Maestro Carlo CECI |
Itinerario di un artista, un maestro, un uomo
di Franco Mazzini
Insegnamento e rapporto con la città (1959-1978)
Intorno al '60 Ceci - di poco superata la quarantina - può considerarsi un artista più che arrivato. Potrebbe spiccare il volo anche in diverse direzioni, amministrare la sua attività (non dico in senso economico perché mai egli ha pensato al «guadagno»!); dirò allora le sacrosante ambizioni, allargando decisamente il suo raggio d'azione oltre le mura di Urbino e la regione marchigiana. Quanto meno nella sfera della stampa litografica d'arte, dove il suo nome, attraverso le numerose e importanti rassegne cui ha partecipato, è ormai noto e stimato - ripeto - anche all'estero [i]. Potrebbe comportarsi insomma, come altri colleghi che pure hanno fatto di Urbino «non una dimora ma addirittura una religione» (C. Bo); e senza nulla togliere all'insegnamento, tanto è vero che, sempre, quello ch'egli ha ricevuto, nel senso più lato, lo ha poi riversato nella scuola.
Invece, egli procede in una direzione inattesa; dirada fino a sospenderla, l'attività pittorica, limitandosi a mantenere viva, quasi esclusivamente con la produzione precedente, la partecipazione a mostre di grafica e incisione. Dal '59, e per quasi un ventennio, il suo catalogo fa registrare infatti larghissimi vuoti: in tutto, due litografie ('59), due serigrafie ('73 e '74) riprese da «tempere» precedenti (soltanto per consentire a una richiesta della Scuola); e fra i pochi dipinti, due tuttavia importanti, a dimostrazione che non è che la sua vena si fosse inaridita. Giusto nel '59, dunque, egli dipinge un Urbino (cat. 108) che è un punto fermo del suo itinerario artistico. Risalgono a sei-sette anni prima alcune vedute analoghe (cat. 82-74-70-68). A quelle, quest'ultima si apparenta in qualche modo nel soggetto e nel taglio; ma stilisticamente essa discende piuttosto da II piccolo circo che da II ponte di Fossombrone per intenderci, in quanto l'omogeneità tonale di strisce e tasselli onde si compone l'immagine ha raggiunto il limite dell'opus sedile marmoreo, se il paragone regge. Né si deve escludere che a tanto egli sia arrivato proprio attraverso le esperienze litografiche che sappiamo.
Comunque sia, questo dipinto resterà appeso nel suo studio a mo' di pro-memoria, come se, quando ricominciasse a dipingere, da quel punto dovesse riprendere. In un altro Urbino, anch'esso fiore solitario, eseguito nel '61 (cat. 110) - che gli varrà il Premio Bucci e l'ingresso nella collezione Cesarmi di Fossombrone - affiora un'ombra di nostalgia naturalistica. La città lo tenta con quella grande macchia imminente del "Pincio", color delle foglie rugginose di fine settembre; con la luce del tramonto che tinge d'un rosa iperbolico i mattoni, sotto il cielo terso d'autunno. Questo per chi conosce Urbino. Altrimenti si può vedervi soltanto una combinazione raffinatissima di macchie cromatiche invase di luce. Ed è anche questo un appunto per il futuro.
Ma proprio questi due ultimi saggi pittorici, così significativi, rendono ancor più insondabile la vera e intima ragione di quel rifugiarsi nell'insegnamento, di quella rinuncia, e per un così lungo tratto di vita, a un «diletto» tanto produttivo: ci si chiede perché da quel momento, e perché dopo un quindicennio durante il quale aveva pure insegnato e «lavorato» insieme.
«... e Ceci mi dice che formare allievi è bello come dipingere un quadro, scrivere una poesia, come vedere crescere una quercia». Tale una testimonianza del Ciarrocchi [ii]. Pubblicamente, è lui medesimo a dichiarare - a chi ammira la sua opera e si rammarica del suo inopinato ritiro dalla scena - che il suo tempo, la sua passione, sono tutti rivolti alla scuola, all'insegnamento; «esso è un po' il mio scopo della vita, è il mio vero lavoro, e mi piace» [iii].
