  CINGOLI E DI STAFFOLO

 Ci riportano in mezzo alle più meschine contese di campanile alcune rime del sec.  XVIII, scritte, forse, da penne diverse, quando Cingoli fu dichiarata città, e Staffolo e Osimo se ne morsero le dita, con cruccio profondo (73).  Delle cerimonie solennissime allora celebrate (grande apparato, con archi trionfali ecc.  , concorso di autorità e di foltissimo popolo, getto di danari, sparo di mortaretti, ecc.  ), per la elevazione di Cingoli e per 1'ingresso di Monsignor Bertacchi, un contadino parla con entusiasmo a un suo compare, che gli tiene bordone e ripete press a poco le stesse cose.  Ma essi, forse di Osimo, conchiudono il loro discorso con la consolazione dei dannati, quasi augurando che Cingoli si abbia a pentire dell'onore  ricevuto:

«Stammoci quiti, senza di  coelli:

St'altr'anno senterimo re gabelli!». 

 

Dello stesso argomento si occupano un altro sonetto in «dialetto staffolà», favorevole a Cingoli e avverso ad Osimo; un dialogo fra due carbonari, contenuto in due ottave, ed anche altri due sonetti, sullo «stesso soggetto».  Un ultimo sonetto, sebbene intitolato «Nell'elezione del vescovo d'Osimo e Cingoli» tratta, in fondo, dello stesso argomento, che appassionò, evidentemente, gli abitanti delle due città e dei paesi finitimi, e si conchiude con questo distico spavaldo:

«Ognunu a Cingu conviè che non guarde,

Che ha da fa' con troppe teste gagliarde»

 

Chissà quante altre rime corsero allora per il memorando avvenimento: tutte povere rime, però! benché non prive d'importanza come segno di tempi!

 

 

14.  RIME DI G.  B.  PASSERI

 Rime modeste (74), tre in tutto, in una specie di semidialetto che non rivelano particolari abilità poetiche nel dottissimo autore. 

L'aurora boreale del 4 febbraio 1710, osservata dal ghetto di Pesaro, dà luogo alle più strambe congetture sulla sua origine, immaginate dal poeta per beffeggiare gli ebrei: sono fuochi di artificio, sono nembi di lucciole che vanno a spasso, sono fumi di zolfo erompenti dalla terra, è salnitro che s'accende in aria, è l'aria congelata che fa specchio al sole, sono le sterminate selve dell' India che bruciano (il puzzo di bruciato che è nell'aria lo conferma!), ecc.  Il pregio del componimento è solo in queste trovate, espresse in quartine di senari, piuttosto pedestri. 

Con 38 strofe di metro identico alle precedenti, viene deriso il Pianto di Scialon per la partenza dal ghetto della Signora Iuditt, che si converte in altra satira contro gli ebrei, rappresentati, anche qui, come sciocchi o ignoranti, anche qui con l'uso di qualche vocabolo (non so quanto storpiato e malconcio) di ebraica provenienza. 

Il sonetto con cui un prete si lamenta per i salami che gli hanno rubati, - Per dicolena, me ne voglio arfere, - si chiude con un proposito di allegra vendetta:

E girò a manechere via via

Nton chesa de que' furbi, insino a un'ogna. 

E' son sut gatt, et i sarò n arpia. 

 

Un sonetto in lingua sullo stesso argomento esprime lo sgomento del prete allorché apprese il sacrilego furto. 

 

 

15.  RIME  DI  FRANCESCO  SAVERIO  BERNETTI  (75)

Scrittore dialettale della fine del 700, del quale si conoscono vari componimenti, è Francesco Saverio Bernetti, canonico fermano, di antica e nobile famiglia, rettore del Seminario, in relazione col Porta, uomo d'ingegno e di dottrina, i cui Scherzi poetici furono pubblicati nel 1858, in occasione di nozze (egli era morto nel 1802). 

