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Urbinati indimenticabili

Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Biografia

Parroco esemplare

Memorie e Meriti:

C.Bo: Spirito di libertà

Croce di guerra

Resistenza: perdono ai vinti; ricostruzione

Prete di tutti

Umanità e Religiosità

Ci abituò a ragionare

Una presenza amica

Consigliere vivace

Religione e laicità: uno dei nostri

 

 

Biografia essenziale

 

Nato a Urbino il 18.12.1909. Ordinato sacerdote il 13.12.1933.Morto a Urbino il 25.09.1982

E' stato indiscutibilmente una figura tra le più significative del clero urbinate in questi ultimi cinquantanni.

Incisiva la sua presenza ed operosità nei più svariati settori:

dal 1934 al 1962 parroco di S. Sergio;

dal 1962 canonico della Metropolitana Basilica;

dal 1937 insegnante di religione nelle Scuole Statali

dal 1957 assistente diocesano delle ACLI e viceassistente provinciale ;

dal 1945 al 1957 assistente diocesano in vari rami dell'Azione Cattolica;

presidente della P.O.A. , a lui si devono le prime Colonie diocesane;

membro della Commissione di Arte Sacra e primo Direttore del Museo Diocesano;

membro della Commissione del lavoro nel primo Consiglio Pastorale Diocesano dal 1969.

 

Tutta la vita urbinate, non solo ecclesiastica ma anche civile, sentì l'apporto costruttivo e stimolante della sua personalità."

( Dal Bollettino Diocesano   Dicembre 1982

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un piccolo album di foto di don Gino

 

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

LETTERA  DI  COMMIATO  DAI  PARROCCHIANI

 

Documento prezioso, che permette almeno di intravvedere la ricchezza e le genuinità delle virtù sacerdotali di don Gino, sono queste righe scritte, con animo evidentemente commosso, sofferente e sereno, quando fu invitato a lasciare la cura pastorale della parrocchia di San Sergio.

 

Miei parrocchiani carissimi,

da parte di S. E. Rev.ma Mons. Arcivescovo, ho ricevuto un invito paterno per altra destinazione: lo accetto naturalmente, pensando che possa essere bene — dopo il primo doloroso strappo del territorio di S. Sergio passato all'Annunziata, come era giusto e necessario — completare anche l'opera di rinnovamento. Molti anni fa, quasi 28 ormai, fui invitato a scegliere il mio lavoro di Sacerdote: scelsi la Parrocchia perché sono convinto, come allora, che la esperienza umana e cristiana di un Sacerdote si costruisce soprattutto in mezzo alla vita degli uomini, misurando ogni giorno insieme la parola di Gesù:   « ad ogni giorno basta il suo peso »;  e imparando dalla realtà, « non vi affannate dunque per il domani, perché il domani avrà il suo affanno » (Matt. VI, 34-.

Vi lascio con molto dispiacere: trent'anni sono gran parte della vita; e la debolezza umana consente la pena del distacco; o forse, in una certa misura, anche questa pena fa parte del comandamento « ama il prossimo tuo come te stesso ». Mi avete voluto bene: e me lo avete sempre fatto sentire; vi ho voluto bene: anche se non ve l'ho detto, a parole, forse mai. Vi sono grato con tutto il cuore: vi lascio come Parroco; resto e sarò sempre con voi come fratello: nella vita, nella Fede.

Penso, naturalmente, a questi molti anni: non ho mai voluto farvi del male: ho sempre desiderato fare del bene a tutti; con le parole, con l'esempio, con le azioni. Purtroppo non ho fatto il bene che avrei dovuto e potuto: ne chiedo perdono a voi e a Dio, come di tutti i miei lati negativi, piccoli e grandi.

Vogliate capirmi, se non vengo a benedire anche questo anno, di persona, le vostre case e ciascuno di voi: vi benedico in Dio tanto di più tutti con tutto il mio cuore. E vi mando qualche pensiero che possa restare con voi: accoglietelo col vostro animo buono e cristiano.

Abbiate sempre una grande Fede: è la sola luce che può illuminare tutta la vita, e la può rendere accettabile nonostante il suo peso.

Amate immensamente il Signore e la Vergine Santissima; col pensiero e col cuore, con le parole e con le opere.

Amate veramente l'anima vostra: pregate ogni giorno, bene; cercate spesso il perdono di Dio nella Confessione; ricevete spesso Gesù nella Santa Comunione. Combattete senza stanchezza ogni giorno, per difendere, per accrescere la vostra vita umana e cristiana nella Grazia.

Educate cristianamente con amore e fermezza i vostri figlioli, per prepararli alla vita e alla eternità.

Fuggite per coscienza il male spirituale, il peccato, come fuggite per istinto il male fisico.

Aiutatevi tutti sempre, materialmente e spiritualmente: sempre uniti nella nostra S. Sergio al Sacerdote che il Signore vi manderà a guidarvi più e meglio di me.

Accettate dal Signore la gioia con serenità, le pene con pazienza.

Cercate di non dimenticare mai, nel pensiero e nei fatti, che al mondo c'è solo una cosa che ha valore assoluto: la Bontà. Solo ad essere buoni non si sbaglia mai. Anche se è più facile capirlo, desiderarlo, che farlo.

Questi pensieri fanno parte della Verità: e « chi fa la Verità viene alla Luce ». (Giov. Ili, 21-.

E « la luce vera, quella che illumina ogni uomo che viene a questo mondo » (Giov. I, 9-, è il Figlio dell'uomo, il Figlio di Dio, Gesù.

Egli dia a noi tutti sempre, ogni Benedizione, ogni Grazia.

Buona Pasqua a ciascuno di voi.

Urbino, Pasqua 1962                         il vostro parroco

                                                                            Don Gino

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Spirito di libertà, non disgiunto da quello di generosità e semplicità
(estratto)
 

"...La prima volta che ho sentito il suo nome è stato più di quarantanni fa, ai tempi della guerra e per opera di due colleghi dell'Università, Ugo Niccolini, storico del diritto e Fabio Cusin, uno dei pochi storici del secolo dotato di straordinaria intelligenza...Niccolini e Cusin erano amici di questo prete e se la cosa non stupiva nel caso del primo che era cattolico, per Cusin si trattava veramente di una rarità, essendo il Cusin uno spirito ribelle, più che laico, leggermente volterriano. Che cosa ammirassero in questo prete antifascista in una città conformista come tante altre l'ho capito molti anni dopo, a pace ritornata. Ammiravano lo spirito di libertà non disgiunto da quello di generosità e di semplicità. Di professione insegnante(sono molti ancora i suoi discepoli diretti e quelli occasionali che ne serbano religiosa memoria- e poi parroco della chiesa più antica di Urbino, San Sergio. Per completare il quadro, va aggiunto che don Gino era un innamorato assoluto della sua città epperò si ricordano le sue battaglie civili in difesa di una nobiltà costantemente messa a repentaglio dal nuovo corso delle cose.

Questa è l'immagine pubblica del prete ma c'è quella tutta privata e naturalmente più importante del sacerdote , di chi non ha mai lasciato cadere una richiesta di aiuto, una invocazione. E' qui che la sua vera natura si manifestava, nel non fare mai domande di nessun genere, chi bussava alla sua porta trovava sempre un aiuto, anche quando la situazione poteva risultare disperata o dubbia. Una volta messo sull'avviso lasciava il povero , il bisognoso e correva a chiedere aiuto e non aveva pace fino a che i suoi desideri non fossero stati esauditi. Non so quale delle due famiglie- quella degli allievi o quella dei poveri-gli sarà più riconoscente nella stanza segreta del cuore ma è certo che i segni non sopportano la cancellazione assoluta né l'oblio totale. Ecco perché basta il nome di Don Gino per dare un segno, una luce o soltanto un riflesso ai quarantanni del suo ministero e della sua fedeltà.

