VITTORIO SANTINI: Maestro - Direttore / Ispettore Didattico IL MINESTRONE - STORIE DELLA PICCOLA CITTA' DI BORGO |
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1 - IN CUI HANNO INIZIO LE STORIE DELLA PICCOLA CITTA' DI BORGO
Quel giorno c'era gran festa al Petriccio, chè le palombe passavano fitte fitte come branchi di sardine. La sparatoria si sentiva sino al mare ma avevamo una scarogna buggerona e non ci riusciva di far volare una penna. La colpa era del sindaco che sparava fuori tempo sui branchi disperdendoli e guai a dirgli qualche cosa; s'impennava e montava sul gradino della sua carica per fulminarci con un'occhiata che però non arrivava a segno, perchè il brav'uomo era più miope di una talpa miope. Io e Gaetanaccio eravamo lassù con le doppiette che fumavano e con un diavolo per capello mandando accidenti e imprecazioni all'anima del sindaco, dell'Asinodoro come lo chiamavamo noi della "Nuova Società della Leggera". «Poi mi toccherà passare alla cooperativa - diceva truce Gaetanaccio - a comperare almeno un paio di sisini sennò mi vergogno a passare in piazza col carniere vuoto. Ci va del mio decoro di cacciatore. Ma già, quando si è costretti a cacciare vicino a quei tre là, mi sai dire che cosa vuoi ammazzare?» Quei tre la erano il sindaco, l'assessore anziano ed il por Venanzio. Le potenze visive degli ultimi due, messe insieme, erano anche minori di quelle del sindaco. Che cosa potessero cacciare tutti e tre era un mistero, che a dieci passi non distinguevano una lepre da un somaro! Dove passavano loro era un flagello, un finimondo. Sotto i loro passi l'erba non cresceva più come sotto quelli delle bande di Attila. In compenso però 1'Asinodoro aveva un cane coi fiocchi. Però non serviva. Era un bracco puro sangue ma si era immalinconito a causa di un amore non corrisposto per una cagna di Normandia. Puntava come prima, fermo e paziente come un certosino e come prima azzannava veloce la preda, però invece di riportarla indietro se l'andava a mangiare chiotto chiotto nel quieto della macchia e tornava poi con la coda tra le gambe a prendersi una buona razione di calci nella pancia. La gente diceva che era impazzito.. Chissà! Ai tre cacciatori però serviva ugualmente che tanto non ammazzavano mai nulla. L'unico essere vivente che per poco non rimava vittima delle tre micidiali doppiette fu Bastiano che si era infilato in una fratta a scaricarsi di un grave pondo corporeo. Lo impallinarono così bene che per un pezzo non potè più sedersi. E fu da quella volta che, per ritorsione, Bastiano divenne anarchico e negò i capponi al padrone. Facevano più danno loro che un reggimento di occupazione. Quando cacciavano pareva che nella macchia o nel querceto centinaia di mitragliatrici sparassero sui sassi. Un branco di moscerini che danzavano fitti fitti davanti agli occhi del meno cieco, pareva un volo di palombe. Eccole, eccole. gridava l'Asinodoro e puntava lo schioppo. L'assessore anziano e il sor Venanzio che non vedevano altro che niente stavano attenti dove il sindaco scaricava la sua doppietta per scaricarci anche le loro e archibugiavano come dannati in quel branco di moscerini… Un giorno si levò un venticello fresco che annunziava la piova. Gaetanaccio annusò sottovento come un bracco. Le nubi rotolavano minacciose ingigantendosi come valanghe. «Passeranno ancora le palombe con questo tempo? - chiese il sor Venanzio». «Chissà» rispose l'assessore anziano che se non era in consiglio non sapeva dare una risposta. Lo chiesero al sindaco, urlandogli nelle orecchie, perchè era anche un pochino sordo «Forse passeranno ugualmente» urlò l'Asinodoro che alzava la sua voce per udirne il suono. Il cane pazzo dormiva sotto un'acacia. «Se il cane non sente nulla vuol dire che non vengono». Ribattè il sor Venanzio che cominciava ad aver freddo e voleva andarsene. «Ecco le palombe, ecco le palombeee». Urlò il figlio della Piattolina che si guadagnava dieci soldi al giorno a star in vedetta sulla Pioppa. Le palombe passavano sulla cerqua