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IV di Copertina Il solstizio d’inverno, con la luce del sole che sembra scomparire, simboleggia da sempre le più profonde angosce umane, e nel contempo, con il progressivo ravvivarsi della luce, si collega a una multiforme mitologia relativa alla rinascita della vita e della speranza. La polarità angoscia-dolore di contro a speranza-riscatto attraversa l’intera opera letteraria di Mario Agnoli, e pervade particolarmente in profondità questa raccolta poetica. In essa infatti sono rinvenibili tratti di profonda malinconia (Siamo astanti senza alibi / tra cornici in attesa di immagini, come insetti nella terra fradicia / come steli abbronzati / travolti dalla piena) unitamente a gioiosi orientamenti verso gli aspetti più vitali e sublimi della realtà umana (Infine un risucchio di idea, una sola parola che sguscia di sotto, improvvisa: Amore), in un complesso sistema psicologico e valoriale nel quale caratteristiche opposte trovano un’interessante e originale composizione, anche in funzione di un’apertura alia trascendenza (Vado nel finito infinito con la stella più lontana / che a stento trattiene il mistero della vita).
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Per la poesia di Mario Agnoli
di Giuliana Bonacchi Gazzarrini
Ho conosciuto Mario Agnoli negli anni Ottanta in un periodo di empatia poetica. Dopo gli anni di piombo riprendeva vigore l’esigenza di sognare, di dare rilievo ai momenti della mente, agli affetti e alla bellezza dei paesaggi, nell’intento di recuperare i legami con la realtà e le persone. Nel tempo era tuttavia inevitabile la metamorfosi di soluzioni poetiche perfette e assolute. A facilitare l’opera di decostruzione delle forme metriche e dei contenuti interveniva la percezione mutata di una realtà in divenire da “autunno del Novecento”, secondo Niva Lorenzini “cresciuto tra crisi della razionalità, caso e stupore”, in forza di una “scissura” che segnava le cose. Comunque, a dimostrazione di una tenuta della poesia di fronte allo sgretolarsi di etiche individuali e collettive stavano i libri di Mario Luzi (Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, 1985) e di Giorgio Caproni (Tutte le poesie, Garzanti, 1986). Sono opere poetiche che hanno imposto, tra l’altro, il modello dell ’ interrogazione e della caccia. In questo caso alla metafora della pulsione di morte, della perdita di riconoscimento e di individuazione, si oppone l’assoluto lirico delle sublimazioni poetiche, la consapevolezza di un'armonia/'alleanza che presiede alla realizzazione del disegno divino sulla terra. Ma non basta: la pluralità di strade attraverso le quali si è indirizzata la ricerca di una pienezza del dire giustificava un’anamnesi poetica applicata a scenari territoriali circoscritti come quello di Pistoia. A favorirla era intervenuta la voce poetica di Roberto Carifi e di altre giovani speranze, anche tramite la diffusione della rivista “Altro”. D’altro canto non mancava il pedigree storico da rintracciare in un intreccio ricorrente di relazioni poetiche e culturali che dalle implicazioni ottocentesche tra Niccolò Puccini, Vieusseux e Guerrazzi confluiva nel vincolo intellettuale/epistolare di Louisa Grace Bartolini con Carducci, per rivitalizzarsi negli anni Trenta del Novecento con i contributi di Luzi, Bigongiari, Baldi e Macrì sulle pagine del “Ferruccio” e rinnovarsi, dopo il Settanta, con l’opera di allineamento e di scansione della “nuova poesia” affidata alla “parola innamorata” di Milo De Angelis, Conte, Mussapi e Rosita Copioli. A questo proposito non posso fare a meno di ricordare le nostre riunioni, sotto la guida di Carifi e di Maura Del Serra con la presenza di un folto gruppo di aspiranti poeti, per leggere e commentare le varie mitografie liriche. Nelle riunioni che avvenivano dentro la bottega, abbandonata dal calzolaio, nella vecchia casa di famiglia, in via della Torre, c’era una forma inconscia e ingenua di utopia, di fiducia nel futuro di un nuovo “umanesimo”.