Fra tante immagini nate e cresciute nel corso di mezzo secolo, ne scelgo una che mi sembra emblematica. Tornavo una notte da Macerata a Urbino, una notte di freddo e di pioggia ed ecco che poco prima di Fabriano ci vediamo venire incontro una motocicletta, guidata da un prete tutto infagottato ( ma visibilmente prete-: tutti quanti esclamammo: ma quello è don Gino. Dove andava, dove correva quel povero prete alla Bernanos nel buio e nel freddo della notte? Anche qui tutti i miei compagni di viaggio concordarono senza esitazione: a soccorrere qualcuno.

 

Carlo Bo

Magnifico Rettore dell'Università di Urbino

Da "IL Corriere della sera ottobre 1982"

 

 

« ... QUEL POVERO PRETE ALLA BERNANOS »

Carlo Bo   (integrale-

 

Qualche mese fa don Tarsia, direttore di Jesus, mi chiese un articolo sull'essere cristiani a Urbino, meglio nelle Marche. Cercai di raccogliere le esperienze e le memorie di quarant'anni e scrissi l'articolo che non aveva né poteva avere la pretesa di essere completo. L'ho detto, si trattava di impressioni e questa è una materia suscettibile di infinite correzioni. Comunque, non dimenticai di mettere in luce il capitale di eredità cristiana accumulato in tanti secoli, spesso illustrato dalla presenza di uomini di chiesa eminenti. Ma forse dimenticai di trattare con maggior agio un altro capitolo, molto più umile ma non per questo meno prezioso sul clero di quelle piccole città e delle campagne. Naturalmente anche nelle Marche c'è stata una rivoluzione nei costumi e nelle abitudini, c'è stata la diminuzione delle vocazioni, il fenomeno dei seminari finiti ormai da tempo, tuttavia restano dei segni visibili di una tradizione che non è venuta meno. Per chi poi ha corso la gran parte della vita resta il sussidio della memoria, le immagini dei preti che ha conosciuto, quel loro modo di essere liberi e nello stesso tempo fedeli (parlo dei migliori-. E qui mi riappare agli occhi della memoria la figura di un prete di Urbino, don Gino Ceccarini, meglio don Gino tout-court.

La prima volta che ho sentito il suo nome e evocare la sua figura è stato più di quarant'anni fa, ai tempi della guerra e per opera di due colleghi di università, Ugo Niccolini, storico del diritto e Fabio Cusin, uno dei pochi storici del secolo dotato di straordinaria intelligenza, se non di visioni geniali. Niccolini e Cusin erano amici di questo prete e se la cosa non stupiva nel caso del primo che era cattolico, per Cusin si trattava veramente di una rarità, essendo il Cusin uno spirito ribelle, più che laico, leggermente volterriano. Che cosa ammirassero in questo prete antifascista in una città conformista come tante altre l'ho capito molti anni dopo, a pace ritornata. Ammiravano lo spirito di libertà non disgiunto da quello di generosità e di semplicità. Don Gino era un curioso impasto di diversi movimenti interiori, a volte apparentemente in contrasto fra di loro: cosa che poteva lasciare perplessi (e infatti li lasciava- gli uomini d'ordine, chi preferisce trovare sempre una corrispondenza diretta fra il nome e la cosa, fra la funzione e l'anima. Di professione insegnante (sono molti ancora i suoi discepoli diretti e quelli saltuari o occasionali che ne serbano religiosa memoria- e poi parroco della chiesa più antica di Urbino, San Sergio. Per completare il quadro, va aggiunto che don Gino era un innamorato assoluto della sua città epperò si ricordano le sue battaglie civili in difesa di una nobiltà costantemente messa a repentaglio dal nuovo corso delle cose. Su questo punto non era disposto a transigere e a volte poteva arrivare a gridare la sua passione con violenza e senza false indulgenze e pietà. Questa è l'immagine pubblica del prete ma c'è quella tutta privata e naturalmente più importante del sacerdote, di chi non ha mai lasciato cadere una richiesta d'aiuto, un'invocazione. E' qui che la sua vera natura si manifestava, nel non fare mai domande di nessun genere, chi bussava alla sua porta trovava sempre un aiuto, anche quando la situazione poteva risultare disperata o dubbia. Una volta messo sull'avviso, lasciava il povero, il bisognoso o anche ohi si ammantava dei colori del povero e correva a chiedere aiuto e non aveva pace fino a che i suoi desideri non fossero stati esauditi. Non so quale delle due famiglie — quella degli allievi e quella dei poveri — gli sarà più riconoscente nella stanza segreta del cuore ma è certo che certi segni non sopportano la cancellazione assoluta né l'oblio totale. Ecco perché basta il nome di don Gino per dare un segno, una luce o soltanto un riflesso ai quarantanni del suo ministero e della sua fedeltà.

Fra tante immagini nate e cresciute nel corso di mezzo secolo, ne scelgo una che mi sembra emblematica. Tornavo una notte da Macerata a Urbino, una notte di freddo e di pioggia ed ecco che poco prima di Fabriano ci vediamo venire incontro una motocicletta, guidata da un prete tutto infagottato (ma visibilmente prete-: tutti quanti esclamammo: ma quello è don Gino. Dove andava, dove correva quel povero prete alla Bernanos nel buio e nel freddo della notte? Anche qui tutti i miei compagni di viaggio concordarono senza esitazione: a soccorrere qualcuno. Pensare agli altri, parlare per gli altri, don Gino non ha smesso di farlo fino a quando la salute glielo ha consentito. E oltre: ricordo la sua ultima visita in ufficio, don Gino si era trascinato — è la parola — su per le scale, aiutato dagli uscieri. Non era più quel prete forte amico di Cusin, era un malato grave, eppure né lo spirito né la parola erano mutati. Quel suo « Lei mi deve aiutare » era ancora lo stesso e penso che questo sia stato per me e per quanti lo hanno conosciuto il suo vero e unico testamento di uomo di Dio.

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Croce al merito di guerra

 

Il temperamento attivo di Don Gino e le sue virtù di uomo forte trovano efficace manifestazione nella multiforme azione svolta a Urbino nei momenti duri della guerra, della occupazione nazista e della resistenza. Ricordiamo ad esempio la sua partecipazione alla fondazione del Comitato di Liberazione di Urbino, l'aiuto dato agli ebrei perseguitati e nascosti nei conventi o nelle campagne, o nella stessa canonica, a rischio della propria vita . Per il coraggio e la capacità di sacrificio con cui si è distinto in tali circostanze, egli è stato insignito della Croce al merito dì Guerra.

 

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

UN  VERO  MAESTRO  DI  VITA

Lo rividi nel dopoguerra, quando era tutto indaffarato ad aiutare i vinti,

 Di Antonio Brigidi

 

Ho conosciuto don Gino Ceccarini nel lontano 1932. Ero bambino e ricordo questo giovane magrissimo con lo sguardo penetrante e profondo, vestito da seminarista: veniva in bicicletta da Urbino a casa mia a Sasso, sulla strada che porta a Pesaro. Venne più volte: mia madre preparava delle cresce sfogliate molto buone. Lo rividi nel dopoguerra, quando era tutto indaffarato ad aiutare i vinti, che aveva prima combattuto quando erano i padroni ingiusti ed arroganti: cercava di inserirli nel nuovo sistema democratico, difendendoli come uomini nel loro diritto alla vita. Sono stato sempre colpito da questa umanità, da questa comprensione verso coloro che soffrono, da questo suo vero amore verso il prossimo.