Si sente subito il poeta di scuola, che usa metri letterari (sonetti caudati, terzine dantesche, sestine di ottonari), che incensa e adula come un arcade o un abate, che celebra vescovi promossi, predicatori eloquenti, giovani laureati, proprio come portava la moda, che, non ostante la bufera rivoluzionaria, rimase, come molti altri, indifferente a covare la tradizione arcadica.  Nei metri classici il Bernetti, di famiglia comitale, di educazione aristocratica, infuse materia popolaresca sotto forma dialettale, ma non riuscì a mutarne lo spirito: mutò solo la parola.  La frase è precisa, i vocaboli sono propri, vi sprizza l'arguzia, la stessa fonetica è rispettata; ciò non di meno, questi suoi scherzi sembrano traduzioni dalla lingua piuttosto che componimenti vernacoli, perché dettati da un gentiluomo abituato agli inchini e ai madrigali.  Il dialettologo vi spigola soddisfatto, ma il lettore moderno vi sente odore di scuola.  Riportati al loro tempo, possono vantare pregio di originalità e magistero d'arte non comune. 

 

 

16.  IL  TESTAMENTO  DI CECCHINO  (di G.  B.  CORRIERI)

 Questo componimento, di 73 quartine in ottonari rimati a coppie, merita un breve commento (75b). 

Rientra nella serie interminabile delle satire contro il villano, e più precisamente di quelle forme particolari che furono appunto i testamenti del villano, così abbondanti dal sec.  XVI in poi.  Si ha ragione di credere che lo scrivesse Giambattista Corrieri (76), «forsempronese spirito bizzarro», falegname, tra la fine del sec.  XVIII e il principio del XIX; certo fu stampato a Fano nel  1819. 

Il titolo (Documenti, testamento e codicillo del celebre Cecchino marchigiano contadino di Fossombrone), l'argomento tutto contadinesco, ma con qualche allusione ai principi della rivoluzione francese (77), e lo svolgimento ricco di arguzia e di trovate, rivelano la mano di scrittore non incolto né nuovo al comporre.  Non muta il mio avviso la incerta ed errata grafia della stampa, perché a questa si dovette arrivare, quando il componimento era passato per molte bocche e per molte penne popolane ed ignare. 

Come che le cose stiano, rimane fermo il fatto che questo testamento è opera d'uomo assai piacevole, ricco d'esperienza e di lepore, che alle idee correnti tra i padroni, se non anche fra i contadini, dà l'atteggiamento più comico, e sa guadagnarsi talmente la simpatia dei lettori, che, s'è vero quanto fu scritto da un uomo di senno, il Rondini, non v'era persona nel territorio di Fossombrone e anche di Fano e di Urbino che allora (1895) non avesse nella memoria il testamento divenuto popolare (78). 

 

 

17.  I PRECETTI DEL VECCHIO VILLANO

 Al testamento di Cecchino doveva somigliare molto, se ben vedo, per il carattere burlescamente didascalico, un certo componimento, del sec.  XVIII, nel quale un vecchio villano faceva lezione di galateo ai suoi ragazzi, ai quali dava anche questi consigli, i soli che io conosca:

«Ascoltatm e stat asì tuan (sic)

Ch'i v' voj dì qualcosa d' buan»;

 

e a proposito dei moccichini insegnava:

«Dit chi v' parr che fagga mej

Quei ch' s'i arpónen buàn e bej,

O chi i tien p' na purcaria

E s'à soffia e i butta via?»

 

Peccato che questo componimento sia andato perduto: se ne conoscono solo questi versi serbati nella tenace memoria del ch.  prof.  Gaetano Gigli che lo aveva letto in gioventù (79). 