«Visto nel laboratorio di litografia, la palandrana nera addosso, aggirarsi tra le file silenziose dei giovani allievi intenti alla pietra litografica, l'occhio vigile, i gesti bruschi, scattanti, la parola rapida, fluente che ammonisce, corregge, sprona o consiglia, egli appare quale desidera essere: semplicemente un maestro» [iv]. Questo ritratto, efficace come un documentario filmato, scritto da chi ha avuto modo di conoscerlo ed ha dimostrato di averne compreso anche il mondo poetico, aiuta a capire come gratificante sia stata per lui quella vita, nel dare e nell'avere, e proprio per il carattere multiforme ed aperto della sua didattica.
L'insegnamento infatti non si limitava alla mera tecnica, ma spaziava in più largo orizzonte, con opportuni sconfinamenti nella storia letteraria (e teatrale!) peraltro connessi alle finalità interpretative della «illustrazione del libro»; con riferimenti non soltanto alla storia della Litografia ma dell'arte in generale, documentati con libri e riproduzioni, portati da casa, se occorreva. Che era poi tutto un attingere a quella personale varia cultura acquisita, come sappiamo, fino dagli anni milanesi e quindi sempre tenuta a giorno. Una didattica modernamente interdisciplina-re, improntata a un dialogo che, con gli interlocutori più rispondenti, continuava anche fuori dell'aula, per aggiungere quello che la scuola non era in grado di dare. Un dialogo permeato di quella umanità di fondo che ne ha fatto il personaggio amato e tanto ricordato da coloro che hanno avuto la ventura di averlo come maestro e poi anche amico.
Di codesta sua attitudine per una didattica interdisciplinare era ben consapevole il direttore Carnevali, che nel '55 affidò a Ceci l'incarico di insegnare anche «Stilistica, storia del Costume e del Teatro» agli alunni del biennio di Perfezionamento (o Magistero). Tale incarico durò un ventennio, fino al '75. Davvero memorabili e non facilmente repetibili furono quelle lezioni condotte sulla immagine storico-artistica (proiezioni), accompagnata per lo più dall'audizione di brani musicali dell'epoca oltre che dalla lettura di testi letterari; affinchè il «costume» ed il «teatro» non apparissero effimere esteriorità di moda o fatti meramente transitori, bensì espressioni di un costume anche etico e prodotti di una cultura appartenente a un determinato momento storico.
È quindi più comprensibile, per questo verso, come la soddisfazione di propiziare la nascita di un giovane talento artistico oppure semplicemente di formare, dirò pure educare, uno dei tanti bravi alunni che sono usciti da quell'Istituto e si sono affermati nella vita, potesse costituire per Ceci un'alternativa alla creatività personale. Ma non sarebbe mutile - credo - una ricerca di carattere storico intesa a verificare, attraverso gli elaborati, i saggi sperimentali, i risultati comunque conseguiti sotto una guida così stimolante e partecipe, se e quanto una operatività per così dire mediata dal discente, possa aver influito sull'evoluzione del medesimo «maestro» [v].
Bisogna a questo punto aggiungere che Ceci, in quegli anni ormai considerato un esponente della cultura in Urbino [vi], ebbe modo di partecipare o addirittura di promuovere più di una pubblica manifestazione. Ho già accennato a quanto è avvenuto tra gli anni Quaranta e Cinquanta nell'orbita dell'Istituto del Libro; ora la Città stessa ha assunto un ruolo promozionale. Ma bisogna pur dire che è stato Ceci, con un paio di colleghi «di più stretta amicizia», a dividere il merito, e la fatica, di «suscitare, fiancheggiare, disporre» (Carnevali) quelle rappresentazioni del Teatro rinascimentale di Corte - tenute nel cortile d'onore del Palazzo ducale dal '52 al '15 - che videro convenire registi di fama, attori di richiamo, studiosi, critici, gente forestiera; senza dubbio tra gli eventi di maggior prestigio culturale nella storia recente di Urbino. Di altri allestimenti, come mostre d'arte figurativa, apparati, rappresentazioni teatrali, feste e via dicendo, egli ha avuto personale incarico dal Comune, dall'Università, dall'Accademia Raffaello e da altre istituzioni urbinati. Manifestazioni che Ceci non ha mancato di contrassegnare della sua sensibilità e del suo gusto, raccogliendo, sia pure nell'effimero, più d'una soddisfazione, a parziale compenso della lunga inattività come pittore e litografo [vii].