bella di Bastiano. Volteggiarono in aria in cerca della strada del sud, perchè il nocchiero s'era distratto dietro una picciona di paesaggio e aveva deviato dalla rotta e dietro lui tutto il branco. Ora volteggiando si stavano consultando. Poi videro il colle del Petriccio vicino al campo sportivo e lo riconobbero, che c'erano passati l'anno prima, senza ricordarsi però delle schioppettate di allora. Girarono la rotta ed infilarono il vallone portandosi a tiro. Ma i tre amministratori dei pubblici debiti non si accorsero di nulla: erano ingolfati in una gran discussione sulle possibilità che aveva il cane di sentire l'arrivo delle palombe. E urlavano come se fossero in consiglio: «Se vengono sottovento, il cane non le sente». Decretò il sindaco che diceva sempre l'ultima parola. Sottovento venne invece uno di quei tuoni spaccherecci che rotolano fra le nubi come una passata di carriaggi su di un selciato. Il cane si scosse e rizzò le orecchie. «Forse vengono». Una foglia spiccata dalla brezza si scagliò in cielo, si arrestò a mezz'aria e cominciò lentamente a planare a zig-zag. «Eccole, eccole». Gridò l'Asinodoro e puntò il suo ordigno infernale. Gli altri due lo imitarono e giù… una valanga di piombo spazzò via la foglia e la scagliò nella vigna di Bastiano a tre passi dalla cerqua bella. Si precipitarono tutti e tre a raccoglierla inzuccandosì che ognuno dei tre giurava di averla ammazzata. Ed il cane li guardava e a bocca aperta scopriva le zanne. Pareva che ridesse. Le palombe al colpo di tuono e all'archibugiata s'eran disperse svolazzando all'impazzata. Più in là si radunarono; elessero un nuovo nocchiero meno stordito e via verso il sud incontro ad altre schioppettate. Gaetanaccio volle tentare e scaricò dietro di loro la sua doppietta. «Ostia che disdetta - brontolò - però ci ho dato vicino». «Si, disse il ragazzino di Bastiano che passava di lì - infatti l'ultima era pallida di paura, io l'ho vista bene». E se ne andò in compagnia di uno scappellotto a contropelo. Dalla Tortorina calava un banco di nebbia denso come un'ondata di latte; cancellò piano piano la cerqua bella di Bastiamo; poi avvolse la pioppa dove il ragazzino in vedetta rimase sino all'imbrunire fedele alla consegna di quei dieci soldi; poi scese a valle lungo i fossi ad ottenebrare completamente la visuale del sindaco, dell'assessore anziano e del sor Venanzio che ancora litigavano per via di quella palomba; poi risalì il costone del Petriccio e si apprestò ad invadere Borgo. Gaetanaccio ed io riprendemmo la strada di casa, mogi mogi, con le doppiette sulle spalle e la tesa del cappello sugli occhi come due briganti che tentino di passare inosservati. Gaetanaccio mi disse: «Quel sindaco non lo posso proprio più digerire. Bisognerebbe fargli passare la voglia di cacciare; portarlo un po' in giro mi ci struggo tutto, ma ormai anch'io divento vecchio; in altri tempi gli avrei dato il sacco alla cantina ma ora son diventato astemio; o gli avrei fecondato per ischerzo la figlia, ma non pi piace, perchè le puzza il fiato… Diventiamo vecchi caro mio. C'imborghesiamo e non mi stupirebbe che stesse per nascermi la pancetta…! I capelli li sto già perdendo» «Perchè non ti sposi?» Gaetanaccio sghignazzò sguaiatamente, troppo, perchè potesse parere disinvolto. «Pensi ancora a Giorgina». «Giorgina? che ne sai tu di Giorgina? Ti dovrebbe essere chiaro che non ci penso più». Io non replicai, ma avrei potuto. Gaetanaccio fece qualche passo in silenzio. «A Giorgina non ci penso più dopo che s'è sposata con Gaetanino del Gobbo. Ti giuro, non ci penso più. A te lo direi, che mi sei amico. Ma perchè pensi così?» «Mi stavi dicendo che non sei più lo scavezzacollo di una volta e se tu vuoi sapere da quanto è che me ne sono accorto, te lo posso dire». Gaetanaccio camminò ancora in silenzio nella nebbia che ci veniva nascondendo pian piano le mura di Borgo. «Stavamo parlando di quell'asino del sindaco -disse poi - Perchè non smetti di scrivere quelle tue sciocche poesie e parli un