In questo clima di mutamento,
che investiva le cose intorno a noi e la sensibilità di ogni individuo
singolo, si inseriva la poesia di Mario Agnoli, cadorino immigrato nella
provincia toscana, cattolico anomalo, con una partecipazione importante
nell’apparato burocratico. Era questa un’esperienza in grado di
costituirne l’eccezione, ma anche la premessa di un impegno civile Recensendo nel 1988 Ozi d’agosto, parlavo dello “strano racconto” di Agnoli “dove nulla accade e tuttavia si presentisce un dramma”: da qui la possibilità di essere letto “in chiave di storia d’amore, che è anche storia di un incontro e di una separazione. Diversamente, consente di essere interpretato quale avventura dell’essere e del pensiero, o come metafora della scrittura”. Da allora, come precisavo nella prefazione a Esperia (2010), Mario Agnoli, fedele al rigore interpretativo di una poesia “in sottovoce” senza essere priva della forza e della purezza di una contemplazione metafisica, luogo delle domande estreme, ha intensificato la strategia dello stare fuori dalla mobilitazione generale di una industria culturale sempre più distratta. Ora che sono chiamata a introdurre il libro postumo delle sue ultime poesie, oscillo tra rimpianto per la perdita di un amico devoto e constatazione che protagonista in poesia, come nella trilogia in prosa, è la sofferenza dell’individuo. Del resto, lo stesso titolo della raccolta poetica, Solstizio d’inverno, allegorizza Xombra nel suo travalicare sulla luce. Di seguito, il percorso poetico dell’estremo viaggio autobiografico di Agnoli è andato incontro alla sua più profonda natura metaforica. Di pari passo, l’affettività è divenuta più esposta e radicale (penso all’imperativo categorico di Devi credere all’amore, quando la speranza è ridotta a “un filo di luce sulle soglie di un capanno lacustre”, V parte, Pensare, ripensare...), mentre la meditazione metafisica assurge a luogo delXoltre, “segno dell’infinito” (La poesia, I parte, Sensazioni, Spigolature dell’essere), ma anche muro che, “come siepe, piega l’orizzonte allo sguardo smarrito”. Non a caso, anche Agnoli, come molti di noi, appare attonito e spiazzato di fronte al corso che sta prendendo il mondo. Ne sono spia i versi amari dedicati alla patria: “è un dire ingenuo/ che rimane imprudente,/al di qua del male prò fondo,/i costumi corrotti, gli idoli delle finzioni,/ l’inerzia che non controlla” (La mia patria, II parte, Il rinnovo). La riaffermazione della funzione sociale della poesia con il mutare delle relazioni umane rende ragione della curvatura dolorosa assunta nelle ultime poesie, dallo stesso autore limitate a “essenze poetiche, sfrondate come alberi d’autunno, da sembrare semplicemente semi o larve. A nessuno interessa se poi diverranno arbusti o lombrichi”.
“Prevalse, per l’appunto - come
Agnoli precisa nella didascalia della
III parte
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Al di là del
nostro tempo. Ritagli poetici -
la poesia del vissuto, delle lacerazioni sociali; persino il linguaggio
relativo si fece strano, tiranno delle espressioni nuove”. A venirne
coinvolta è la polivalenza culturale compresi i
pensieri di
economia Giuliana Bonacchi Gazzarrini Firenze, 30 novembre 2017
L’inafferrabile leggerezza dell’essere
È fasciato questo tempo d’autunno con le ali di nube, le foglie gialle di luce opaca, i sentieri dipinti di rosa.
Al di sotto sembra un filo dorato, invece è ombra del tempo.
Vado di corsa, ormai non s’aprono i giorni, gli orizzonti s’accorciano fra le cose, il passo s’accosta ai minuti spazi.
Un ormai di poco conto, forse del nulla apparente che ha simbiosi strane: come di tulipani.
