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L’evangelizzatore dell’Alta Valtiberina SAN CRESCENTINO MARTIRE soldato romano Patrono di Urbino dal 18 dicembre 1068 di Luciano Ceccarelli
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Crescenziano, che gli Urbinati chiamano col diminutivo di Crescentino, probabilmente per sottolineare la sua giovane età, era nato a Roma circa l’anno 276, al tempo del pontificato di Sant’Eutichiano papa (275-283-. Educato cristianamente dal padre Eutimio, fin dalla sua prima giovinezza egli si era arruolato nell’esercito romano, ove fu ascritto nella Prima Coorte della Prima Legione, della quale pare fosse comandante il futuro martire San Sebastiano, col quale Crescentino si diede segretamente alla propagazione della fede cristiana.
Per antica prassi, nell’Impero Romano le religioni diverse da quella ufficiale erano largamente tollerate, sebbene sempre sottoposte a guardinga vigilanza e sovente anche ad autoritarie repressioni se fossero incorse nel severo giudizio di propalare principi troppo aberranti dalle prescrizioni sia della religione, sia della tradizione dello Stato. In tale condizione poteva ben trovarsi il cristianesimo, e se nei primi anni dell’impero di Diocleziano la fede nei princìpi della dottrina cristiana non fu molestata, in seguito non tardarono molto a venire anche i momenti di persecuzione, specialmente dopo i pertinaci e insistenti consigli di Galerio, il Cesare di stanza a Sirmio sul Danubio, un rozzo soldato superstizioso, figlio di una fanatica sacerdotessa di culti barbarici, il quale sosteneva la necessità politica di applicare degli intransigenti e duri provvedimenti legislativi di estremo rigore da applicarsi specialmente contro i sovvertitori cristiani. Non si trattava ancora di una vera e propria persecuzione, alla quale si arrivò per gradi. Da principio si cominciò ad applicare delle sanzioni sempre più intransigenti e inesorabili contro i cristiani che militavano nell’esercito, all’inizio sotto la forma di implacabili provvedimenti disciplinari, specialmente se provocati da rifiuti di soldati cristiani ad eseguire degli ordini, che a ragione o a torto essi ritenevano contrari ai principi cui si ispirava la loro coscienza. Ai soldati si ingiunse di prestare deferente riverenza e pio culto alle divinità nazionali pena la missio ignominiosa, cioè l’infamante degradazione e la conseguente disonorevole espulsione dai ranghi dell’esercito. Naturalmente, le stesse rigorose disposizioni furono applicate anche nei confronti dei cristiani impiegati civili dello Stato, tuttavia ancora a quest’epoca pare che le condanne capitali siano state abbastanza rare, ripugnando a Diocleziano di decretare una persecuzione cruenta, alla quale non voleva arrivare sia per la sua indole inclinata a un’attitudine di pratica conciliazione, sia per averne valutato negativamente l’inutilità. (Foto: Girolamo Cialdieri, L'Assunta e San Crescentino davanti la città, Urbino, Museo del Duomo -.
Per queste ragioni, circa l’anno 297, anche Crescentino fu costretto ad abbandonare l’esercito e ad allontanarsi da Roma assieme ai suoi genitori, che ben presto perderà durante il suo lungo e lento peregrinare a ritroso lungo la Valtiberina, predicando quella fede cristiana che lo aveva costretto all’esilio. Libero ormai dai vincoli familiari, Crescentino, risalendo la Valtiberina, si diresse a Tifernum Tiberinum, un’antica città dell’Umbria oggi nota con la denominazione di Città di Castello. Il giovane ex-soldato romano, espulso dall’esercito per la sua fede cristiana, trovò quella nobile città completamente immersa nelle tenebre del paganesimo e nelle oscure pratiche della superstizione idolatrica. Ecco, dunque, materializzarsi innanzi alla sua purissima fede il fierissimo mostro dell’idolatria da combattere con tutti i mezzi delle eterne verità cristiane; ecco ragionevolmente spiegata la passio fabulosa descrivente l’impari lotta sostenuta dal giovane cristiano, che sfidò, contese e duellò aspramente col mefitico dragone della leggenda, suscitatogli contro dagli dèi falsi e bugiardi. Crescentino, difeso appena dalla corazza della sua cristiana virtù e armato soltanto dallo splendore della sua fede nel Vangelo, dopo impari lotta riuscì a debellare il fiero dragone del paganesimo tifernate, ottenendo la conversione al vero Dio sia dei cittadini, sia della popolazione del contado.