 

 

18.  ALTRE  RIME

 Delle altre rime menzionate basterà dire che il sonetto del Fiori depreca i danni e le violenze della rivoluzione francese (80); che i sonetti del Cosimi sono in esaltazione di un concerto eseguito dal sig.  Lesti di Ancona (1789), e di un discorso fatto dal P.  G.  Loreti, m.  e.  (1789) (81); che i quattro sonetti in dialetto di Fermo sono in onore di S.  Luigi Gonzaga; che il sonetto di Lapedona fu scritto da un anonimo (1805); che delle poesie di Antonio Fiori di Massignano, appartenente al sec.  XIX più che al XVIII (n.  16 giugno 1776, n.  11 die.  1849), che fu cancelliere governativo a Saludecchio (sic) e, ritornato in patria,ebbe la carica di  priore comunale, io conosco solo quel Dialogo fra due contadini (1803),  in onore del Cardinale Cesare Brancadoro, pubblicato nel Birichino (an.  III, n.  21, 10 ottobre 1908), dove è asserito che egli compose «molte altre poesie, ma il tempo e la  noncuranza le hanno perdute» (82). 

 

 

-------------------------------------------------------------

NOTE

(1) Della Poesia dialettale marchigiana si occupò, nel 1901, il Dr. G. Spadoni, con se articoli stampati nella 'Provincia Maceratese (luglio, agosto e ottobre).

(2) Di questi sonetti e di tutti i componimenti qui appresso indicati si parla in questo stesso capitolo II.

(3) Cfr. G. MALAGÒLI, 'Dialettologia marchigiana, in Le Marche, rivista storica bimestrale, anno IX (1909), p. 226 segg., e più specialmente, p. 245 segg.

(4) Se ne parlerà più avanti.

(5) Cfr. G. CROCIONI, Le accademie in Arcevia (sec. XVI - XIX) e Rime dialettali arceviesi (1733-1900) con glossario. Fano, A. Montanari, 1904, specialmente alle pp. XXV - XXVI. Estratto da Le Marche ora cit., an. III (1903).

(6) A. Leopardi (Sub tegmine fagi, pag. 12) gli manda « certi versettucci » con un sonetto in dialetto, ove loda i molti versi di lui « tutta robba purassà ». Stretti rapporti corsero fra i due, che gareggiarono con composizioni varie, specie con le pasquelle, come vedremo.

(7) Ne accennai nelle mie Marche, cap.  I, pp.  I segg.  , cap.  II, p.  51 segg.  e, più tardi, nel \ XVII (cultura march, nel sec.  XIV) del mio saggio su Una canzone marchigiana ricordata da Dante in Giom.  st.  d.  leti.  «.  , Mhcell.  dantesca (suppl.  n.  19-21). 

(8)  Cfr.  L, COLINI - BALDESCHI, in Studi marchigiani, I - II, pp.  451 - 473 (Macerata, Un.  catt.  tipogr.  ,  1907). 

(9) D.  SPADONI, in Esposizione marchig.  , 1 marzo 1905, n.  7.  Vi aggiunse, a riscontro, alcuni versi che si cantano ancora nel paese di Montecassiano (prov.  di Macerata), l'ultima sera di carnevale. 

(10)  G.  GRIMALDI, in Le Marche illustrate ecc.  del 1905, e in estratto.  Fano, A.  Montanari, ed.  , 1905. 

(11) In  Una canzone marchigiana ecc.  ora cit. 

(12)  Cfr.  le mie Marche, passim; SILVIA VENEZIANI, Olimpo da Sassoferrato (Poesia popolaresca marchigiana nel sec.  XVI).  Bologna.  Zanichelli, MDMXXI, pp.  149, XLV1II; G.  VlTALETTI, Baldassarre Olimpo degli Alessandri da Sassoferrato, Assisi, tip.  Metastasio, 1915; ID.  , I sermoni da morto di B.  O.  da S.  , in Fanfulla d.  Domenica, n.  20 del 1915; ID.  , La Camilla di B.  O.  d.  A.  d.  S.  , in Fanfulla d.  D.  , n.  30-31 del 1915; ID.  , L' autore del «Grillo medico», poemetto popolare del sec.  XVI, in Archivium romanicum, Vol.  IV, n.  2, aprile - giugno  1920. 

(13)  Ricopiate da A.  Gianandrea, non so se da copia o da originale.  Ne ho copia anch'io. 