Un ormai che non afferro. Fugge, ineluttabile. Intanto i fogli dèi mio essere raccolgono l’ultima grafia: un graffio dell’anima. Simboli antichi sulla roccia della mia terra
Forse è indovina, d’arte nuova: l’uomo non ha tempo, corre con le immagini.
Forse è una scelta convenuta senza alcuna ragione profonda, che allenta il senso della vita.
Ed allora quale sarà l’ultima risposta? La sorpresa. L’ineluttabile confluire delle cose. Ovvero il silenzio, soltanto muto silenzio!
La scelta rimane appesa al dubbio come un setaccio intriso di pece, un foglio riavvolto dalla risacca.
Non è di maggio il grido più lento tra queste siepi di bosso ricurve, né d’altro tempo intenso di fiori. Corre il grido sulle cose strane, sulle anime, sulle arse radure, sul divenire. Corre sino al muto orizzonte
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Quando si attarda nelle ore inutili, sfilacciata, ombrosa, inquieta ha sembianze di nube. Nella notte insonne sembra raggiro, di fughe all’indietro con le memorie incerte, così a piegarsi lentamente su fogli di carta, scolorati, sovrapposti. Invano attesi l’alba, furono i segmenti del sogno, più lungo dell’altro già spento, nascosto tra le pieghe del lenzuolo bagnate di pianto.
Vengono leste. In alcuni casi impreviste. Sembrano sfogliate, come carte pigiate sulle corti di cotto, sui pensieri incerti. Fraintese schiantano persino il senso che dal remoto risale ridendo. Deviate si nutrono di silenzi come un dire che non dice. Tace! Rimangono soltanto gli sfilacci e pochi fili d’erba superstiti, come idee sfollate nel nulla.
Sempre ricordi in questo scrivere! Tornano frettolosi come i sogni nell’alba, gli estri di natura sulle spighe piegate dal vento. Seguono le regole del tempo: maturano d’autunno, con i colori sbiaditi, gli spazi accosti alle ombre. In questo altro tempo della vita faticano a morire. Ora li rivedo: ineluttabili, senza memoria, con i veli strappati, le fantasie improvvise. Sono funzioni del tempo. Relative. Alcuni hanno appendici striate, rimangono: impenetrabili, senza raccordi. Inerzie del nulla; altri sono incompiuti come le frasi smozzicate; radici divelte, e il completare di essi m’illude: di essere stato o di avere soltanto pensato di esserlo. Rimarrò con le incertezze. Può darsi, tardivamente: quando la notte diverrà attesa sotto la pietra e i fili d’erba saranno piegati dal vento.
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È ritto sulle foglie spente. Siepi di aghi senza foglie, e rotoli di erbe malate d’ ombra, e viene meno rapido in questo estroso tempo. Stagione strana di colori che non hanno vesti bianche, solo margini d’acque improvvise che si tingono di raggi d’un sole fugace tra le nubi ventilate. Stagione della Trabaria che schiude lo sguardo alle pendici più dolci, che anelando vanno a ritroso lungo gli scavi rocciosi del Feltro. Stagione delle fragili betulle, di erbe seccate dall’ultimo taglio, delle ultime pietre e piccoli rami sorpresi dall’onde di acque al tracimare su scarne radici. Intanto scorre anche l’altro tempo, con i pensieri di nebbia succhiati, come il tarlo lento alle ultime trine e lembi di neri mantelli. Indovino cercando vado l’estro in questa mia vita che s’arrende.
Se credi ci possiamo incontrare all’alba nel solito luogo dove il salice disegna l’ultime chiome, il vento è più dolce: corre tra le contrade del borgo silente. Diverso è il venire di sera con le ombre piegate d’altra luce con i pensieri grevi, i silenzi di lunghi spazi, di ordite fughe. Diverso è il tempo dell’attesa con le soglie dipinte di azzurro, i sogni allungati nelle veglie.
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Presentazione a Pistoia
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