poco di Borgo in prosa? Avresti tante cose da raccontare. Borgo è un paese eccezionale. Gli argomenti non ti mancherebbero certo, non dovresti far altro che scegliere e comporre un libro alla buona, per noi di casa, un libro nel quale ci si ritroverebbe tutti noi come all'osteria del Mercato alla domenica e sopra il quale non ci venga il sonno e non ci obblighi a guardare il vocabolario. Potresti parlare delle sbornie di Rafaellone, del nostro' beneamato sindaco analfabeta per il quale firma con una croce l'assessore anziano, del tuo glorioso antenato Bartolino Dell'Orcio che morì affogato in una botte di vino, delle strepitose gambe della Barberiana, che Dio la benedica per la gioia che ci dà con la sua giovinezza e… di tante altre cose belle e istruttive di Borgo come il nostro meraviglioso palazzo ducale, della Università dei quattro gatti, delle conferenze di Caldarone e delle confidenze della di lui moglie. Insomma ti ci potresti sbizzarrire a piacere, senza lasciare indietro nessuno per non fare parzialità». «Allora dovrei parlare anche di te - dissi». «E che vorresti dire di me? nulla che possa raccontarsi». «Già sulle tue avventure sarebbe meglio mettere la censura o il divieto ai minorenni, come in quelle case di certe onorevoli signore!» Gaetanaccio rise. «Eppure dovrei parlare anche di te… e di Giorgina». Gaetanaccio non rispose. Nella nebbia veniva verso di noi un funerale di terza classe. Nulla è più triste di un funerale di terza classe in una giornata di nebbia. Dei due cavalli che tiravano il carro funebre, il maschio era magro come un chiodo e la femmina pregna. Il becchino a cassetta ondeggiava per la gran sbornia e cantarellava fra i denti. Il canonicone masticava le preci fra i denti come bestemmie, mandando in malora l'anima di quel disgraziato che già aveva fatto perdere il passo delle palombe. Gran cacciatore il canonicone, specialmente da pelo. Dietro al feretro una donna in lacrime, un ragazzo distratto ed un cane randagio. Quando il feretro ci giunse davanti chiedemmo «Chi è il morto?» Il canonicone non rispose: pensava alle palombe. Il becchino si tolse il sigaro di bocca, sputò a ventaglio sul sedere della cavalla pregna e rispose: «Nessuno! un poveretto». E allora mi decisi a seguire il consiglio di Gaetanaccio.
2 - COME FU CHE GAETANACCIO ED IO DIVENTAMMO AMICI
Ecco dunque come andò che Gaetanaccio ed io diventammo amici per la pelle. Fu per una disgrazia, perchè appunto le più tenaci amicizie nascono dalle disgrazie comuni. Era una notte fresca come la bocca della Barberina. La luna di tanto in tanto appariva nel cielo tutto strappato come l'abito di un poverello. Nella Pineta pareva che una moltitudine di esseri misteriosi trescassero nel folto a colloquio col vento e con le ombre. Era l'ora in cui si va ad una congiura o ad un appuntamento d'amore. Gaetanaccio ed io eravamo all'agguato vigili e pazienti come pellirosse per scoprire il segreto d'amore di Sorchiolo. Il manigoldo, l'infame, il traditore Sorchiolo, da parecchie sere sul tardi, ci abbandonava sotto i tigli del mulino di San Polo e spariva nel buio con aria di mistero senza una parola di confidenza a noi due che gli eravamo amici. Sorchiolo ha un mistero d'amore. Rosicchia certo qualcosa di buono. Una gran dama, forse una contessa, forse qualcosa di più. E non diceva nulla il marpione. Quella sera finalmente lo scoprimmo: era con la Vittoria, la godereccia serva del canonicone, nella Pineta sotto i bastioni di Santa Chiara, in un talamo di aghi di pino. Lui rosso e sudato come un macellaio, lei tutta languida e sospirosa come una cagna in calore. «Ah! Infame! - urlò Gaetanaccio imbufalito - Infame donna! Mi tradisci con un amico!» E lei impaurita aveva raccolta la gonnella e si copriva la faccia. Io non fiatai: Gaetanaccio, senza saperlo, aveva parlato anche a nome mio. Ingoiai il mio cruccio e sputai nel buio sulla fedeltà delle donne. Quella sera perdemmo un amico ed una amante e diventammo amici per la vita e per la morte, Getanaccio ed io.