 (13)  Nella Oliveriana di Pesaro, come m'informa il ch.  prof.  Ettore Viterbo.  Una ha per titolo: Lamentazione di Scialen Fossombrone ebreo nella partenza della Signora Giuditta Pergola che il medesimo sperava d'ottenere per isposa.  Sono quartine.  Com.  : Alza li strid tutto lo Ghett...  La seconda: L'aurora boreale della sera del 4 febbraio 1710 osservata nel ghetto di Pesaro.  In quartine, Com.  : Signori Iuditt correte all'intani...  La terza: Lamento del prete per salami rubati.  Sonetto.  Com.  : "Perdicolena me ne Vogl'arfere.  Li ha ricopiati per me il Sig.  Salvatore Renzini. 

(14) Me ne dà notizia il mio caro amico prof.  Gaetano Gigli.  «Era, egli mi scrive, un bel ms.  settecentesco, di casa mia», portato a Roma e poi smarrito. 

(15)  G.  LUCARONI e N.  RIPAMONTI, Mogliano.  Leggenda, storia, dialetto; Monte-giorgio, tip.  C.  Zizzini,  1926, pp.  188-190. 

(16) Posseduti dal Dott.  Giovanni Spadoni.  Forse del principio del sec.  XIX. 

(17) A me li dette il mio venerato Maestro Ernesto Monaci, cui li aveva consegnati Salomone Morpurgo, che li aveva trascritti, senza la precisa indicazione del catalogo. 

(18)  Ecco il titolo: Saggio di mattinate nel parlare di Cingoli nelle Marche provincia di Macerata edito con note del MARCHESE FILIPPO RAFFAELLI bibliotecario della comunale di Fermo.  In Fano, pei tipi di V.  Pasquali - Succ.  Lana.  Anno M.  DCCC.  LXXX.  Per nozze Puccetti - Castiglioni.  Pp.  32.  Sono queste le prime due mattinate. 

(19) "Uerza e quarta mattinata nel parlare di Cingoli nelle Marche provincia di Macerata edite con note del MARCH.  FILIPPO RAFFAELLI bibliotecario della comunale di Fermo.  In Fano, pei tipi di V.  Pasquali.  Succ.  Lana.  Anno M.  DCCC.  LXXXI1.  Pp.  20.  Per nozze Trevisani - Baccili. 

(20)  Si trovano ora fra le carte del Raffaelli conservate in Recanati, nella biblioteca marchigiana del P.  Clemente Benedettucci, che assai gentilmente le ha messe a mia disposizione, del che vivamente lo ringrazio.  Due sono i manoscritti del Raffaelli: il primo, un quadernetto scolastico che comprende le 4 mattinate edite e la 5a inedita (lo indicheremo con A); il secondo (che chiameremo B), in carta di Fabriano (vi si legge in testa, nel cartone, P.  Miliani - Fabriano) che comprende, oltre le 4 edite, altre tre mattinate (V, VI, VII).  In A, alla V mattinata seguono alcuni stornelli, tutti moderni e vivi tra il popolo.  Sul vero numero di queste mattinate è da vedere la nota 4 a pag.  20. 

(21) Ottave alla Cingulana Ridicolose et Belle fatte da un Cingolano (sono 23).  Edite da Severino Ferrari, in Archivio storico per le Marche e per l'Umbria, Vol.  IV, fase.  XIII-XIV, (Foligno, 1888), p.  339 segg. 

(22) Ivi, pag.  349 segg.  (Sono 26 ottave). 

(23) Un foglio, in carattere del 6 - 700, conservato fra le ricordate carte del Raffaelli; piegato a modo di lettera, porta, al posto dell' indirizzo, alcune lettere maiuscole iniziali (R.  M.  G.  ecc.  ) delle quali non indovino il significato.  Si compone di 9 ottave, che corrispondono, precisamente, la 1a alla 3a della ma».  IV; la 2a alla 4a della m.  IV; la 3a alla 5a e.  s.  ; la 4a alla 2a, e.  s.  ; la 5a alla 6a, e.  s.  ; la 6a alla 5a della I; le 7a all' 8a della IV; l'8a alla 7a della I; la 9 alla 7a della V.  Questa cantata, come si vede, non ha nulla di originale. 

