Maestro Carlo CECI |
Itinerario di un artista, un maestro, un uomo
di Franco Mazzini
La prima formazione alla «Scuola del Libro», a Urtino (1932-1937)
«... Voglio dire di Carlo Ceci quando per la prima volta lo vidi, di fronte ai vecchi banchi tinti di nero; in un angoletto al di sotto di uno dei finestroni dell'aula, ragazzino in calzoni corti e con un visetto tondo. Proveniva da Chiaravalle in provincia di Ancona, dove era nato nel 1917, e di fronte ai compagni della classe in cui era stato iscritto, appariva - ed era di fatto - il più giovane; un ragazzino che però, fin dai primi giorni, diede prova di così amorosa cura nel disegnare a punta di matita anche i più lievi passaggi chiaroscurali, da attrarre l'attenzione degli insegnanti, cioè di Ettore Di Giorgio (che presiedeva la cattedra di Litografia e dirigeva l'Istituto) e la mia per la stupìta ingenuità che si esprimeva dalle "cose" da lui ritratte, e dai suoi primi "disegni a memoria" (tale era allora nella scuola la intitolazione di quell'insegnamento che si considerava l'approccio a qualità essenziali per un "illustratore"). Ingenuamente definito e nello stesso tempo "sottile" con i trapassi delle forme fin quasi a svanire sul bianco del foglio, era allora il disegno uscito dalla sua giovanissima mano (a volte si sarebbe detto che toccasse una leggera punta scherzosa, ma la si poteva attribuire allo stesso candore della mano)»[i].
Questo brano, riportato da uno degli ultimi scritti di Francesco Carnevali - il quale, a distanza di tanti anni ricorda tuttavia con lucidissima memoria l'avvento in Urbino del «ragazzino» di Chiaravalle nell'ottobre del 1932 - non costituisce soltanto una testimonianza autentica, umana e storica, ma altresì un documento critico; in quanto, rievocando i primi passi dello scolaro, ne delinea nitidamente l'inclinazione subito manifesta e peculiare, trasparente dalla forma espressiva più semplice e immediata, il disegno a punta di matita, candido epperò con qualche venatura «scherzosa», avvisaglia dell'arguzia del futuro illustratore, e forse anche di quella vaga ironia che distinguerà il temperamento umano dell'artista. E nessuno meglio del Carnevali poteva saperlo perché, allora, nel primo triennio scolastico, gli fu maestro di Disegno dal vero e di Illustrazione, mentre il direttore di Giorgio gli fu insegnante di Litografia, colui che lo iniziò ai segreti della tecnica. E questa, fra le tre tecniche incisorie, era di fatto la più congeniale alle inclinazioni del giovane: anzitutto la litografia tradizionale, a matita su pietra granita, suscettibile di infinite gamme chiaroscurali, dal bianco ai toni argentei ed ai neri più fondi e vellutati; ma anche quella «a graffito» e quella ad incisione, che consentono in diverso modo finezza e nitore di segno senza escludere possibilità di conseguire, con appropriato impiego del tratteggio, effetti di delicata sfumatura.
L'«amorosa cura», la delicatezza dei trapassi chiaroscurali, la «leggera punta scherzosa», il «candore della mano»: insomma, il Carnevali aveva già qualificato un talento e una personalità sia pure ancora acerbi, forse non senza la complicità di un'istintiva simpatia, per via di certa «straordinaria affinità» dallo stesso Ceci oggi riconosciuta [ii].