3 - BORGO E'il più'bel paese del mondO (senza offendere nessuno)
Borgo è un paese di montagna molto piccolo ma quando in autunno calano su di lui quelle mareggiate di nebbia che cancellano le dimensioni, tra Borgo e Londra c'è poca differenza. Il Mercatale sembra Eaton Square, ìl teatro municipale il Convent garden; il muraglione del Lavatoio (Risciolo), le cui estremità nella nebbia si spingono all'infinito, non ha nulla da invidiare al Westminstar bridge, coi suoi 365 metri. Unica differenza è nella nostra nebbia, che non ha l'odore del fumo delle grandi industrie, ma quello del soffritto casalingo, che viene dalla trattoria del Mercatale. Borgo è il più bel paese del mondo, senza offendere nessuno. C'è chi dice che tolto il Duomo ed il ducal palazzo, tutto il resto non vale un cavolo. Ma sono dei maligni o degli invidiosi vicini. Anche un certo signor Baldassarre Castiglione che dalle nostre parti passò un pò di villeggiatura, disse di Borgo un sacco di bene alla faccia di chi ci vuol male: "La quale Borgo, benché tra monti sia e non così ameni come forse alcun altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto ha avuto il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pieno di frutti di modo che, oltre alla salubrità dell'aere, si trova abbondantissima d'ogni cosa, che fa mestieri per lo vivere umano". Per noi Borgo è il mondo più bello di tutti mondi che ci sono al mondo. Appollaiata sulla gobba a schiena d'asino di una collinetta con pretese montanare, sembra un nido di gufo, tutta mattoni vecchi e buchi neri. Alle spalle ha una mareggiata di collinette dipinte a smalto, grasse e festose come un carnevale d'altri tempi. Sullo sfondo, ci sono le montagne, le vere montagne, dietro alle quali alla sera ci si va' a tuffare il sole dopo il suo breve tragitto giornaliero dall'Adriatico all'Appennino. Di fronte, se s'alza il telone del chiaro, c'è lo spettacolo del mare. E' proprio così: da Borgo si vede tutto, il monte, il piano, il cielo e il mare. Anche il mare, se andate al Petriccio ne potrete vedere una fettina piccola piccola. A volte in quel mare formato cartolina, chi ha la vista buona, dice di vederci delle vele spiegate e quindi quei del Petriccio e di Santa Lucia si danno della arie da marinai: ciccano, sputano sottovento e mangiano caparosse tutti i venerdì. Gran brava gente i borghigiani, strepitano, urlano, ma non ammazzano nessuno; sì sbudellano a parole per ogni piccolezza, ma si riappacificano all'osteria. Imprecano tutto il giorno contro il governo, contro il Papa, contro la galaverna e contro l'afa; ce ne sono di tutti i colori e partiti, ma alla domenica vanno tutti messa ultima a far sacramentare l'Arcivescovo con l'andar via all'ite senza aspettare la benedizione. Vanno tutti in processione (dopo aver bestemmiato tutto l'anno} alla festa di San Crescentino, il Patrono senza testa come i protetti. Borgo è antichissima. Basta guardare le sue mura, le sue torri, i palazzi, il cinematografo e le due zitelle Camilli, per averne una idea. Tanti forestieri vengono a vedere le antichità gloriose e polverose di Borgo nostra. Quanti ne vengono; tutti quegli stranieri, vecchi anche loro, strusciano il naso sui portali delle chiese e sugli angoli dei monumenti come cani innaffiarecci. I più brutti stranieri del mondo capitano tutti a Borgo. Forse li cacciano via dai loro paesi appunto perchè sono troppo brutti e loro si passano la voce l'un l'altro: «Andiamo a Borgo, arriandiamo là… yes, you are right; o.h.; ya; ce bien; bueno…» Vengono e dicono: «Beati voi che abitare in questo molto buono paese… ah! ah!