(24) Il ms.  è conservato in Camerino, presso il geometra Manfredo Mariani, figlio di Mariano Mariani, uomo coltissimo, erudito grandemente stimato, che trascrisse t commentò dettagliatamente le 169 ottave della Ghiorghietta, illustrando il dialetto, i costumi, gli accenni locali, ecc.  Mi assicurano che il commento è «assai pregevole per assennate osservazioni di carattere storico, sociale e filologico» (prof.  Mario Mariani), ond' io auguro che venga presto integralmente pubblicato, nell'interesse degli studi marchigiani e italiani.  11 poemetto è scritto in dialetto rustico camerinese.  Ringrazio qui, più vivamente che posso, il prof.  cav.  Mario Mariani, che mi ha fornite informazioni con grande premura e diligenza; e il geom.  Manfredo Mariani, che trascrisse per me, con particolare attenzione, le 169 ottave della Ghiorghietta: favore invero segnalatissimo. 

(25)  Se ne accorse lo stesso Ferrari, rilevando i riscontri, nelle note al testo; egli, però, intendeva la cosa diversamente, come vedremo. 

(26) Tutte quelle delle mattinate I, II, IV; tutte, meno cinque, quelle della IH, della IV e della V; una della VII.  Rilevo qui che, mentre il Raffaelli dichiarava di aver «prescelte due delle vaghissime sei mattinate», nei suoi ms.  se ne trovano sette. 

(27)  Cfr.  la nota 6 a pag.  17. 

(28) Ne ha, tuttavia, più d'uno, che meriterebbe illustrazione.  L'ultimo verso di F^ è identica ali ultimo dell'ottava VII di R2 («Te porto penta me la pertecaja»).  E taccio di altri riscontri. 

(29)  Si possono vedere in Poesie pastorali e rusticali raccolte ed illustrale con note dal Dott.  Giulio Ferrano; Milano, 1808 (Classici italiani). 

(30) Le ottave non derivate dai testi conosciuti sarebbero 129; ma chi può dire che 1 autore non ne derivasse oltre da altri scrittori? Ometto per brevità i riscontri singoli delle 40 ottave, ma io li ho accertati tutti uno per uno. 

(31)  Di ottave analoghe, ma in italiano, molte ne scrisse Baldassarre Olimpo, del quale è notissima la Pastorella, rifatta in ottave e inserita nel suo Linguaccio (1523).  Cfr.  le mie Jilarche, pp.  148- 150.  Benché redatte in italiano, contengono molti vocaboli dialettali, e sono del tenore delle nostre. 

(32) P.  5. 

(33)  Op.  cit.  , P.  340. 

(34)  11 M onaci, il D'Ancona, il Guasti, il Gianandrea, ecc.  Vedasi la p.  6 del 2° opuscolo.  Dovette dubitarne il Luzio. 

(35)  Ne accenno alcuni: Rèccomete sull'usciu, o scbiantacore (matt.  2a, ott.  Ia); vù che non sappia che più non me oli (ivi, 2a ott.  ); o fresca più che l'acqua de ra fonie (matt.  4a, ott.  1a); ecc. 

(36) Se ne incontrano ad ogni pie sospinto: corata cuore, tamantu tanto, proanciuta sostenuta (?), nutricata nutrita, ceruta di brutta cera, balestra, ianata e ianaianata ora, peo piede, Deo dio, quasimente quasi, laimentà lamentare, coli cavoli, troentare trovare, manecare e molte altre.  A giustificare la loro presenza in canti popolari odierni non può bastare la sopravvivenza in essi di qualche raro arcaismo riconosciuto e ammesso  da tutti. 