Nel frattempo, in tutto l’Impero erano state richiamate in vigore le inflessibili prescrizioni in materia religiosa decretate a suo tempo da Valeriano, le quali contemplavano la distruzione dei libri sacri e delle chiese, la confisca dei beni e l’arresto delle gerarchie ecclesiastiche. Poiché dopo l’abbattimento della chiesa di Nicomedia in Bitinia, sede di Diocleziano nella sua qualità di Augusto, era scoppiato nella reggia un violento incendio, ritenuto doloso ed opera vendicativa dei cristiani, il sovrano giunse finalmente a decretare nel 303 che tutti gli abitanti dell’Impero dovessero compiere atto pubblico di culto alle divinità ufficiali dello Stato, e che il rifiuto di obbedienza dovesse essere punito aspramente come crimen publicum. Il relativo editto, impositivo, come sempre avveniva, per tutti e quattro i Tetrarchi, fu attuato con maggiore o con minore intensità nelle quattro giurisdizioni imperiali: abbastanza blandamente da Costanzo Cloro a Treviri sul Reno, severamente da Massimiano a Milano, acerbissimamente da Galerio a Sirmio sul Danubio e inflessibilmente dallo stesso Diocleziano nel territorio di sua diretta pertinenza, perché egli prendeva sempre sul serio qualunque cosa avesse deliberato di fare, convinto che gli insuccessi delle persecuzioni precedenti obbligavano ora ad essere più radicali e spietati. Così, molti tra i più illustri Martiri che veneriamo, furono vittime di quest’ultima cruentissima persecuzione.
In tale contesto legislativo, essendo pervenute alle orecchie di Flacco, Prefetto dell’Etruria, le gesta cristiane compiute da Crescentino a Tifernum, località dipendente dalla sua giurisdizione, il funzionario imperiale ordinò al giovane ex-militare di abbandonare subito la religione cristiana sotto pena di morte se egli avesse osato rifiutare. Le intimidazioni di Flacco accesero nel cuore generoso di Crescentino la fiamma della charitas Christi, che lo infiammò fino all’estrema dedizione di sé, inducendolo alla predicazione della vera fede per chiamare ed educare alla religione cristiana folle di proseliti, tra i quali Dio operava numerosi miracoli suo tramite. Allora, il prefetto Flacco fece trascinare il giovane ex-soldato di Roma nel tempio di Giove perché prestasse pubblico culto agli dèi dell’Impero o si preparasse a subire le più atroci torture e la morte. Al reciso rifiuto di Crescentino, il funzionario imperiale ordinò che il giovane fosse gettato entro un rogo ardente, ma tra lo stupore di tutti gli astanti Crescentino scampò immune dalle fiamme mentre cantava inni di lode a Dio. Constatato l’insuccesso del supplizio, con furia maggiore Crescentino fu condotto di nuovo nel tempio di Giove per indurlo ancora una volta a prestare culto agli dèi. Ottenuta un’altra recisa repulsa, fu denudato come un malfattore, trascinato per le strade con una corda al collo e infine decapitato: era il 1° giugno dell’anno 303 dell’era cristiana.
Nonostante la furiosa persecuzione in atto, alcuni cristiani si recarono coraggiosamente nel cuor della notte sul luogo dell’esecuzione per dare onorata sepoltura ai resti mortali di quel valoroso atleta di Cristo, che a soli ventisette anni aveva conseguito la splendida corona del martirio per il trionfo della vera fede. In gran segreto le venerate spoglie furono trasportate e sepolte entro la fitta selva di Saddi, un’impervia località nell’agro tifernate, dove furono accolti e deposti anche i corpi tormentati dei più fedeli seguaci e compagni di Crescentino, i quali “consumarono gloriosamente il santo martirio” tre mesi e dieci giorni dopo il loro Campione, il 10 settembre 303; essi si chiamavano Grivicciano, Giustino, Fortunato, Benedetto, Orfito, Eutropio, Esuperanzio e Viriano.
IL BEATO MAINARDO, VESCOVO DI URBINO, CHIESE A FULCONE, VESCOVO DI TIFERNO, LE RELIQUI E DI UN SANTO MARTIRE ROMANO
Nel 1068 reggeva la Chiesa urbinate il 12° vescovo, Mainardo, che sedette sulla cattedra episcopale dal 1056 al 1088. Egli era uomo insigne per santità, dottrina e magistero autorevole, definito da San Pier Damiani, non uso a lodi esagerate, “gemma preziosa in mezzo a tanta fanghiglia e vescovo di veneranda santità”. Poco dopo esser stato eletto vescovo di Urbino, Mainardo decise di edificare una nuova cattedrale entro l’antica cinta muraria della città, che a quei tempi recingeva appena la sommità del Poggio, il colle sul quale si eleva ancor oggi la gran mole del Palazzo Ducale e dell’adiacente Duomo. La decisione scaturiva sicuramente dalla necessità “politica” di rendere più “visibile” la presenza del vescovo nel centro storico della città, rimasto per secoli e secoli quasi aristocraticamente chiuso all’espandersi delle borgate, che via via si andavano popolando ed estendendo tutto all’intorno sotto l’antico perimetro, molto più tardi, nel Cinquecento e nel Seicento incluse entro le mura erette dai Duchi feretrani e rovereschi. Cosicché, sicuramente durante il dominio bizantino, la primitiva cattedrale era stata edificata al di fuori della porta maggiore della città, in una borgata che s’andava sviluppando oltre il Pian di Mercato, alle falde dell’erto colle settentrionale, denominato Monte di San Sergio proprio dal nome del santo titolare della cattedrale ivi ubicata. E San Sergio era il celeste Patrono delle milizie bizantine, il quale aveva subìto il martirio a Raşâfah in Siria nel III secolo. Tali considerazioni inducono a riflettere che la scelta del titolare della cattedrale urbinate extra mœnia significasse non soltanto una esplicita dipendenza bizantina di Urbino nel campo politico e amministrativo, ma anche in quello religioso, determinando ciò delle implicazioni abbastanza delicate sia circa l’ortodossia, sia circa la conseguente conservazione della purezza della fede cattolica costantemente minacciata dalle eresie, come quella ariana assai diffusa nell’Esarcato. (Foto: Il Beato Vescovo Mainardo arriva in Urbino con le reliquie di San Crescentino, Urbino, Cappella privata dell'Arcivescovato-.
