Maestro Carlo CECI |
Itinerario di un artista, un maestro, un uomo
di Franco Mazzini
Il periodo milanese, a Brera: 1937-1941
Nell'autunno dello stesso 1937 Ceci era già a Milano, a Brera, iscritto al 1° anno del corso di Decorazione dell'Accademia.
Una scelta, quella di Milano, dettata da opportunità di carattere familiare (la dimora milanese di uno zio materno), ma dimostratasi poi felicissima; quella di Decorazione, dettata invece dalla convinzione, candida quanto modesta, di non potere varcare i limiti della Illustrazione, nutrendo nel contempo — è una sua confessione! — soggezione della Pittura. Il giovane «provinciale» non aveva insomma ancora coscienza della serietà degli studi compiuti né dei propri mezzi; e si aggiunga il comprensibile timore di trovarsi — come avvenne di fatto in principio — spaesato nella grande città e in quell'ambiente accademico di grande tradizione.
Dopo il quinquennio urbinate stava dunque per iniziare quel quadriennio milanese che, sebbene per altro verso, sarebbe stato altrettanto importante, soprattutto per la formazione culturale. Che, circa quella artistica, Ceci non ebbe nuovi maestri in senso stretto. Giuseppe Palanti, infatti, il titolare di Decorazione, un pittore «fra Scapigliatura e Novecento» (R. Bossaglia), artista fuori di dubbio geniale e come pochi versatile, assisteva e lasciava molto fare agli alunni, ed era peraltro attestato su posizioni alquanto superate, specialmente agli occhi di un giovane aperto verso nuovi orizzonti. Comunque, il Palanti, del «maestro d'arte» marchigiano approdato a Brera e presto divenuto un fiore all'occhiello della sua scuola, ebbe sempre stima; e lo dimostrò poi quando, finita la guerra, lo reclamò al suo fianco come assistente alla cattedra di Decorazione.
Ricordo - per avere io stesso allora frequentato quel corso - quell'aula spaziosa, nello storico palazzo secentesco, poco frequentata da pochi iscritti; dove si poteva fare o si cercava di fare un po' di tutto; dove i delicati saggi «urbinati» di Ceci — esposti su di un pannello — apparivano sommersi da una marea di chiassose affiches, da decrepiti cartoni ingialliti, da disparati saggi di affreschi, da cose vecchie e cose nuove, per lo più casuali, in una dominante aria alquanto stantìa. Ceci, pur timido e riservato, non tardò a primeggiare e a farsi notare, anche dagli «altri», riscuotendo infatti la stupita ammirazione di artisti già navigati quali Cassinari e Morlotti, allora iscritti a Pittura. Né tardò a mietere successi [i].
L'Accademia fu in ogni caso una sede di confronti e di esperienze stimolanti. Studente di Decorazione, Ceci ebbe modo di maturare e progredire anche come spettatore, sempre attentissimo di tutto quanto accadeva al di fuori di quell'aula: a Pittura, dove insegnavano Aldo Carpi e Achille Funi, frequentata dai già ricordati Cassinari e Morlotti, poi da Cesare Peverelli; a Scultura, dove imperava Francesco Messina; a Scenografia, dove si preparavano i futuri scenografi della Scala. Ma un'altra scuola, in quegli anni, fu per lui anche fuori di Brera. Il salto dalla provincia marchigiana, e sia pure da Urbino, era stato enorme. A Milano - la città italiana «più europea» degli anni Trenta - egli fu spettatore di fatti d'arte e di cultura sicuramente d'importanza nazionale, che apersero orizzonti del tutto sconosciuti al giovane artista, il quale venne a trovarsi in un ambiente proprio in quegli anni quanto mai polifonico, a contatto di personalità ormai consacrate ma anche di individualità emergenti e valide (troppi nomi si dovrebbero fare); un ambiente perciò stesso ricco di fermenti, di polemiche, di moti talora contrastanti ma in fondo convergenti tutti verso quella ricerca di libertà espressiva che Edoardo Persico aveva predicato nei primi anni del decennio [ii]. Basterebbe ricordare, a volo d'uccello, il «muralismo» di Sironi e di Funi - «forse il più bel capitolo della temperie novecentesca» (R. Barilli); i movimenti di rottura e d'avanguardia, come quello dei «chiaristi» (uno degli esponenti, Francesco de Rocchi, insegnava Anatomia artistica a Brera); come quello degli astrattisti «lombardi» - Fontana, Radice, Soldati, Reggiani (gli ultimi tre in collettive e personali alla Galleria del Milione fra il '38 e il '40, proprio davanti al portone di Brera); infine, quello di «Corrente» (con le due mostre del '39), forse il più attraente per quei giovani istintivamente portati a rompere il cerchio autarchico più o meno imposto dalla cosiddetta cultura fascista, ed a guardare oltre i confini, verso l'Europa, agli Impressionisti, a Gauguin van Gogh Cézanne, insomma ai grandi maestri della pittura moderna; che soltanto pochi - ma fra questi Morlotti, ad esempio, a Parigi per l'Expo 1937 - avevano potuto conoscere nelle opere originali.