(37) Nella sola matt.  4a si accenna alla saia turchina (11), al ceterone (HI), al ritratto della bella dipinto «me ra pertecaglia»  (VII), alla balestra,  oggetti e costumanze uscite all'uso. 

(38) Con quelle varietà che si rivelano, appunto, Ira i due mss.  : scambi di vocaboli, variazioni fonetiche, rifacimenti di versi, spostamenti di ottave, ecc. 

(39) Di questa corrispondenza toccheremo in seguito; qui ci basta rilevare la non corrispondenza delle mattinate con F2, il che dimostra che F1 e F2 ebbero diversa provenenza e furono avvicinate nel ms.  per caso o per sola affinità letteraria.  Le mattinate possono diventare 8, se si pensa che la V del ms.  A è tutto diversa dalla V del ms.  B; onde esse risultano due e non una; possono tornare a 7, se si considera che tutte le ottave della V in A si ritrovano nella VII di B.  Cfr.  n.  3  della pag.  17. 

(40) Quale delle due spiegazioni sia la vera non è facile dire.  Sarebbe assai interessante vedere le lettere che al Raffaelli mandarono, dopo la prima " pubblicazione, il D'Ancona, il Monaci, il Guasti, il Gianandrea ed altri dotti.  Che nessuno intravvedesse l'antichità del testo? A p.  5  del primo opuscolo il Raffaelli scrive che insieme alle mattinate raccolse dai contadini di Cingoli anche «vari stornelli e rispetti».  Questi, che si trovano nel ms.  A, come ho scritto nella nota 3, a p.  17, sono tutti vivi, onde non credo abbiano alcun rapporto con le Mattinate.  Perchè questo ravvicinamento di ottave antiche con stornelli moderni? Tra le carte del Raffaelli si trovano anche altri canti popolari trascritti alla rinfusa, con qualche richiamo a canti editi da altri e con qualche riscontro interno. 

(41) Alcune ottave della Ghiorghietta, pur provenendo evidentemente da altre di R, sono veri e propri rifacimenti (es.  le ott.  122 e 123, che richiamano rispettivamente la 4a e la 5a della Mattin VI; la 153, ecc.  ; o fondono in una due ottave (es.  le 125, 151, 152, 168, che richiamano, rispettivamente, le ottave 6 della Matt.  Ili e 6 della V; la 4 della Matt.  I e 7 della VI; le 2 della V e 5 della VI).  Se ne può conchiudere che nel campo di siffatte ottave ognuno poteva regolarsi con piena libertà, copiando, rifacendo, riordinando, fondendo le ottave altrui, come meglio credeva. 

(42)  cfr.  pag.  14. 

(43) cfr.  pag.  15-16. 

(44) cfr.  pag.  28. 

(45) Op.  cit.  , pag.  341. 

(46)  Tuttavia si può fare qualche osservazione.  Ad es.  , nell'ottava X di F2 si legge: «...  se saria mosso un limitale» cioè un limitare, una soglia, una pietra; e nell'ottava XX di F' si legge: «Se serria amorbidito un limitale, Diporta, di fenestra et di buttìa»; nella ott.  XXI di FI la donna è chiamata «manzotta bella», come nella ott.  I di F2; e si potrebbero rilevare anche altri riscontri. 

(47)  Debbo queste indicazioni al Dott.  Giovanni Spadoni che le ricavò dai Cenni storici sulla città di.  Macerata, pubblicati da PIETRO PAGNANELLI (in Giornale per l'anno bimestrale 1860, stampato in Macerata presso il tip.  Bianchini nel 1859) che racimolò le notizie nell'archivio della famiglia Ferri ora estinta. 

(48)  Rimetterci «l'onguentu e re pezze» = rimetterci il ranno e il sapone; scorticarsi - farsi un abrasione, o sim.  ; la truffa è una specie di borraccia, tuttora in grande uso nelle Marche. 

(49) v.  pag.  17. 