Nel 1936 il giovane studente del 1° anno di Perfezionamento è presente con due tavole fuori testo in «L'Eroica», che pubblica una scelta di ventidue incisioni dei maestri dell'Istituto del Libro e di alcuni scolari eccellenti. Sono due illustrazioni per una storia da «Le Mille e una notte» (cat. 1), litografie eseguite a graffito. Nel figurare in negativo, simile alla xilografia - bianco e nero - la sensibilità di Ceci si esprime nella raffinatezza del segno sottile e cristallino, efficacemente graduato nella resa dei fiabeschi effetti notturni [iii]. Da notare, che, fra i maestri (nella rivista) figurava, con una litografia, anche Mario Delitala, forte e complessa personalità di artista che, dal '34, aveva preso il posto del di Giorgio [iv]. Le qualità dell'allievo del Carnevali si manifestano, l'anno dopo (1937) nei due acquerelli per la «Tempesta» di Shakespeare (cat. 6) e più ancora nel Girotondo (cat. 7), dove, alla vivacità dei colori, al disegno pungente delle figurine - riprese a penna con inchiostri colorati - si contrappone la foschia dello sfondo collinoso incappucciato da nuvole vaporose: un timido compiacimento di gusto pittorico. In quello stesso anno dell'abilitazione all'insegnamento della Litografia, Ceci offre svariati saggi di tecnica: le due illustrazioni pirandelliane (cat. 2-3) ne sono prova. Il disegno di contorno, sempre arguto quanto occorre per adeguarsi al testo letterario, è inciso nella pietra con diamantino nitore: certe parti colorate sono invece affidate al delicato tratteggio, a matita sulla pietra granita. Ma è nelle otto litografie a colori per le novelle del Fanciulli che egli offre testimonianza del grado di maturità artistica e tecnica raggiunto, in altre parole, delle sue doti di illustratore e di litografo. Le otto novelle sono riunite in un volume - che prende nome dalla prima, «Le foglie d'Oro» - del quale Ceci ha curato la veste editoriale e sorvegliata la stampa, come recita la nota nell'occhiello del risguardo. È una delle pubblicazioni in tiratura numerata che hanno contribuito a distinguere l'attività dell'Istituto del Libro di Urbino. Due anni prima, nel '35, era uscito «Apina», una fiaba di Anatole France illustrata da litografie dello stesso Carnevali [v] . Un raffronto è d'obbligo, anche per mettere a registro critico una situazione debitoria dell'allievo scaduta a luogo comune. La discendenza — palese, ad esempio, in certe tipiche sigle ondose dell'elemento vegetale - è innegabile; inoltre, sebbene meno ponderabile, affine è il codice narrativo, come l'impaginazione, peraltro tipica della «scuola». Ma confrontando le tavole di «Apina» con quella «narrativa composizione adagiata sulle pagine accanto al testo stampato» (Carnevali) - in «Le Foglie d'Oro» - non potrà sfuggire un divario di visione. Di Carnevali, la grafia sicura e corsiva suggerisce appena i contorni essenziali delle inconfondibili «figurine» così come d'ogni forma; del giovane Ceci, scontate le apparenti analogie d'immagine, è propria una levità epidermica, una tendenza a un intreccio e fusione di segni però di estrazione pittorica. Ciò che lo smaliziato esponente del «Gotha della illustrazione italiana» affida a una cifra stilistica che si direbbe adeguata alle finalità della riproduzione [vi], Ceci tende ad accarezzare con vellutate sfumature, sottilmente cercando l'unione dei toni, lasciando emergere soltanto a tratti il suo segno spiritoso, quasi impertinente come un accidente musicale in un disegno melodico.
Nel suo saggio finale (ma quelle litografie erano dell'anno prima) Ceci dimostra di aver acquisito, grazie al suo naturale talento, anche una certa autonomia espressiva; tanto da lasciare l'impressione che, a quel punto, egli avesse delle risorse potenziali maggiori di un «garbato illustratore». Alunno attento, che una sensibilità tutta sua rendeva quanto mai ricettivo, molto doveva aver assimilato dai suoi maestri e da tutto quanto gli aveva offerto l'ambiente di quella scuola nei cinque lunghi anni di permanenza: una scuola vera, seriamente formativa nei fondamenti dell'arte oltre che nelle tecniche incisorie; in un clima, se si vuole, statico, ma mai dispersivo; in quegli ambienti del Palazzo ducale di per sé capaci di educare l'occhio, nella quotidiana consuetudine, ad armoniche misure; in quell'ambiente naturale fonte di tante emozioni poi tante volte tradotte nella sua poesia figurativa; e infine in quella città che cominciò a diventare sua.
Febbraio 1990
Franco Mazzini
[i] Vedere in AA. VV., Dalle carte di Carlo Ceci, Urbino (ediz. fuori commercio) 1986
[ii] C. Ceci, Il mio debito a Francesco Carnevali, in AA. W., Omaggi a Francesco Carnevali, (a cura di S. Cuppini Sassi), in «Notizie da Palazzo Albani», Urbino 1989/1, p. 63.
[iii] «L'Eroica». Rassegna italiana di Ettore Cozzani, Milano anno XXVI, n. 215-216, luglio-agosto 1936-XIV.
[iv] Per M. Delitala vedi R. Bollati (pp. 54-58) e per E. di Giorgio vedi S. Cuppini Sassi (pp. 71-76), in AA. W., La Scuola del Libro di Urbino, Urbino 1986.
[v] Quelle dieci tavole sono le prime litografie di F. Carnevali. Cfr. P. Pallottino, Grandezza e dignità delle «figurine» di F. Carnevali, Urbino 1982, p. 28. Un'altra pubblicazione dell'Istituto, di quegli anni, è Otto racconti di M. Bontempelli, con litografie (bianco e nero) di Hedda Celani (1933), la quale risente del Carnevali nelle «figure», ma risolve la non facile interpretazione di quel testo con efficaci invenzioni tra post-Futurismo e Novecento.