Mi è sempre apparso un uomo superiore: sprizzava intelligenza, amava la musica e l'arte e se ne intendeva veramente, non mostrava alcun attaccamento alle cose terrene, ma quello che soprattutto colpiva era il calore umano, la comprensione verso tutti, poveri e ricchi, con i loro tanti problemi, spesso creati dalla cattiveria altrui. Mentre molti di noi sono sempre pronti a criticare e giudicare gli altri, don Gino, vero uomo di cuore, era sempre per la comprensione, ma quella vera, quella cristiana.

Per me è stato un maestro, colui che ha cercato di inquadrarmi nella vita, colui che mi ha fatto capire i valori dell'esistenza e per i quali vale la pena veramente vivere. Mi esortava alla modestia, non all'ambizione e all'avidità delle cose materiali. Era solito dire: « Le medaglie e gli onori non allungano né accorciano la vita ». E col suo sorriso un po' malizioso:   « Se nella vita incontrerai una persona veramente intelligente, sarai un uomo fortunato ».

E quando mi lamentavo di questo o di quello: « Devi aver pazienza — diceva — perché l'umanità è la vigna del Signore e nella vigna ci sono viti buone, che danno molto frutto e viti cattive, che ne danno poco, e ci sono i pali e tutto è utile e va rispettato ». 

 

Attivo nella "resistenza" urbinate

"La sua presenza e la sua opera nella Resistenza Urbinate rappresentavano un apporto diretto e indiretto di settori importanti ed egli non ebbe remore a collaborare con uomini di ben diverse ideologie"

(Da una memoria di GIUSEPPE  MARI      

Qui di seguito riportata-      

 

 

 

 

IN QUEI LONTANI TEMPI

Giuseppe Mari

 

Don Gino fu innanzitutto amico di giovinezza, quando si vive intensamente il presente ma si pensa anche molto al futuro di se stessi e di tutti. Ricordo all'inizio degli anni '30 le lunghe passeggiate verso le Cesane insieme ad altri amici. Egli era un giovanissimo sacerdote, ma già emergente per la spiccata personalità. Di piacevolissima compagnia per la sua cultura, il suo acume vivace, identificava, penso, un suo ruolo cercando il rapporto con gli altri giovani, sostenendo le sue tesi, provocandoci con ironia bonaria. La sua bontà contribuiva a mantenere gli esasperati dibattiti entro una atmosfera di cordialità.

Io e altri giovani che lo conobbero, si giovarono molto, pur nelle diverse strade intraprese, della sua umanità, del suo equilibrio.

Per anni poi poco ci vedemmo: io, don Gino e altri di quella generazione ci ritrovammo fianco a fianco all'inizio della Resistenza. Era allora un uomo che contava, sapevamo che godeva la fiducia di alte autorità, che poteva decidere. Era pronto nell'impegnarsi con coraggio fisico e morale. Lo ricordo una sera del novembre 1943, seduto accanto a me in una riunione in una casa di Pozzo Nuovo dove si decise di raccogliere indumenti, viveri e ogni altro materiale per sostenere i giovani partigiani che già si trovavano in montagna. La sua presenza e la sua opera nella Resistenza urbinate rappresentavano un apporto diretto e indiretto di settori importanti ed egli non ebbe remore a collaborare con uomini di ben diverse ideologie.

Dopo la guerra ci perdemmo ancora di vista, noi gli amici degli anni verdi.

Non ci permettiamo di giudicarlo come sacerdote anche se sapevamo che esercitava il suo ministero con onestà ed equilibrio, ricordiamo però con rimpianto ed affetto l'uomo di valore, il caro amico.

 

(Memoria pubblicata in « Pesaro-Urbino » - Periodico dell'Amministrazione Provinciale - Anno II -n. 4 del 31-12-1982-.

 

 

Uomo della ricostruzione

 

 "Ora è certo che quasi tutti quelli della generazione nostra debbono qualcosa a don Gino; ma tanto più gli deve Urbino, sia negli anni di guerra sia in particolare nei decenni della ricostruzione e di dopo, e in ogni campo: dalla cultura all'assistenza, alla politica; dalla istituzione di nuove scuole superiori e di livello universitario, alla difesa e potenziamento della nostra Università; alle grosse iniziative industriali e artigianali; sempre tuttavia con il preciso intento dell'affermazione di ideali di progresso civile e sociale"

Walter Fontana

(di seguito versione integrale-

«DON GINO»

Walter Fontana

 

Il primo incontro con don Gino Ceccarini resta legato alla nostra fanciullezza: sempre memori di una sera d'inverno, tra tanti ragazzi, entro una vasta stanza della nostra parrocchia di S. Paolo, presente il Priore don Luigi Battelli: fu allora che per la prima volta incontrammo un giovane prete dotato di grande energia, con una voce forte e rotonda che trascinava tutti a cantare allegramente motivi sconosciuti, pieni di foga e di brio, quali: « Alla fiera di Mastro André ... ». E noi ci chiedevamo, anche in seguito, da dove fosse uscito quel sacerdote tanto diverso dagli altri, così carico di entusiasmo, già popolarissimo, che correva dovunque a portare un soffio nuovo, « in primis » entro la Sua parrocchia cittadina di San Sergio . . . Più tardi tuttavia i nostri intensi doveri scolastici, la distanza tra la nostra parrocchia e la Sua, l'Università fatta fuori di Urbino, ce lo fecero perdere di vista. Ma dopo molti anni, già laureati e docenti e da poco convertiti alla fede, fummo da Lui appositamente cercati e caldamente invitati a lavorare insieme, nell'ambito dei Laureati Cattolici di Urbino.

Forse, senza quell'intervento di don Gino, saremmo rimasti appartati e chiusi in noi stessi. Comunque da allora si stabilì tra noi e don Gino un'amicizia profonda e perenne, fatta di grande confidenza e di stima, di incontri sempre più positivi, di collaborazione stretta, con la massima apertura verso tutti i problemi: da quelli religiosi a quelli culturali, da quelli scolastici a quelli sociali, da quelli cittadini a quelli politici.

Don Gino divenne allora per noi e per altri amici un preciso punto di riferimento, uno stimolo, un aiuto, un appoggio, l'uomo di azione capace di decidere rapidamente e di agire tempestivamente. ■ In verità gli si aprivano tutte le porte, da quelle laico-amministrative ! a quelle curiali. Ci si intendeva subito e si partiva non senza entusiasmo, sempre con intendimento di fare qualche cosa di utile per la nostra comunità e per Urbino, al fine — come affermava — di « lasciare questa Città in condizioni migliori di come l'abbiamo trovata ». , Ora è certo che quasi tutti quelli della generazione nostra debbono qualcosa a don Gino; ma tanto più gli deve Urbino, sia negli anni di guerra, sia in particolare nei decenni della ricostruzione e di dopo, e in ogni campo: dalla cultura, all'assistenza, alla politica; dalla istituzione di nuove Scuole Superiori e di livello universitario, alla difesa e al potenziamento della nostra Università; alle grosse iniziative industriali e artigianali; sempre tuttavia col preciso intento dell'affermazione degli ideali di fede, di bontà, nonché di progresso civile e sociale.

Pertanto, se oggi di don Gino Ceccarini si sente la grande mancanza per la scomparsa della Sua carità aperta e inconfondibile nei riguardi del prossimo, molto più si avverte l'assenza di una personalità come la Sua, unica, capace di affrontare i più svariati problemi di una comunità depressa e colta come quella di Urbino; di dar loro quel taglio specifico tra religioso e umano che possedeva soltanto Lui; di essere infine nel mondo non essendo del mondo.

Chi lo udiva parlare soprattutto dal pulpito, capiva che si era nutrito profondamente di San Paolo Apostolo: San Paolo restava per don Gino un vertice irripetibile del pensiero e dell'azione; anzi il Suo era uno spirito veramente paolino che Lo moveva e Lo portava in ogni direzione: « Chi è debole senza che io ne soffra? Chi si scandalizza senza che io ne arda? » (II0 Corinti -29-.