(50) Fu rilevata già la corrispondenza di questi  due versi della Ia ottava:
«Sì che, se, bella, non m'agiuti un poco // sto me la brasia e non troento loco»
con questi altri dell'Ariosto (I, 13)
«Sì come quel ch' ha nel cor tanto foco  // che tutto n'arde e non ritrova loco»,
 
ma vi è abbondanza di altri indizi letterati. 

51) Nella stanza V si menziona la forza d'Orlando; nell'VlII si allude al detto popolare ancora non è notte a Cingoli; nella IX l'innamorato si dichiara servo dell'amata; nella XIV si trova la frase mente per la gola; nella XX si leggono, in un verso, le note musicali («di sonò mi, fa,  sol, mi,  re,  la, Jone»), ecc. 

(52) Ne fece menzione per primo il prof.  Aristide Conti nella sua guida di Camerino (Camerino e i suoi dintorni).  Dopo di lui lo menzionò G.  Spadoni in La Provincia maceratese, anno VII (1901), n.  369.  Il ms.  originale (?) è conservato dal prof.  Mario Mariani di Camerino, come egli stesso con la sua consueta gentilezza m'informa.  Vedi la n.  1 a pag.  18. 

(53)  Qualche accenno qua e là ha fatto pensare che si trattasse di una lavandaia, ma non risulta con certezza.  Tuttavia si vedano le ottave. 

(54)  lotto = ghiotto.  È chiara l'allusione satirica.  Vedansi le ott.  90, 96.  Dalla  100 ricava che lotto o Iuttu è soprannome; il nome vero è frate Andrea. 

(55)  Non è improbabile che altre ottave provengano da altri scrittori, forse anche toscan come mi fa sospettare un accenno («quante grazie [crazie] de zecca ha lo Grannuca ott.  97) che non era né necessario né opportuno. 

(56) Si potrebbe tuttavia trovare un riscontro con l'ott.  9, in cui si leggono questi versi:
«E non sapete che lu rum è fissu //  e questa notte se porria cascare?»,
dove l'enigmatico ruru forse altro non è che scuru. 

(57)  Il ch.  prof.  Mario Mariani, più volte ricordato, mi fa sapere che nella sua famiglia, secondo un'antica tradizione, si riteneva che l'autore fosse un frate francescano del convento di Sperimento. 

(58)  Bisogna dire, tuttavia, che alla ottava 151 è nominato Monteniru che si legge anche nelle ottave del Raffaelli (matt.  1, ott.  4a), il quale assicura che si tratta di Montenero «monte presso Cingoli ricoperto di folta boscaglia».  Che vi sia un Montenero anche nel camerinese?

(59) Meriterebbero uno studio particolare la introduzione nel poemetto delle ottave di altro autore, il loro adattamento, le modificazioni cui sono state sottoposte (cambio di vocaboli e di fonemi, rifacimento, alterarione e sostituzione di versi e di rime, ecc.  ), ed anche la ricerca in altri testi di motivi e di ottave che l'autore avesse utilizzati, ma non è questo il luogo. 

(60) L'Intervenuta ridicolosa.  Commedia in dialetto di Cingoli (Macerata) (1606), pubblicata a cura di G.  CROCIONI, in Studi di filologia romanza, Vol.  IX, fase.  26 (1903).  Nel 1907 A.  Fedeli pubbl icò Le intervenute di Francesco Borrocci, commediografo dialettale marchigiano del tee.  XVI (Città di Castello, S.  Lapi, 1907), delle quali qui appretto. 

(61)  Ora che la biblioteca è stata venduta (!!...  ) non so dove il ms.  sia andato a finire. 

(62)  A.  Fedeli, oP.  cit.  , p.  10

(63)  Sono riportati nelle appendici al libro della Fedeli. 

(64) Ne serbo copia derivata da quella del Gianandrea,  esposta alla Mostra di Macerata (1905),

(65)  Del rifacimento riparleremo nel cap.  IV. 