Ceci, ricettivo e sensibile come sappiamo, da codesto insieme di fatti e in codesto clima, ricavò una lezione che lasciò in lui un sedimento culturale incancellabile, anche se al momento non ebbe modo di darne sentore, salvo che in un episodio. E non è tutto. In un raggio culturale più ampio, è da aggiungere che la città gli offrì la possibilità di coltivare una passione sbocciata da una recondita esigenza intcriore: quella per il Teatro - dalla prosa alla lirica - e in pari tempo per il Cinema, dei quali si fece a poco a poco, anche a mezzo di assidue letture, un vero conoscitore. Una passione, anzi un amore poi sempre rinverdito e coltivato anche attraverso esperienze personali nel corso della sua molteplice futura attività urbinate. E credo giusto sottolineare - anche in questa sede - che quasi ogni spazio del suo tempo libero milanese (non era poco) da impegni scolastici e professionali (non molto vincolati) fu dedicato all'arricchimento della sua cultura, non soltanto in ambito artistico: nel senso che, frequentare spettacoli e concerti, rientrò relativamente nelle sue abitudini di vita, così come visitare mostre e musei, spesso con la guida rivelatrice di Èva Tea, la docente accademica di Storia dell'arte. E tutto ciò - che pure va detto - lo fece anche a costo di quei piccoli sacrifici che non sempre uno studente lontano da casa sa imporsi per il nutrimento dello spirito; e sempre dissimulandoli orgogliosamente dietro quella dignitas che gli è propria.
Anche codesta, dicevo, fu una lunga e varia lezione che non soltanto lasciò sedimenti notevoli nel suo bagaglio culturale, ma ne affinò la sensibilità e la capacità critica anche nel campo letterario e musicale. Tutto questo - io credo - dovette contribuire al consolidamento di quella forma mentis aperta e non settoriale che distinguerà la sua attività di docente ed il suo particolare rapporto con i discepoli. A fronte di tale intenso accrescimento culturale, esiguo appare il catalogo delle opere di quel quadriennio: disperse essendo andate quelle di ambito scolastico, comprese quelle inviate a mostre e concorsi; quelle (poche) acquistate da privati, ora introvabili, per non dire di quelle di destinazione commerciale, che oggi rivestirebbero un interesse quali documenti di un'applicazione delle sue capacità di «decoratore»: cartoline augurali, locandine, bozzetti pubblicitari e simili.
Su questa linea di continuità urbinate si mantiene anche nell'ambito scolastico, e si capisce: sia perché teneva a far eccellere e insieme collaudare, le capacità acquisite, fedele a quella linea medesima che l'aveva portato a scegliere Decorazione; sia per la già ricordata soggezione della «Pittura», che tuttavia lo tentò.
Avevo accennato ad un episodio significativo: sono le due Composizioni del '38 (cat. 12-13), dopo neppure un anno di soggiorno milanese, si badi. Sono due lampi che predicono il futuro pittorico di Ceci. Indubbio è il sentore di esperienze fresche, dirette: Carrà, Sironi, Scipione, Birolli, Cassinari, per buttar là qualche nome, senza però che nessuno sia identificabile. Tuttavia — e questo è tipico del suo itinerario creativo - sembra che Ceci «ricordi» qualche cosa, un'emozione provata sfogliando le riproduzioni di un libro - nella «Susanna» (n. 12) c'è un vago ricordo di iconografia giorgionesca - o visitando una mostra - le «Bagnanti» (n. 13) sembrano riferirsi a Carrà - e che pertanto egli si sia sentito di raccogliere l'esortazione del maestro Delitala: «... si metta a dipingere senza paura di critiche e senza imitazioni (...) e non dimentichi le sue origini artistiche» [iii]. Ma Ceci aveva ormai un suo modo di esprimersi, capace di filtrare, assorbendoli, eventuali messaggi esterni. E poi, quelle due Composizioni non sono che il riflesso di un clima che si respirava tutti, allora.