Abbracciava infatti ogni causa solo che fosse buona e degna di essere aiutata, ma soprattutto sentiva la difesa degli umili e dei deboli: anzi ci confidava che la Sua vocazione al seminario e al sacerdozio era nata come reazione improvvisa, proprio per aver assistito, Lui ragazzo libero, ai dileggi e agli insulti cui erano sottoposti i seminaristi durante le loro passeggiate. Sì, proprio in difesa dei deboli, dei perseguitati e degli oppressi, di fronte ai potenti e ai prepotenti: di qui anche la Sua coraggiosa partecipazione alla Resistenza, la fondazione del Comitato di Liberazione di Urbino, l'aiuto dato agli Ebrei inseguiti e nascosti.

Certamente era uomo di carattere forte e di splendida energia morale: spiccavano in Lui la grande fedeltà ai principi e anche alle persone che onorava della Sua amicizia; la coerenza nel pensare e nel fare; la fede incrollabile nei valori della vita; la consapevolezza del primato del bene; la tolleranza verso le altrui idee e la larghezza di cuore di fronte all'errante; la Sua rettitudine di pastore e di uomo; la difesa soprattutto della verità, anche a costo di andare da solo contro tutto e contro tutti.

Dotato di forza fisica notevole e portato quasi naturalmente a battersi, finiva poi, anche alla luce della Sua pazienza cristiana, di rivestirsi di grande amabilità e dolcezza, acquisendo doti di tolleranza infinita e anche di singolare finezza spirituale e diplomatica.

Gli interessavano soprattutto le anime, e la santa preoccupazione di non perderle assolutamente, e per questo era disposto a qualunque umiliazione e a qualsiasi sacrificio; ed appariva sempre pronto e disponibile per tutti, in tutte le ventiquattro ore della giornata. Chiunque bussasse alla Sua casa di parroco, veniva in ogni momento amorevolmente accolto: e poiché quasi sempre si trattava di aiuto, don Gino non solo si vuotava di ogni Suo povero avere, ma partiva in missione per qualunque persona che fosse nel bisogno, senza indugio alcuno, inforcando la Sua « Vespa » per andare vicino o lontano, a prendere qualsiasi treno d'estate o d'inverno, di notte o di giorno. In questo, pur essendo di grande intelligenza e di accorta finezza con tutti, nonché capace di raggiungere con strategia sicura i fini spirituali che si era prefisso, di fronte a sé stesso agiva invece senza calcolo alcuno, anzi si gettava d'impeto nell'azione caritatevole, senza remore personali: e riguardo a tale dote è rimasta per noi persona unica.

Amava in modo particolare i fratelli consacrati da cui era riamato e stimato; i colleghi dell'Istituto d'Arte dove insegnò per tanto tempo e che a Lui si rivolgevano, anche come guida, per aiuto e consiglio; legava con tutti i giovani e con i Suoi studenti in particolare che educava al bene e al bello e con cui affrontava il dialogo su qualunque problema; e infine con i laureati e gli intellettuali della Sua città che erano sicuri di trovare in Lui non solo una intelligenza estremamente lucida, ma soprattutto doti singolari di coraggio e di cuore, e spesso il confidente o il padre spirituale. Alcuni Suoi interventi sulle persone che contavano allora nella vita di Urbino, sono stati determinanti, di fronte a certe scelte della massima importanza. Portato fin da giovane a giudicare le cose con la propria testa, all'indipendenza di giudizio, era tuttavia prudentissimo e ubbidientis-simo alla Chiesa e ai Vescovi; acuto e sensibile nel capire l'evolvere dei tempi nuovi, rimaneva tuttavia ben radicato alla forza dell'antica tradizione; appariva umile e soggetto agli anziani anche se tanto più limitati di Lui e fu fra i primi invece a intendere e a difendere Renata Nezzo e a soffrire per le incomprensioni che seguirono alla di lei scomparsa. E verso Mons. Petrangolini nutriva un'ammirazione sconfinata come di allievo nei riguardi del Maestro.

Era pronto a sacrificare per il bene degli altri e per l'apostolato, ogni cosa Sua più cara: anzi ogni Suo naturale talento. Valga per tutti la musica di cui era amantissimo e che avrebbe voluto molto di più praticare e coltivare; alla quale tuttavia sorridendo, si riprometteva di dedicare gli anni della Sua vecchiezza: vecchiezza che invece non conobbe, mentre conobbe il dramma della propria decadenza fisica e della immobilità coatta. Ma tutto ebbe in fondo ad accettare con cristiana letizia; poiché il sorriso Lui l'aveva sempre posseduto nel cuore e nell'anima, e poi sul viso aperto, accogliente e rasserenante; ed era in fondo un ottimista, soprattutto perché sperava in Dio; e ognora pronto a confidare paolinamente anche al di là di ogni speranza.

Aveva idee chiare e limpide e le esprimeva con semplicità espressiva proprio in tempi di linguaggi involuti ed ermetici; anche a costo di apparire elementare. Tuttavia la Sua semplicità andava molto in profondità e aveva il potere di rendere esplicito anche ciò che era complesso: così soltanto quando predicava dal pulpito usava socchiudere gli occhi per meglio penetrare e chiarire il mistero. Pochi avevano la Sua tenacia nel portare a termine un lavoro, una fatica, o ciò che si era prefisso; anche da solo e direttamente: pure se si trattava di fare il carpentiere o l'elettricista, poiché non Gli mancavano né la versatilità, né le capacità manuali: chi non ricorda ad es. il Suo apporto decisivo dato manualmente al « Museo Albani » dove ebbe a realizzare, pure di far risparmiare qualcosa, anche l'impianto elettrico ancora efficiente?

Poiché era avvezzo — Lui di umili origini — al distacco dalle cose e alla povertà, e chi entrava nella Sua abitazione di parroco, se ne rendeva subito conto. Pensò invece alla Sua Chiesa di San Sergio e appena gli fu possibile, intraprese i lavori di restauro con il ritrovamento di quel grande pavimento romano sottostante — di cui aveva udito da un sacrista l'esistenza —, nonché delle esedre e dei corduli di quella che forse era una grande piscina od una cisterna di acqua.

Inoltre con grande bravura riuscì a farsi consegnare, in anni ben difficili al riguardo, dal Ministero di Grazia e Giustizia, e quindi a restaurare, per il culto pubblico e per i Suoi parrocchiani in particolare, la splendida Chiesa urbinate settecentesca degli Scalzi, molto importante pastoralmente nel dopoguerra per essere ubicata verso le nuove costruzioni urbinati, al di fuori della vecchia cinta muraria.

Ma in fondo don Gino ci insegnò a mettere in pratica le principali verità della fede cristiana. Chi non ricorda quante volte insisteva nelle Sue prediche, con l'accento lapidario e con la voce inconfondibile — che calcava in particolare sugli aggettivi —, proprio sui primi due Comandamenti della Carità?: 1- «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente »; 2- « Amerai il prossimo tuo come te stesso ». E affermava che tutti i mali dell'uomo di oggi provengono dalla sua autosufficienza di fronte a Dio, cioè dalla mancanza di umiltà.

Così riusciva perfettamente ad attuare in sé le tre Virtù Teologali: Fede, Speranza e Carità; nonché quelle Cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Ora se a queste Virtù si aggiungono i Sette doni dello Spirito Santo: Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà, Timor di Dio, avremo forse completa l'immagine dell'Uomo di Dio, veramente di antica tempra, che camminava, in modo nuovo e moderno, sopra i binari sicuri di una fede biblica. Eppure don Gino, prima parroco e poi canonico, rimane nella nostra mente e nel nostro cuore come un esempio unico e raro, e tanto più ripensato con nostalgia in tempi quali i nostri attuali, sempre più avari di personaggi come Lui, forti, sicuri e completi: amico di tutti e amato da tutti; cultore della musica e sensibile all'arte; amantissimo di Urbino; militante e combattente di razza; dalla mente aperta e dal cuore largo; con le mani bucate; disponibile e al servizio del prossimo di ogni parte politica e di ogni estrazione; entusiasta infine come un fanciullo di fronte alla vittoria del bene, allo splendore della bontà e alla luce del bello.

