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Presentazione
di Fabio Flego |
Note dell'autore |
Indice |
Presentazione
a Pistoia |
Alcune Poesie |
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In Nati dal vento è il passato che preme nel tempo della malinconia: quella che sorprende il poeta alla fine del giorno, con le prime ombre della sera. Un filo d'erba tra il cemento, simbolo della tenacia della vita che può affermarsi vigorosa anche nelle condizioni più difficili, seguendo impenetrabili percorsi: è il mistero del vento che racchiude il seme della vita, della nascita biologica, psichica, spirituale. L'identità, frutto di una lotta autobiografica e universale contro il dolore e le avversità, "rimane in bilico come una foglia nell'ultimo volo", ma si sostanzia attraverso l'amore "alito supremo che dà vita al germoglio, che non delude il silenzio, che s'inserisce in ogni pensiero". E se la solitudine del poeta traspare incerta entro le frastagliate rocce della sua terra, a lungo evocata, con il timore che ogni profezia possa "essere soltanto un tragico raggiro", è ancora la memoria d'amore, ragione intima di ogni connessione, a trasformare la malinconia in nostalgia, il dolore in un'ansia che "non s'avvede d'essere ricordo". Mario Agnoli
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Poesie come tessere di un mosaico
I nati dal vento sono quei fili d’erba e quelle piantine che crescono nelle fessure del cemento, ai margini dell’asfalto, negli interstizi fra i mattoni e le pietre dei muretti, nelle gronde delle terrazze, ovunque un seme possa posarsi trovando una manciata di terra in cui attecchire. Queste piccole creature parlano alla mente e al cuore dell’uomo: sono il simbolo della tenacia della vita, che riesce a svilupparsi anche in condizioni molto difficili, talvolta con imprevedibile vigore.
La loro presenza suscita domande: perché dallo sciame dei semi errabondi
nell’aria proprio il seme di quella piantina si è staccato, nel giusto
momento, per venire ad arricchire, sul cornicione del mio poggiolo, la
schiera degli arbusti piantati dall’uomo? Quali leggi sconosciute hanno
regolato il suo volo e la sua caduta, qualcuno ha voluto questa nascita? Nell’immaginario di questa nuova silloge poetica di Mario Agnoli sono presenti il colore e il profumo dei fiori di campo e di roccia, tanto cari alla sua infanzia cadorina, mentre l’esistenza di un semplice stelo assume significati simbolici profondi e variegati attorno al tema dell’identità. D’altro canto, la sopravvivenza psichica è per tutti garantita da una lotta continua contro avverse condizioni, mentre la privazione e il dolore sono alla base dello sviluppo del pensiero umano: nella raccolta si avverte distintamente l’eco di questa lotta, autobiografica e universale, in cui ciascuno può riconoscersi, in quanto stelo portato e, almeno in parte, certamente piegato dal vento. Questi componimenti segnano l’ulteriore corso della vita del poeta, i cui nuclei essenziali dello sviluppo teorico, teso a decifrare e sciogliere l’enigma di bigongiariana memoria (v. Esperienze chiaroscuro e Nessun fiore), si colgono già nel nome delle precedenti raccolte: se in Rami divelti (Castaldi Editore, Feltre 1972) la riassunzione lirica è nelle sembianze dei rami tagliati e sparsi senza ordine nel bosco e in Poesie (Rebellato Editore, Quarto d’Al tino 1977) la forma rimane in evoluzione, in Mercato (Rebellato Editore, Quarto d’Altino 1981), più propriamente inteso come un negozio d’idee al quale tendere affannosamente, il poeta trova rifugio nei beni dello spirito. La costruzione poetica tende poi all’accorpamento secondo un programma astratto in Frammenti di un poema (Rebellato Editore, Quarto d’Altino 1983), per farsi poi tristezza/ombra di un dolore che non si riesce a nascondere in Ombra (Nuova Compagnia Editrice, Forlì 1988). Un sorpasso ideale, con il superamento delle esperienze precedenti, si registra in Essenze (La Nuova Agape, Forlì 1999), cui fa seguito Esperia (Giraldi Editore, Bologna 2010), dove nella grande oscurità dell'infinito appare una stella, un frammento di luce.