66)  Il ms.  della Renza si conserva in Urbino, nel convento dei PP.  Conventuali di S.  Francesco.  Il rifacimento del Nardini è nel linguaggio «che nelle campagne si parla presentemente», come lo stesso mio amico, ora morto, mi scrisse. 

(67)  G.  CROCIONI, Le accademie in Arcevia,  p.  XIX. 

(68) I testi sono riportati nelle stesse Accademie ora cit. 

(69)  Porta la data del 1787 (il Cesari era morto nel 1780); ma come il dialetto arceviese e 1 appartenere il ms.  alla biblioteca mannelliana (dai conti Mannelli) compresa nella pianettiana, tutt e due di provenienza arceviese, ne rendono certa l'appartenenza ad Arcevia, così la somma affinità con gli altri scritti del Cesari rendono probabile che fosse scritto da lui, ricopiato forse da altri dopo la sua morte.  Fu pubblicato nella Lucerna,  fase.  IX - X, ottobre 1926, Ancona. 

(70) Le parole qui riportate tra virgolette sono di Vincenzo Carlo Ripamonti, di Mogliano, che i due dialoghi, accuratamente trascritti, espose alla Mostra folklorico - dialettale di Macerata (1905), e donò a me la copia che naturalmente conservo.  Credo che i due dialoghi siano inediti, meno quei pochi versi che io riportai nel mio studio (G.  CROCIONI, La poesia dialettale e il Risorgimento nelle Marche, in Atti e Memorie della R.  Dep.  di st.  patria per le Marche, Serie IV, Vol.  V, fase.  I (1927), p.  9) che d'ora innanzi citerò con la sola parola Risorgimento e la pag.  dell'estratto.  Ignoro dove si trovi l'originale. 

(71)  Pubblicato nel volumetto: Nozze Hermanin - Hausman (XX gennaio MDCCCCIIII), Perugia, Unione tip.  coop.  , pp.  19-22. 

(72)  Ne ho copia presso di me. 

 (73) Anche di queste ho copia. 

 (74) Cfr.  p.  15 «la nota  1.  Per notizie sul dottissimo autore, cfr.  le mie JHCarche, PP.  228, 276, 475. 

(75)  Luigi Vinci, nella premessa ai Versi in dialetto fermano di Antonio Curi - Colvanni (Fermo, Stab.  coop.  tipografico, 1926, p.  12) assicura che questi scrisse una biografia, «premiata al concorso Evangelista del 1906, del canonico Francesco Saverio Bernetti, vissuto nel sec.  XVIII, uomo come lui pieno di bontà e di arguzia e amore alle lettere, di cui si leggono versi nel linguaggio dei contadini fermani», ma io non ne ho altra notizia.  Ricordo solo quell'articoletto che il C.  C.  pubblicò nel n.  25  deWEsposiz.  marchig.  (11 novembre 1905)

(75b) Fu pubblicato la prima volta nel 1819: 'Documenti, testamento e codicillo del celebre Cecchino marcbegiano contadino di Fossombrone.  In Fano, 1819.  Per Pietro Burotti.  Con permesso.  Ne possiede copia il mio amico Dott.  Giovanni Spadoni.  Lo ripubblicò Druso Rondini, in Canti popolari marchigiani raccolti a Fossombrone.  Pesaro, tip.  A.  Nobili, 1895, pp.  255 - 290, con avvertenza, note e varianti. 

(76) RONDINI, ivi, p.  257. 
(77)  cfr.  il mio cit.  Risorgimento, p.  8.
(78)  Op.  cit.  , p.  258. 

(79)  Cfr.  n.  2 a p.  15. 
(80)  Cfr.  G.  CROCIONI, Risorgimento, p.  7. 
(81)  Vedasi qui avanti la Biobibliografia, e a p.  15, n.  3. 

(82) Se qualche amico della nostra poesia dialettale riuscisse a scovarle, dovrebbe affidarle o farle affidare a qualche pubblico istituto, e preferibilmente a una biblioteca.  Questa raccomandazione valga per tante altre rime dialettali rimaste inedite,  disperse e sconosciute.