 

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Don Gino, prete di tutti

" Don Gino prete di tutti: ha aiutato tutti, ha consigliato tutti, non ha mai respinto nessuno. La sua casa e la sua povera mensa erano aperte all'invasione dei ragazzi, in un'ansia di apostolato e in fervore di iniziative di cui fu strumento anche la propensione artistica e la forte cultura di don Gino, per cui San Sergio fu anche il cenacolo dove passarono i migliori giovani e gli uomini di cultura, ad ascoltare musica e a sentire Radio Londra o a chiedere consiglio e conforto, a dibattere tematiche ideologiche e problemi di vita. Sono passati i Massolo e i Cusin, i Nuvoloni e i Branca e un po' tutti gli intellettuali di Urbino. Egli aveva il garbo e l'ecumenismo della intelligenza cattolica. Tra i ragazzi del suo primo oratorio, predilesse quello senza famiglia, lo sfamò, lo educò ne fece un uomo, e quello malaticcio, gobbo, dagli occhi eternamente rossi o di malattia o di pianto, e lo confortò realizzandolo nella musica, rendendogli sereni i pochi anni della sua breve esistenza.

Don Gino protesse gli ebrei e gli antifascisti: poi, a guerra finita, protesse anche gli ex fascisti, per mitigare le vendette, per sostenere le famiglie degli epurati. Fu amico dei rossi e dei bianchi. Guidò noi giovani nella scelta democratica, aborriva la retorica e la faziosità; non chiese mai nulla per sé... Si concesse solo una vetusta lambretta con cui correva a Pesaro a sbrigare le pratiche di poveri parrocchiani, ai quali additava il cielo senza dimenticare le necessità di questa terra. E' morto un prete-prete, un amico e un servo di tutti.

avv. Renato Valentini

Pubblicato in "Primavera" Pesaro-novembre 1982-
 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Umanità e religiosità
(estratto)

Don Italo Mancini, docente presso la Università di Urbino e quivi fondatore e direttore dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose, ne ricorda le doti di 'grande cristiano': ".. .Ma a Urbino don Gino era soprattutto il parroco di San Sergio. ..la parrocchia egemone della città: lì solo c'era un cappellano, azione cattolica fiorente, liturgia con un pizzico di azzardo, il cortile per gioco dei ragazzi. Perché quella di Don Gino era una casa aperta, indivisa. Lo studio di don Gino, che mi impressionava per le grandi collezioni Utet e per le tante incisioni alle pareti, era un crocevia della città. C'era sempre gente in attesa, sempre don Gino ad ascoltare, a consigliare, prendere un nome, un appunto, combinare un intervento. Don Gino era fedele nell'amicizia e riconosceva ì suoi. Ma c'era per tutti, anche se con presenza diversa. A noi suoi discepoli aveva insegnato la scelta dei poveri, la politicità della vita e di ogni gesto umano, la noncuranza del potere, di quello inteso come dominio, non di quello inteso come servizio e come qualità, il gusto della produzione, il rigore dell'analisi. Ci aveva insegnato ad amare la chiesa e lo stare dalla nostra parte con lucidità e senza fanatismi, sempre pronti alla revisione, a lasciare aperte le porte al confronto dovunque e comunque sì fosse fatto sentire, a non aver paura del coraggio e anche dell'urto ma solo della fiacchezza e della viltà.

La preoccupazione di don Gino fu anche per la nostra comunità cittadina.. .Due risultati vanno messi in prima fila, e non trovarono don Gino a lottare da solo, anche se pochi con la sua tenacia, lucidità di mosse e tempismo negli interventi. La battaglia perché Urbino rimanesse diocesi con vescovo proprio e la battaglia perché la nostra Università rimanesse pubblica e libera. Quando fu fatto canonico, fu guidato nei'capìtoli' da una direttiva costante e acremente difesa: rispetto dei beni della comunità, soprattutto se chiese e chiesette, non licet per vendite e distruzioni di patrimoni che non sì ricostruiranno mai più: anche qui l'intelligenza al posto dell'azienda...

Questa doppia fedeltà a Dio e alla gente, mi pare il testamento, non scritto ma vissuto, di don Gino. "

don Italo Mancini
(da una lettera ai famigliari-

 

DON GINO, GRANDE CRISTIANO

Italo Mancini   (Lettera Completa-

Non sono molte le cose che ho invidiato nella vita. Ma di essere don Gino, sì.

Avevamo radici vicine: le divideva e, insieme, le univa il Foglia. I miei erano mezzadri alla Costa Nuova, un podere tutto calanchi, rupestre, una dannazione. I suoi oltre al fiume, alle Foreste Nuove, un podere bello e verde, girato torno torno da una panciuta ansa del Foglia, che però non stava ai patti con gli argini, e talora non lasciava mietere quanto si era seminato. Don Gino era fedele e fiero di queste sue radici, anche se padre e madre si erano fatti cittadini di Urbino. Credo che molta della sua forza, la scelta della povera gente, l'essere-per-gli-altri, che rappresenta la sua definizione essenziale, arrivasse da queste radici plebeo-contadine. Don Gino veniva spesso su queste sponde del Foglia e quando la pioggia irriguardosa faceva del fiume un immenso pantano e quando nella calura estiva i greti erano sproporzionati per il filo d'acqua che quasi si vergognava di correre e indugiava tra le pietre grasse di licheni in pozzanghere giallastre. La terra è bella, ma attraverso i vetri del salotto borghese che attende la rendita, a viverci come si viveva noi, tra le seccie, il pascolo, la raccolta delle ghiande, è un'altra cosa.

Io invidiavo don Gino quando lo accompagnavo dai suoi parenti perché riusciva ad essere come uno di loro: preoccupazioni della gente, della salute, dei campi erano le sue. A me non riusciva, la cultura dei libri e anche una concezione separata del prete si frapponeva come un diaframma. Don Gino che aveva una cultura geniale, basata più sulla creazione che sulla memoria e aveva un sacerdozio in cui, come dice l'amico padre Turoldo, tutti hanno il diritto di riposare dalle loro fatiche, ci riusciva a pieno. Né questa era la semplicità di chi non ha talenti e non farà mai l'indagine, era la semplificazione dotta di chi l'indagine l'aveva fatta tutta, anche se non attraverso le lunghe stagioni della scrittura e della critica, ma attraverso le marce ridotte della intuizione che colpisce nel segno.

Sia detto tra parentesi: se l'estro di don Gino avesse trovato una regola culturale con tempi e modi di cui non potè disporre penso che oggi potremmo fare ampiamente ricorso alla produzione più che alla memoria. Non perché il discorso ampio non possa essere fatto: anzi lo si dovrà, perché per mezzo secolo, tra il '30 e 1"80, la vita della nostra diocesi è per tanta parte legata alle sue intuizioni, alle sue attività, alla sua presenza.