Ora, in Nati dal vento, è il passato che preme nel tempo della
malinconia: quella che sorprende l’uomo alla fine del giorno, con le
prime ombre della sera (“sorella della quiete”), quando gli spazi
“ampi”, “lenti”, “ignoti”, “remoti”, “finiti/infiniti” si fanno
frammentati all’orizzonte (“oltre il finito [...] l’orizzonte s’apre
all’infinito”, in La fine del tempo) e, nell’ansia di scoprire oltre
l’illusione l’ultimo confine, la solitudine del poeta traspare incerta
entro le frastagliate rocce della sua terra, nella diafanità dei
ricordi risucchiati dall’inconscio. Il tempo che “era della poesia [còlta] come / un fiore dalle serre di un sogno” ed “ora è altro [perché] scorre come un fiume d’ansia” (L ultimo giorno dell’anno), quel tempo che segna l’andare (“fili di fronde per risarcire la fretta dell’andare”, in Gli intervalli) e il venire {Le vicende del ritornare) dell’uomo, come un girare o “mulinare” per acque dolci di fiume grande, si stacca dai fondali del suo consistere, per manifestarsi nella memoria, nei ritorni con le date assiepate sul muro dell’anima, le misure d’archi tracciati sulle illusioni, il mutare delle stagioni, le ricerche affannose. La terra, entro il ciclo del suo stesso essere, è invece attratta dall’estro poetico, che ripropone sulla scena senza alcuna aggregazione: rimane strada “breve”, immagine (“guizzi di tempo / per ricordare”, in La mia strada), paesaggio, borgo antico. Una terra che muta con le percorrenze vissute e quelle romanticamente sognate tra abeti, betulle, pini, magnolie, mimose, licheni che abitano le candide montagne e le care valli dove “ogni sentiero riprende l’antico filo” (La valle). In quel tempo e in quella terra, la vita, il cui senso “avanza regredendo” {Legrandifeste), “schiuma entro / minute zolle al vento aprico” {Figli del vento), “s’accorcia nei lembi del divenire” ed “è anelito al sogno / che rinnova illudendo” (Un giorno ventoso), perché “essa è nel dubbio del camminare / che ha relazioni con l’infinito” {Ritornare). E all’infinito e alla morte, che ne indagano il fine, Agnoli risponde positivamente con la forza della speranza che poggia, nell’aprire e chiudere le ragioni di questi versi, sull’invocato aiuto materno (“ti prego, mamma, aiutami a sperare”, in 1946), ma che “rimane in bilico / come una foglia nell’ultimo volo” (Il tempo nuovo), come lui stesso a penzoloni sul muro che grottescamente si allontana, si avvicina, si apre. Ma questo ventaglio che soccorre l’indugio del poeta non nasconde tra le sue pieghe la ragione intima di ogni connessione: l’amore, che si definisce empiricamente filo conduttore (/paletti). Esso è alito supremo che dà vita al germoglio, che non delude il silenzio, che s’inserisce in ogni pensiero. E la malinconia diventa nostalgia, il dolore un’ansia che “non si avvede di essere ricordo” (Amore).
Il verso libero di Mario Agnoli si scosta dalla consuetudine letteraria
e cerca l’armonia nelle parole che ritornano, all’interno delle
composizioni e con le frequenze del caso, alla ricerca della dimensione
compiuta e si ribellano alle leggi, per rilasciare spazi di luce
diversa.
Nelle prime raccolte si percepivano ampi accostamenti alla poesia
italiana dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, con riflessi
romantici e attitudini alla selezione degli argomenti.
Si rileva ora, invece, un nuovo filone stilistico caratterizzato da
equilibri tematico-innovativi in cui i singoli componimenti tendono a
costituirsi come tessere di un mosaico dove individuare, nella
continuità, l’universale che esce dal particolare, lo sviluppo nel
contesto della realtà in cui viviamo. Una poesia che per la sua
consistenza semantica, linguistica, formale, stilistica è destinata a
collocarsi nell’ambito di un più ampio progetto culturale, quello in cui
la particolare esperienza di Agnoli-uomo e le immagini soggettive e
inconsce di Agnoli-poeta sono vissute come realtà dense di significati,
a volte profondamente scandagliati nel loro simbolismo concettuale, a
volte volutamente oscuri, per quel bisogno forte di continuare a pensare
sulle cose rimaste in sospeso, sui dubbi, sui silenzi, sui misteri
dell’essere, nell’awentura complessa della ricerca.
Dal titolo delle precedenti raccolte di poesie edite è possibile
cogliere alcuni aspetti, peraltro essenziali, del relativo sviluppo
poetico:
Giuliana Bonacchi Gazzarrini
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[Cliccare sulle voci evidenziate per leggere la poesia]
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Poesie come tessere
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Il ciclo delle
poesie
Le illusioni
p.73
Un ’altra illusione
La misura dell’essere
Il ciclo delle stagioni
La fine del tempo |
L'alba inutile
Il ciclo dell’amore p. 151
Lucilla |
Cercai e ricercai
nella memoria Fui sorpreso del loro ripetersi come d’armonia agli ormeggi del suono.
Compresi le ragioni
della natura,
Non hanno schemi, né recondite fonti, quelle che vanno dolcemente agli accorpi, che sollecite come vestali raccolgono sensazioni, che mutuano dai sospiri d’amore ogni segreta illusione
Non abbiamo risolto
il problema
Questo è giorno di
vento che odo Vento di freddo immigra da pigre valli, da desolate piane.
Se mi trovo come d’inerzia
Ed allora è forse
meno dolce la vita
Forse tutto è nel mistero dell’essere
come un lombrico alla ricerca dell’infinito
Mi era noto per quelle ragioni
Non conoscevo l’arte degli accosti
E tu ritorni d’un lieve fruscio
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È tempo d’aquiloni
Tempo d’ali colorate
Tempo dell’età fanciulla, risale per sentieri d’aria l’aquilone, ritorna, s’allontana, s’impenna piccolo puledro ai vaghi pascoli, ai sogni fatti di niente.
Urbino ventosa che odo
Urbino ventosa sull’incappucciato colle
Più dolce è il sogno
di solo ricordo?
Sono nodi della stessa radice,
A che serve la misura del tempo
Forse per un segno dell’essere,
Non saprei! Hanno ragioni d’ineluttabile, Si ritorna all’altre frequenze quelle senza ritorni, impazzite che oso nel leggiadro ondulare delle betulle in quell’andare e venire d’un canto più dolce di sirena dove l’amore tenta l’ultima sortita.
Sono rimasto all’indietro,
Sono rimasto con i
sapori d’acque Sono rimasto nel mezzo del giorno al confine dell’ore come un pellegrino scontento.
È inutile cercare il sollecito dei fiori,
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