Resta comunque il fatto che il compenso maggiore - per l'artista e per l'uomo - gli venne dall'attività di docente, specialmente quando, dagli anni Settanta, i Corsi estivi internazionali di tecniche incisorie divennero per lui occasione di contatti, di rapporti quindi amichevoli con artisti italiani ed anche stranieri; quando cioè egli andò tessendo intorno alla sua persona quella «vasta rete di conoscenze e riconoscenze» (Carnevali) di cui è rimasta anche testimonianza scritta, soltanto in parte nota. Tra le cose pubblicate, molto singolari sono indubbiamente Poesia su C. [Ceci], composte da Marisa Zoni «come racconto di una persona», secondo la difinizione della stessa Autrice, che del Ceci peraltro non fu allieva [viii]. Quei versi non appartengono comunque alla fortuna critica dell'artista, perché non parlano direttamente della sua opera, ma sì di quella sostanza umana onde l'opera stessa scaturisce. Perciò non se ne poteva escludere una menzione in questo itinerario, anche in quanto quelle poesie possono considerarsi un frutto di quelle «energie» - è ormai luogo comune - che Ceci è capace di suscitare, così negli allievi come in coloro che al suo mondo poetico sanno accostarsi con intelligenza. Ed a proposito di testimonianze e di omaggi poetici, già ho ricordato Tonino Guerra e Paolo Volponi; per tacere del più volte citato Ciarrocchi e, naturalmente, del Carnevali; gli scritti dei quali, pur se di contenuto non espressamente storico-artistico, potrebbero iscriversi pianamente in un florilegio critico. Così come quelli di alcuni exallievi di ogni età, che pur non avendo attinto livelli letterari o critici, del maestro hanno tuttavia saputo formulare giudizi centrati e non convenzionali, quanto sono sincere le loro espressioni di riconoscenza [ix].
Febbraio 1990
Franco Mazzini
[i] Ricordo, per comodità del lettore: le mostre di Stoccolma ("55); Amburgo-Brema-L'Aja ('55); San Paolo del Brasile ('56); Lubiana ('57); Dublino ('58); in Polonia e a Vienna ('59); Zurigo ('64); Graz ('66); Spalato (77); Colonia (78); Klagenfurt-Graz ('88); Bucarest ('89).
[ii] In una lettera fra le Carte di Ceci.
[iii] Cfr. L. Lambertini cit., 1966, p. 20.
[iv] R. Rinaldi Carini, L'Istituto statale d'arte per la decorazione e illustrazione del libro, in «Il Narciso», Firenze, 1963, n. 1.
[v] Di grande interesse sarebbe pure radunare in una mostra selezionata dallo stesso Ceci, tutte le opere più significative dei suoi allievi, dai saggi scolastici a quelli personali di nomi noti e meno noti: una mostra trentennale della scuola di Litografia di Carlo Ceci.
[vi] Socio, e oggi membro, del Consiglio dell'Accademia Raffaello, fu presidente del Circolo di Cultura ed Arte — Bottega di G. Santi, all'interno della stessa Accademia; ciò che ha comportato l'organizzazione di tutte le mostre allestite in quella sede a partire dal 1950. È stato presidente del Comitato promotore del Cine-club (1949-1953); membro del Comitato organizzatore del Teatro Rinascimentale di Corte (dal '52 al '75).
[vii] Fra le manifestazioni di carattere cittadino, ricordo qui gli allestimenti per la Befana del Bimbo, per il Carnevale dei Bambini; per la Festa dell'A.V.I.S.; per il raduno del Lyons Club; per alcune feste al Circolo di Urbino. Inoltre un Son et lumière al castello di Tavoleto (1960).
[viii] II volumetto fu stampato dall'Istituto statale d'arte di Urbino nel 1974, in 105 esemplari nume rati.
[ix] Parte di questi scritti sono pubblicati in AA. W., Dalle carte di C.C. citato.
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