Quando veniva a Schieti per le feste e per le messe domenicali — quanta gente ha sostituito per queste necessità in ogni tempo dell'anno e in ogni luogo della diocesi: e don Gino non ha mai avuto la macchina! — arrivava spesso con un libro, un libro nuovo, importante, e lo portava sul pulpito, lo commentava alla gente, leggendo affascinato, e questo suscitava nel piccolo ragazzo, che non finiva di guardare quegli occhi straordinariamente lucidi, intelligenti, ironici e staccati che prendevano uno spicco particolare su quel volto bianco, quasi pallido, sempre molto giovanile: la cosa che Dio non gli ha toccato, perché quegli occhi erano intatti anche nelle ultime malferme apparizioni in Duomo: occhi intelligenti ma fermi, acuti, ma non sentimentali, l'ironia come distacco critico era la nota dominante della sua personalità, guai a cascarci dentro da oppositori, erano scintille, perché una delle poche cose cui non poteva rinunciare, lui che non fumava, e non ho mai visto incline alla mensa, né agli abiti, né agli onori, né al danaro, era l'intelligenza —; questo suscitava grande impressione ammirata in me, piccolo ragazzo, leopardianamente ingordo di libri, che la prima volta che ne comprò uno, non scolastico, visse una serata da capogiro, anche per aver consumato denaro che la madre aveva dato per altro.

Seguendo la fantasia del ricordo, il mio primo don Gino io lo rivedo così, lungo le strade polverose o immaltate del Foglia, nelle grandi cucine delle case coloniche, sul pulpito della mia chiesa con quel libro in mano, e una volta era L'uomo, questo sconosciuto di Alexis Carrel, un libro che ha costituito il modello, attraverso cui sono passati tanti, di una cultura che legava acquisizioni scientifiche e valori spirituali, o, quanto meno, umani.

Quando sul finire del 1938, portato da don Giuseppe Nucci, venni al seminario, trovai don Gino mio docente di storia e parroco di San Sergio. Come docente don Gino era non solo imprevedibile per la straordinarietà dei temi trattati, ma soprattutto per una visione moderna e viva della storia: forse era l'unico docente che ci teneva aperti sulla vita cittadina, visto che allora il seminario era senza finestre come la mònade di leibniziana memoria. Quanto diverso da don Astolfì docente di storia di qualche anno dopo, che scoppiò in pianto raccontandoci l'impiccagione di Luigi XVI o la « charrette » di Maria Antonietta, e la storia per lui era narrazione pura, e il testo donde erano presi i racconti mi pare fosse quello di Cesare Cantù. Con don Gino entravano vitali folate di aria fresca nel chiuso delle nostre aule, che peraltro Guido Paolucci scaldava con tormentosi travagli critici e ermeneutici sulla letteratura italiana. Ricordo un giorno che don Gino era di incontenibile gioia per certe scoperte archeologiche (credo a Creta-, che avevano messo in luce costruzioni che preludevano a sistemi architettonici del nostro palazzo ducale. Debbo mettere le briglie alla memoria per non essere travolto dalla malìa dell'anamnesi: ma questo lo voglio ancora ricordare. Un giorno don Gino ci parlava di un giovane artista urbinate, di grande talento e di forte personalità, che si stava facendo con le proprie mani e che era rimasto fortemente impressionato da uno studio fiorentino degli affreschi del beato Angelico, nelle celle di san Marco: questo fascino di un tema cristiano su un uomo intelligente era per don Gino una cosa grande e bella. Il giovane era Renato Bruscaglia, e oggi tutti sanno a Urbino quanto don Gino avesse visto giusto sia per l'uomo come per l'artista.

Ma a Urbino don Gino era soprattutto il parroco a san Sergio. Più che al seminario, dove il lavoro non era molto, più che alla stessa « scuola del libro », il cui capitolo io non conosco, anche se intuisco e so che è stato grande, data la naturale inclinazione non solo per la musica, ma per l'arte in genere. Amava la musica, aveva, una raccolta di dischi ricca e rara, chiamava e educava altri all'ascolto, credo che il suo vero alto gioco fosse con queste melodie di Bach e di Beethoven, di Mozart e di Wagner. Don Gino era anche compositore e molti dei suoi tesi mottetti erano poi eseguiti dai cori giovanili, da lui stesso diretti, e sempre con effetti di sicura bellezza. In ciò gli era compagno d'anima un'altra fine e sensibile figura di interprete e di compositore, non meno ricco su una tastiera altrettanto vasta, ma più disciplinato da studi e da ricerche regolari, dico di Mario Severini, così prematuramente sottrattoci al godimento dell'organo in duomo.

San Sergio era la parrocchia egèmone della città: lì solo c'era un cappellano, azione cattolica fiorente, liturgia con un pizzico di azzardo, il cortile per gioco dei ragazzi. Perché quella di don Gino era una casa aperta, indivisa. Lo studio di don Gino, che mi impressionava per le grandi collezioni Utet e per le tante incisioni alle pareti, era un crocevia della città. C'era sempre gente in attesa, sempre don Gino ad ascoltare, consigliare, prendere un nome, un appunto, combinare un intervento. Nei primi tempi che ero venuto a Urbino, a san Sergio c'era anche un teatrino. Era una gioia per noi essere invitati. Come sempre con don Gino, non si era delusi. Protagonista di quelle recite era Piero Sanchini. Anche per lui molta acqua è passata sotto i ponti da quei lontani giovanili furori tragici, ma pure lui ha macinato molto. Lo ricordo dolente e intorto come il « torso » dei musei vaticani, gli occhi alla ricerca di una luce che non fosse banale e il tormento come regola di vita. A noi piacevano queste cose coturnate, ingrandivano la povera misura della nostra vita.

Non capivo di fascismo e di antifascismo, anche perché nel mio paese si era rimasti ai segni e alle lotte di prima; non ho mai conosciuto la vicenda che turbò la diocesi per la questione di una « carismatica »; non ero a Urbino per la resistenza: ho perduto quindi tre decisivi capitoli per il don Gino pubblico e politico. Ma uno, d'istinto, il secondo, gli altri per scelta concreta, antifascismo e resistenza, li avrei voluti vivere con don Gino, come don Gino. Qui la mia « invidia » tocca il suo acme. Ma, ahimé, non tutte le stagioni sono eroiche; e ora che dall'orizzonte è strusciato ogni balenìo di epoca nuova, il nostro impegno è ridimensionato nella invenzione quotidiana di scelte pulite e utili.

Quando ci ritrovammo, nell'immediato dopoguerra, a poter riparlare di politica e un sogno fervido ci teneva spalancati gli occhi, qualche poco di strada l'abbiamo fatta insieme. Con Pietro Nuvolone, allora penalista nella nostra facoltà di giurisprudenza, don Gino fu magna pars non solo nella organizzazione della democrazia cristiana, ma anche della sua vivificazione ideale e della sua procedura strategica. Quante lotte per il diciotto aprile. Le risentimmo anche noi a Schieti. E nessuno arricci il naso. Caro amico frontista, quello spazio da Stalin l'abbiamo difeso anche per te. Tra l'altro, perché potessi rimanere comunista.

A poco a poco, stabilizzata la cosa a livello nazionale, la preoccupazione di don Gino fu una politica per Urbino. Qui ebbe altri generosi fratelli d'anima e di battaglia, Walter Fontana e Nino Bai-deschi, in primo luogo. Non c'è stata fatica, che non abbiano sopportato per raggiungere risultati organici per la nostra comunità cittadina. Due vanno messi in prima fila, e non trovarono don Gino a lottare da solo, anche se pochi con la sua tenacia, lucidità di mosse e tempismo negli interventi. La battaglia perché Urbino rimanesse diocesi con vescovo proprio e la battaglia perché la nostra università rimanesse pubblica e libera. So che ci sono altre, importanti cose: ma questa non è una storia, è solo un'onda trattenuta di ricordi.

Quando fu fatto canonico, fu guidato nei « capitoli » da una direttiva costante e acremente difesa: rispetto dei beni della comunità, soprattutto se chiese e chiesette, non licet per vendite e distruzione di patrimoni che non si ricostruiranno più:  anche qui l'intelligenza al posto dell'azienda.