… very good, tres joli… ist sehr schon… ah, molt buono, stare sempre in Borgo». Lo dicono, ma se ne vanno via subito in cerca di altri molt buoni paesi da visitare, di altre chiese e di altri portali da annusare. Nessun straniero si è mai trattenuto più di un giorno in paese. Nessuno ci ha mai dormito. Nessuno all'infuori di quel prof. Hoffer di Zurigo che imprudentemente ospitò a Borgo in una domenica intellettuale e si sorbì ancor più imprudentemente una conferenza, tutta intera, del dottor Caldarone che a vederlo sembrava un tanghero ma che sotto quei capelli slavati le idee rotolavano a valanga. Come dormì il prof. Hoffer di Zurigo! non lo potevamo svegliare: una narcosi fulminante. Quando finalmente riaprì gli occhi era commosso. Strinse la mano a Caldarone: «Io soffrire crantementa ti insonnia… foi grante rimetio. Ja danhe sehr, danhe sehr» E lanciò la proposta di condursi Caldarone in Isvizzera ove, a quanto disse, molto diffusa è l'insonnia. Un bel giro di propaganda, a scopo speculativo, ma il dottore borghigiano si rifiutò decisamente per quanto la moglie giovane e godereccia lo spronasse ad andare. Ma Caldarone è patriottico e casalingo, è una istituzione di Borgo, appartiene al paese come un monumento e rimase. Purtroppo! Noi di Borgo in Borgo non vediamo come ci vedono gli altri. Noi ci vediamo ben altro. Ci vediamo la Pineta, per esempio, gli altri non la notano neppure, senza sapere che là dentro ci sono tutti i nostri sospiri giovanili: se fosse possibile riunire nello stesso tempo tutti sospiri che in tanti anni i mille e mille amanti vi hanno emesso, si produrrebbe un sospiro tale da far crollare le mura di Borgo. Noi ci vediamo anche la casetta di Gaetanino del Gobbo, al balcone della quale sospira la Giorgina attendendo l'ora in cui cala la tenebra ed il marito va giocare a macao al Circolo. Eppoi che altro ci vediamo? La casetta di Consiglia, la ragazza brutta di faccia ma dal corpo meraviglioso e dall'ardore infuocato; un tempo di nessuno, ora di tutti quelli che la vogliono, dal giorno in cui rubò alla sorella la sua prima notte d'amore. Il Bar dello Sport, ora deserto e maledetto, dopo la comica tragedia di quel famoso primo ed unico Palio dei biroccini che secondo il sor Bonifazio avrebbe dovuto fa concorrenza al Palio di Siena e che invece per poco non scatenò la guerra civile a Borgo. Poi il lungo porticato che nelle serate d'inverno è la meta delle passeggiate d'approccio e di conquista dei borghigiani che lo considerano l'anticamera della Pineta. Le chiacchiere della piazza; il gioco delle bocce; la caserma dei tutori dell'ordine pubblico nella quale impera sovrano assoluto, temuto, rispettato e bestemmiato padrone del cielo e della terra: il magnifico maresciallone con gli occhiali a pince-nez, il quale pur essendo napoletano non conosce Salvator Rosa e minacciò un giorno di farlo arrestare per una sua satiretta contro il governo. Poi la casetta di Nicoletta. Nicoletta! Nome gentile che sognò invano l'amore. Accanto alla sua, quella di Giacomino; il povero Giacomino vittima del demonio e padre putativo di una schiera di figli in continua crescenza. Eppoi tante altre cose che gli altri non notano, ma delle quali noi conosciamo l'anima. Gli altri non ci capiscono e dicono che ci nascondiamo dietro una ritrosia paesana, mentre apriamo le nostre case al primo venuto. Un tale che faceva l'intellettuale e che era invece un imbecille disse che a Borgo era sempre carnevale. Gli chiedemmo il perchè. «Portate tutto l'anno un maschera sul viso». Nessuno capì che volesse dire. Ma quando andò via dal paese la maschera sul viso ce l'aveva anche lui. Gli e l'aveva messa un tale al quale l'intellettuale voleva convertire la moglie alla poesia dello spirito dopo aver saziato la carne. Gliela mise con un par di cazzotti negli occhi, la maschera, chè dovette andarsene con gli occhiali affumicati ed un cerotto sul muso. Ma quel tale era veramente un imbecille? Portiamo veramente tutti la maschera a Borgo? Me lo sono chiesto spesso e ho cercato di vedere e ho visto. Ma posso sbagliarmi ed in questo caso l'imbecille sarei io allora.