Un'incursione nella Pittura dunque, avendo deposto per un momento la sua pungente ed estrosa calligrafia da illustratore; ma non già la sua visione di fondo, riconoscibile nell'impalcatura compositiva, nell'inter-secarsi delle quinte di paesaggio, nella delicata elaborazione della materia qui esercitata in una dominante bicromia rosso-verde, però nutrita intensamente di iridescenze interne. Da notare, che non più grandi di una pagina di libro, questi due dipinti sembrano bozzetti per affreschi, perché danno l'impressione di reggere benissimo la dimensione murale. Un requisito - la suggestione di ampiezza spaziale in un piccolo formato - che si affermerà nelle opere della maturità. In questo primo cimento pittorico nasce altresì quell'uso di una tecnica mista, tutta personale, per cui una stesura di cera si sovrappone a un certo punto all'acquerello, senza escludere riprese pittoriche locali, alla ricerca inesausta di fusioni tonali, di preziosità pittoriche, perfino a mezzo di graffiture.
L'incursione - ripeto, già al primo anno milanese - non ebbe seguito, e non è facile spiegarselo. «Non abbia mai né paura né soggezione» - gli aveva anche scritto il Delitala, che doveva conoscerlo bene. Forse, anche per quello scrupolo estremo che distingue ogni suo comportamento, è da credere che, intimamente pago di quel primo saggio, egli abbia preferito non insistere in quella direzione, e far quindi valere le sue acquisite qualità di illustratore per giunta gratificanti, non soltanto (e non era poco) nell'ambito scolastico accademico.
Di questo operare nella linea urbinate sono prova le illustrazioni che nel catalogo sono indicate sotto gli anni 1938-'4O, fra le quali spiccano: quella per «Le allegre comari di Windsor» (cat. 17) che si ricollega al Girotondo; quelle per un racconto dei Grimm e una favola di La Fontai-ne (cat. 14-15), e il trittico goldoniano qui esposto (cat. 19). Condotte all'acquerello con riprese ad inchiostri colorati, sono in effetti talmente puntuali, nella resa formale così come nelle ricercate qualità coloristiche, da doversi considerare saggi squisitamente pittorici, di valore autonomo nei confronti di un'eventuale riproduzione in tecnica. Il discorso vale più che mai per l'Annunciazione (cat. 18) portata a termine alla fine del '39. Il tema ricorda una composizione del Carnevali (1933). Si direbbe un momento di nostalgia di Urbino, un po' un omaggio al maestro nell'impostazione delle due «figurine» e, più genericamente, nella morfologia del paesaggio, delle piante gonfie del vento che percorre il cielo e spazza la collina, sospinge Vangelo e muove il manto della Vergine. Ma anche qui Ceci non si appaga di una soluzione illustrativa. Lo si intende dallo stesso procedimento tecnico più elaborato che mai, anche qui con parti graffite quasi a scoprire il bianco della carta. Ricordo bene la prima stesura all'acquerello, trasparente e delicata, poi via via nutrita di colore anche con l'uso di matite oltre che di inchiostri colorati, tra pause pentimenti e riprese. A osservarla con attenzione mirata - pur avendola sot-t'occhio da mezzo secolo — vi scopro, come se la guardassi per la prima volta, cose pregevolissime, risolte, e di una incantevole finezza: il grande albero che supera per pienezza pittorica i tipici modelli «di scuola»; quel partèrre erboso e fiorito sul quale il vento passa radente per placarsi contro la facciata di quella casa-torre di forma anomala: che non è l'amena casa di campagna del Carnevali, credibile, piena di vita e coi panni stesi alle finestre. C'è un che di ermetico e d'inquietante in quel blocco solitario nel verde e in quel pergolato spigoloso che da l'impressione di un'incompiutezza forse inconscia.
Febbraio 1990
Franco Mazzini
[i] Nei primi due anni ('38 e '39) ottenne il premio-borsa di studio dell'Accademia (conferitogli ancora nel '41); mentre fuori dell'ambito scolastico, alla mostra milanese degli artisti di Brera ('38) ebbe il Premio Comune di Milano, e ai Littoriali dell'Arte (Bologna '40), il Premio Città di Milano.
[ii] Sugli anni Trenta vedere i saggi di R. Barilli e V. Fagone in AA. W., Anni Trenta. Arte e Cultura in Italia. Catalogo della Mostra, Milano 1982.