Non ho mai avuto confidenze da don Gino. Come nel migliore stile filosofico, gli impiastricciamenti sentimentali non pagano e quello che conta è lo sviluppo della cosa. Don Gino era fedele nell'ami-i cizia e riconosceva i suoi. Ma c'era per tutti, anche se con presenza diversa. Con don Ivo, uno dei suoi figli migliori, lo chiamavo maestro e lo dicevo con convinzione intima, come queste pagine vorrebbero ora dimostrargli. Ci aveva insegnato la scelta dei poveri, la politicità della vita e di ogni gesto umano, la noncuranza del potere, di quello inteso come dominio, non di quello inteso come servizio e come qualità, il gusto della produzione, non solo artistica, il rigore dell'analisi, e lo spazio politico come categoria piuttosto che come garanzia. Ci aveva insegnato a riconoscere gli amici, a diffidare dei mediocri, che barano con l'assunzione ripetitiva di modelli formali e rituali, a seguire, amare, sviluppare l'intelligenza; ci aveva insegnato ad amare la chiesa e lo stare dalla nostra parte con lucidità e senza fanatismi, sempre pronti alla revisione, a lasciare aperte le porte al confronto dovunque e comunque si fosse fatto sentire, a non aver paura del coraggio e anche dell'urto ma solo della fiacchezza e della viltà. Se Dietrich Bonhoeffer ha potuto individuare nella Dummheit (stupidità- la categoria chiave che ha permesso il nazismo, ebbene don Gino non appartiene a questa categoria; il suo gesto più personale era quello di uscire da una contrapposizione litigiosa tra la gente con una prospettiva ironica, dove entrambi i corni dell'alternativa erano riportati a una soglia più radicale e problematica, dove gli opposti potevano se non coesistere, almeno confrontarsi.

Mi dispiace tanto che don Gino non abbia potuto vedere l'attuale rigoglio dell'Istituto superiore di scienze religiose. Con la passione che gli era propria, lo aveva seguito fin dai lavori della commissione preparatoria nel 1969. Era stato d'accordo nel non ritenere adeguata alla aspettativa urbinate, per non aggiungere altro, la prima realizzazione che, pur volenterosa, non era accademica. Volle essere informato, prendere parte, quando negli anni, a cavallo degli ottanta, riprendemmo in mano la cosa. Nel numero non grande delle persone che hanno permesso la realizzazione dell'Istituto, dopo un decennio di attese e di peripezie, e in primo luogo va certamente messo l'arcivescovo Donato Bianchi, deve starci anche don Gino.

E l'ultima cosa è come la rivelazione di un segreto. Era il novembre inoltrato del 73. In due camerette adiacenti della divisione medicina del nostro ospedale c'erano don Gino, bisognoso della riattivazione degli arti per la paresi che l'aveva colpito, e mia madre, gravemente malata di cuore. Attraverso Maria e Sergio, che erano con don Gino, attraverso la Dina, mia zia e cugina di don Gino, si stava molto vicini, trepidi per l'esito di queste malattie e per il destino dei nostri ammalati. Come potrò dimenticare le telefonate di Maria all'alba, che mi annunciava di accorrere dalla mamma in preda a un'ennesima crisi, a una reiterata paura di non farcela? Don Gino, con serenità sempre inalterata, lottava come un leone, giovanilmente ingordo di vita e vita nuova, e l'ebbe vinta tanto che sopravvisse per un decennio. Mia madre, no; morì poco prima di Natale. Ebbene, e chiamo Dio garante di questa confidenza, don Gino, più volte, mi ha detto in quei giorni: non io, ma tua madre deve vivere. Offro a Dio la mia vita per lei. Tu ne hai bisogno, a te non deve mancare. Ho raccontato la cosa alla mamma, e furono lacrime calde, consolate.

Soprattutto per queste lacrime, e per la speranza che eri riuscito ad accendervi, come per i tanti e lunghi colloqui che facevi rincuorando, tu più malato di lui, con il babbo, io ti dico imperituramente grazie, o don Gino, grande cristiano. E permetti che trascriva stralci della tua ultima lettera a me, del 18 dicembre 1980, nel giorno, come mi ricordavi in calce, del tuo 71° compleanno. Ecco, e chiedo scusa di dover sacrificare il pudore per far posto all'onore quel che dicevi:  «Da quando ci siamo incontrati in duomo all'anniversario di mons. Aurati, io sto declinando rapidamente, preparandomi con discreta (uno degli aggettivi più intelligentemente suoi!- serenità al mio tramonto. Mi è quasi impossibile avere contatti almeno discreti con chiunque; anche per telefono mi è duro e difficile trattare qualsiasi argomento. Tu con grandissima bontà mi hai voluto definire maestro di vita e di pensiero, io ho pensato sempre che queste qualifiche siano quelle veramente tue, di gran lunga il più valido e meritevole dei miei alunni, e te le rendo loto corde come è troppo giusto. Da tempo in questa condizione di riposo forzato ho sentito vicinissima al mio cuore e allo spirito la memoria eccezionale della tua santa mamma. Ho sempre fisso in mente il periodo dell'ospedale passato accanto a lei; quando mia cugina Dina soccorse largamente a lei e a me allora ricoverati in stanze attigue. Dina fu la brava sposa di tuo zio materno, prematuramente deceduto: uomo di qualità e condotta veramente eccezionali. E anche in questi giorni ho sentito la tua santa mamma a me vicinissima ».

Diceva prete Avvakum che vivere è come muoversi dentro un cerchio, il cui centro è Dio. Quanto più ti avvicini al centro tanto più tocchi Dio e ti senti stretto alla gente che cammina vicino a te; in prossimità del centro gli altri sono sentiti vicinissimi. Questa doppia fedeltà, a Dio e alla gente, mi pare il testamento, non scritto ma vissuto, di don Gino.

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

« CI ABITUO' A RAGIONARE ... »

 di Lauro Guidi

 

Parlare di don Gino vuol dire riportare alla memoria ricordi remoti della mia esistenza che va da quello che una volta ci insegnavano a considerare « il più bel giorno della nostra vita » — cioè la Prima Comunione — ed un'altra data molto importante per me, quella del mio matrimonio in cui, appunto, don Gino ha accettato con gioia (ricordo bene quel giorno quando da Milano tornato in Urbino gli sottoposi la richiesta; si trattava, fra l'altro, di spostarsi sino al Santuario del Pelingo- l'invito a consacrare il mio « contratto ».

Ma procedere su questa linea, mi accorgo, sarebbe oltremodo limitativo e rivivere un semplice ricordo personale che riguarderebbe me solo.

Sono invece convinto di rievocare un'esperienza che è stata comune a diverse generazioni di urbinati, in particolare la mia, per la frequentazione della Parrocchia di San Sergio (la pista con le palline colorate, il ping-pong ecc. . . ., tutte cose che ci sottraevano dall'altrettanto allettante piazza del Mercatale- ad altre generazioni attratte dal suo vivido impegno sociale ma anche dal suo grande cuore e dalla schietta e leale amicizia che offriva.

Don Gino era una di quelle persone con le quali i conti non si chiudono mai; aveva una mente analitica e sintetica insieme e ci ha insegnato a meditare su tutto ciò su cui è essenziale riflettere e non c'era problema personale o sociale su cui la sua intelligenza non aprisse giuste prospettive.

Il suo impegno sociale era radicale e ci abituò a ragionare ed a maturare politicamente fino a raggiungere quella chiarezza che ci portò a respingere il fascismo ed a partecipare alla Resistenza. Potremmo ora dire che era un impasto fra don Mazzolari e don Milani. Come non ricordare i suoi pericolosi e rischiosi contatti ed il suo aiuto ai numerosi ebrei sparsi nelle campagne dell'urbinate durante l'ultima guerra? Oppure l'aiuto pieno e disinteressato per aiutare negli studi chi non aveva mezzi per studiare? Ci fu chi arrivò alla laurea grazie al suo aiuto.