4 - POVERO GIACOMINO
Ogni uomo ha il suo diavolo tormentatore; il diavolo di Giacomino è l'amico Pasquale. L'amico Pasquale aveva due occhietti furbi e penetranti come quelli del 5atana dipinto alla parrocchia del Tufo da un artista ignoto che per renderli più felini aveva sostituito alla pittura due pezzetti di vetri. Così quando Don Pavolo, alla quaresima, minacciava i suoi parrocchiani con discorsi apocalittici, essi alzavano gli sguardi verso quel diamolo che tentava il figlio di Maria nel deserto. Vedevano quegli occhi infernali luccicare al tremolio delle candele e si suggestionavano. Allora correvano in massa ad alitare in volto all'arciprete l'effluvio del peccato carnevalesco. Gli occhi dell'amico Pasquale erano precisi e Giacomino ci avrebbe dovuto pensare prima di far tanta lega con lui, tanto più che aveva anche i capelli rossi e un proverbio di Borgo avverte: "Rosso di pelo non dice il vero".
Giacomino coltivava uno dei poderi del prof. Caldarone a ridosso delle mura di Borgo e sapeva lavorarsele bene quelle zolle benedette. Stava nel campo dalla mattina alla sera senza oziare un sol minuto e senza stancarsi, chè, si stancavano prima le bestie che come lui lavoravano silenziose e cocciute a tirare l'erpice rumicando incessantemente le erbacce strappate alle fratte passando. La buon'anima della madre gli diceva spesso: «Giacomino tu l'intelligenza ce l'hai tutta nelle mani». Ed era proprio vero perchè Giacomino era semplice come l'acqua. Del resto poco gli serviva il cervello: il mestiere lo sapeva fare ed i suoi affari li avevano sempre fatti gli altri: il padre prima, poi la madre ed infine la Giacinta. Ogni anno riempiva le botti di un vinello senza nome nè bianco nè rosso, che era una delizia e del quale se ne poteva bere un fiasco e mezzo senza che il cervello se ne andasse a spasso. Era un vinello leggero, frizzante e provocante che lasciava sul palato un saporetto asprigno che invogliava a bere ancora. Era il vino adatto per le scorpacciate di castagne lesse: avrebbe incantato persino nonno Tabarin per il quale non esisteva altro che la sanguigna e potente vernaccia. La grande amicizia dei vìllici dei dintorni per lui, era originata in massima parte da quel vino nè chiaro nè scuro che Giacomino offriva volentieri nelle serate d'inverno quando fuori la neve buffa, cheta cheta, ed i marroni borbottano nel gran paiolo. A volte gli riempivano la casa addirittura una diecina di amici; di quegli amiconi sfaccendati che nei campi ci mandavano gli altri, mentre loro preferivano soffrire le pene dell'attesa del passo o le fatiche del perlustrare nelle macchie le lepri, con la pipa in bocca e l'aria da dominedio. La moglie non diceva nulla, perchè lei aveva il senso dell'ospitalità e gli piaceva avere tanti uomini per casa alla sera che lei in mezzo ai maschi ci stava volentieri. Anche troppo volenti eri, si diceva. Nessuno aveva mai capito come mai quel bel pezzo di donna con delle forme da far leccare i baffi anche al Vescovo, si fosse sposata con un citrullo di quello stampo. Un giorno il padre di Giacomino aveva detto al figlio: «Giacomino, ti ho trovato moglie». E lui: « A si? e chi è?» «La Giacinta». Se l'era