Quindi, la traslazione della cattedrale da San Sergio a Santa Maria in Arce, favorita dal vescovo Mainardo, ha voluto certamente evidenziare l’indefettibile fedeltà della Chiesa urbinate alla Sede Apostolica, cosicché il pio vescovo di Urbino desiderò mettere in risalto tale attaccamento al romano pontefice, vagheggiando un santo martire romano come protettore della sua diocesi. Sapendo che a Città di Castello erano venerate numerose reliquie di martiri, il vescovo Mainardo si rivolse a Fulcone, vescovo della diocesi contigua, per ottenere dalla sua generosità le spoglie mortali di uno dei martiri venerati nella sua Chiesa. Essendo a Fulcone ben note le virtù e la fama di santità del confratello urbinate, acconsentì volentieri alla pia richiesta, proponendogli di venire a prendere le reliquie del glorioso martire Crescenziano, venerate con altri santi nella Pieve di Saddi, sorta nei pressi della folta selva, in cui erano stati sepolti i martiri della persecuzione dioclezianea. Circa la metà di dicembre, in giorni di freddo intenso, Mainardo, accompagnato da alcuni rappresentanti del clero e dei cittadini di Urbino, valicò il nevoso Appennino e giunse a Saddi nel contado di Città di Castello per ricevere le venerate spoglie del martire Crescenziano destinate ad ornare e ad onorare la Chiesa urbinate. Non volendo privare del tutto la Chiesa tifernate delle reliquie di quello splendido evangelizzatore dell’alta Valtiberina e strenuo Campione della fede, il vescovo Fulcone volle riservata a Città di Castello la testa del martire, mentre concesse a Mainardo le altre ossa del corpo del santo, le quali furono devotamente collocate in un’urna di legno adatta al trasporto. Mentre il vescovo, il clero e i cittadini di Urbino erano devotamente intenti a far ritorno alla loro città, calcando i malagevoli sentieri dell’Appennino, si avvidero d’essere inseguiti con propositi pugnaci dai Castellani, che si erano accorti con disappunto della ignorata e quasi furtiva traslazione di uno dei loro santi. Erano essi ben determinati a farsi restituire il sacro carico dagli Urbinati, altrettanto decisi a difendere le proprie ragioni, allorché – narra la passio fabulosa del Santo - improvvisa si levò una fittissima nebbia a dividere i contendenti e a disperdere gli inseguitori. In tal modo, il vescovo Mainardo e i suoi compagni scamparono dal pericolo e poterono raggiungere Urbino la sera del 18 dicembre 1068 con le sacre reliquie del santo Patrono, accolto dal suono di tutte le campane della città. A commemorazione dell’avvenimento, da quella sera, mezz’ora prima dell’Ave Maria, la campana maggiore del Duomo ha richiamato gli Urbinati tutte le sere con alcuni rintocchi per invitarli alla devota recita dei “Paternostri di San Crescentino”, che fino al 1875 erano anche annunciati dagli squilli delle trombe municipali, che i trombetti o tubatori del Comune sonavano dalle finestre del Palazzo Pubblico.
Il corpo del Santo Patrono fu deposto dal beato vescovo Mainardo nella cripta della nuova cattedrale, che egli andava erigendo sull’arce scoscesa della città in onore della Vergine Maria Assunta in Cielo e del Martire Crescentino, fissando la festa patronale il 1° giugno di ogni anno, che viene ancor oggi celebrata con una solenne liturgia e una partecipata processione.
(Bibliografia: Alessandro Certini, Vita di San Crescentiano Martire, Protettore di Città di Castello e di Urbino ove con il nome di Crescentino è chiamato, per Nicolò Campitelli, in Foligno 1709; Serie distinta degli avvenimenti nella caduta della cupola della Chiesa Metropolitana d’Urbino, nella Stamperia della Ven. Cappella del SS. Sagramento, presso Giuseppe Maria Derisoni, in Urbino 1789; Crescentino Valenti, Compendio della vita e martirio di San Crescentino Protettore principale di Urbino, per Giuseppe Rondini coi tipi della V. Cappella del SS. Sacramento, Urbino 1854; Bramante Ligi, I Santi protettori di Urbino, Urbania 1968; Loris Giacchi, San Crescenziano da Tiferno, Petruzzi Editore, Città di Castello 2003-.
Luciano Ceccarelli