Aveva una nutrita biblioteca che era a disposizione di tutti quasi come una biblioteca comunale anche se non tutti poi sentivano l'impegno alla restituzione dei libri prelevati. Aveva anche un suo « ex libris » che faceva bella mostra in molte famiglie.

Un altro aspetto interessante della personalità di don Gino era la sua passione musicale e molti di noi gli devono la propria sensibilità alla musica (quanta parte poi ha avuto nella nostra vita!-.

Don Gino in questo campo era un autodidatta e riusciva a suonare il piano discretamente ma la sua grande passione, passione che cercava di tenere nascosta, era quella della composizione musicale. A volte lo vedevamo chiedere consigli a Mario Severini, altro urbinate di grande sensibilità umana e musicale. Non è che don Gino aspirasse a comporre sinfonie o sonate ma Messe sì, Messe che poi come « schola cantorum » eseguivamo nelle varie parrocchie della Diocesi.

Una volta dovevamo eseguirne una nella chiesa di Schieti per una grande festa domenicale: soltanto che la sera del giovedì precedente avevamo a disposizione soltanto il Kyrie ed il Gloria. Don Gino era preoccupato della situazione ma il sabato mattina la Messa era terminata e la nostra esecuzione ottenne un lusinghiero successo. Aveva pure una collezione di dischi discreta per quei tempi e quasi ogni sera nel suo studio si effettuavano delle audizioni. Spesso con la complicità della sorella Maria (ahimé anch'essa ormai non è più- facevamo uscire di nascosto dalla sua discoteca la Terza e la Nona di Beethoven per avere un'audizione extra. Eravamo ben lontani dal pensare che le composizioni di Bach o di Mozart si sarebbero potute acquistare insieme al giornale.

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

UNA PRESENZA AMICA

 Sen. Giovanni Venturi

 

Con don Gino Ceccarini è scomparso un punto di riferimento costante per la mia attività di parlamentare urbinate, un punto di riferimento ideale e pratico. Già in contatto con lui anche nei lunghi anni in cui sono stato dirigente del Partito, dal 1963 fino al giorno della sua morte posso dire che l'ho avuto continuamente a fianco per confortarmi con la comune visione ideale, per aiutarmi col puntuale richiamo ai problemi urbinati, con la segnalazione di tanti casi umanamente degni d'intervento. Mi ha dato conforto, appoggio, stimolo nel difficile e ingrato lavoro del parlamentare, il quale, con senso di responsabilità e ansia di risultati positivi, tenti di far fronte agli innumerevoli problemi generali e personali, di cui viene investito a getto continuo.

Una presenza amica, che non è venuta meno neppure quando fu colpito dalla malattia. Anche negli ultimissimi tempi, quando il male lo aveva irrimediabilmente vinto, avevi la sensazione che ti seguisse con partecipazione. Si è allontanato in fondo a poco a poco, forse per farci sentire meno il vuoto, ma io ho continuato a sentire concretamente la sua presenza.

Una persona indimenticabile, nel cui animo ardeva uno straordinario spirito civico, un appassionato interesse ai problemi della città, una fervida fede negli ideali democratici. Per questo fu antifascista e anticomunista, ma, quando il fascismo fu vinto, tese la mano ai fascisti come uomini e il suo anticomunismo non gli impedì mai di tendere la mano al comunista se uomo bisognoso di qualche aiuto. E questa caratteristica della comprensione e dell'amore verso tutti dava una dimensione superiore alla sua persona.

Ho sempre e sempre avrò dinnanzi la sua cara figura, il lampo acuto e intelligente, quasi malizioso, dell'occhio, che talora si accendeva di sdegno contro l'ingiustizia, ma costantemente era stemperato dal suo benevolo sorriso.
 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

CONSIGLIERE VIVACE E SAGGIO

 di Francesco Carnevali

 

Gioioso e insieme dolente questo richiamo a don Gino Cercarmi che mi si chiede da chi si appresta ad onorarne la memoria; gioioso perché mi permette di aggiungere la mia voce, che alla notizia della sua dipartita, giunta a me con ritardo, tacque — quasi non trovando modo o persona che potesse accogliere un mio pensiero —; dolente proprio nel considerare questo mio silenzio sull'amicizia di « uno » che visse insieme con me ad un quotidiano lavoro costruttivo ed impegnante, per più di venti anni.

Sono dunque queste mie semplici parole come il desiderato e non espresso omaggio che gli dovevo, il riconoscimento per la sua opera di insegnante in quell'Istituto d'Arte del libro che mi trovai a dirigere in anni fortunosi: « consigliere ed equilibrato », così lo ho qualificato in una pagina del libro pubblicato l'anno del primo centenario dell'Istituto, 1961. Il suo ruolo di insegnante di Religione per i Corsi Superiori e di Perfezionamento non solo vi è registrato negli elenchi particolareggiati che chiudono la stesura del testo, ma riappare più volte fra quelli dei pochi insegnanti partecipanti a sedute di capitale importanza nei giorni di ansiosa attesa, di continuati allarmi, di cauto e sospettoso procedere in cui sono avvolti gli anni 1943-44, ed è lì, presente, in quella ben registrata seduta del 5 febbraio 1945, che, diretta da Pasquale Rotondi, segna la data della « ripresa » !

Sì, l'opera di don Gino Ceccarini accanto a me, accanto a noi, fu di grande sostegno in più di un evento, vigile a segnalare colpi traversi da parte delle forze oppressive, e lo sentivo quale tramite per l'Istituto con le forze clandestine della liberazione. E dopo nella ripresa del lavoro quale aiuto nel ricomporre la compagine scolastica divisa e impoverita, nel formulare riassestamenti e programmazioni didattiche, e via via durante gli anni quale aiuto alla comprensione dei giovani, a sovvenire a necessità, ad equilibrare dissonanze! V'era spesso, nelle sedute trimestrali od annuali di classificazioni, una disparità di giudizi espressi da insegnanti di materie artistiche e insegnanti di cultura (la matematica, la lingua straniera!- e la sua voce interveniva, pacata ed arguta, a confrontare, pacificare, colmare manchevolezze, ogni qual volta fosse palese nel giovane un guizzare di ingegno od una paziente qualità di esecutore. Sincero e cordiale nell'esprimersi, generoso intermediario per chi chiedesse, la sua azione nella scuola la si sentiva vivace, consenziente, saggia; festosa ad ogni gradino di ascesa raggiunto dal lavoro comune, partecipante agli allegri giuochi; era da cogliere in ogni manifestazione della sua amicizia lo spirito che certamente guidava le sue lezioni di Religione a cui peraltro non assistetti mai; ma il loro tenore si faceva palese nell'atmosfera che in quegli anni circolava nella vita dell'Istituto.

Allo scadere del mio mandato scolastico, non so se egli vi rimanesse ancora; ci incontrammo a volte per tempi brevi; alla morte di mia moglie offerse la sua preghiera e fu ancora prova di consolante amicizia. Molte vicende per entrambi, una sua malattia ci tennero lontani e privi di notizie. Lo rividi in strada per caso — dopo il compimento del mio ottantesimo anno — ed aveva viso sofferente, poche le parole scambiate, le sue ancora di consentimento.

Oggi con animo grato ho riferito questo poco su di Lui, tentando di dare rilievo alla «schiettezza» della Sua immagine.

 

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Don Gino Ceccarini :  don Gino, parroco di S. Sergio

 

Religione e laicità

"Era profondamente cattolico e sacerdote, eppure noi lo ritenevamo, lo consideravamo uno dei nostri: un esempio di come religione e laicità possono conciliarsi e convivere"

Giuseppe Branca già presidente   

della Corte Costituzionale