sposata che non gli sembrava vero avere il letto riscaldato da quella che passava per la più bella contadina dei dintorni. I maligni insinuavano che il padre di lui era un galletto di razza, anche a cinquant'anni sonati, e che la Giacinta era una di quelle che non sapevano dire di no a nessuno. Ma se fosse proprio vero, non era certo, perchè in campagna è difficile approfondire certe questioni con il gran daffare che c'è. A quarant'anni, dopo dieci di matrimonio, Giacomino aveva dieci figli. Incominciavano ad essere troppi per quel podere di pochi ettari. «Tu sei robusto, Giacomino, pieno di salute, - gli diceva l'amico Pasquale - a cinquanta sarai ancora un uomo efficiente e avrai certo venti figli se seguiti di questo passo». «Già, già - rispondeva il contadino perplesso di fronte al caso sul quale la sua attenzione non s'era ancora fermata nè lo avrebbe potuto senza l'ausilio del cervello altrui. Quel discorsino non faceva una grinza e lui si grattava lo zuccone pelato, lucido e rosso come una padella della nonna Tabarina. Poteva benissimo mettere al mondo altri dieci figlioli. C'era da stare allegri. E chi gli dava le braccia e la terra per sfamarli tutti? - Ma come posso fare, Pasquale mio?». «Questo lo devi sapere tu. Stacci attento, astienti». Gli suggerì il compagnone che arricciava i baffoni spioventi sempre molli di quel vinello speciale che Giacomino non lesinava a nessuno e tanto meno a lui. «Va bene… ma tu non conosci la Giacinta». «E che c'entra la Giacinta?». «C'entra, perche… beh ! c'entra». «C'entra…» Insidiava Pasquale puntandogli gli occhi in faccia che pareva volerselo bere. «Sai queste son cose…» diceva il povero Giacomino difendendosi debolmente. «Andiamo Giacomino mio, con un amico puoi parlare franco» e l'amico si metteva una mano sul petto facendo una faccia da ernia strozzata. «Beh… io potrei farne anche a meno, ma lei, la Giacinta, mi capisci?… lei… Basta, basta, non dico più nulla. Ma l'amico Pasquale aveva già capito e si mordicchiava i baffi e gli occhietti da demonio gli rilucevano. «E tu non ci dormire più insieme». Giacomino lo guardò stupito. A lui certe idee così semplici non venivano mai in mente. «Giusto - esclamò felice - non ci avevo pensato. E' proprio vero. Pasquale, tu sei il mio miglior amico. Da quella sera Giacomino prese dimora fissa nella stalla tra la vacca e il somaro. Dopo cena l'amico Pasquale, puntuale come un creditore, lo veniva a trovare. Si facevano insieme un tressette pizzichino bevendoci sopra quel certo vinello, sino a che Giacomino si addormentava con i gomiti sul tavolo. La Giacinta sfaccendava per casa provocando Pasquale con gli occhi e dandogli delle sgomitate negli orecchi passando: «Scusatemi Pasquale, non l'ho fatto apposta». «Figuratevi Giacinta, prego, prego e la guardava che pareva volesse spogliarla lì davanti al marito che barbagianni com'era non levava il naso dalle carte e poi la donna si sedeva al tavolo dove i due giocavano, l'amico Pasquale cominciava a dimenarsi e Giacomino gli chiedeva stupito: «Che hai le pulci?» Verso le nove e mezzo, immancabilmente, Pasquale sbadigliava e scuoteva Giacomino appisolato con il naso sull'asso di bastoni e gli diceva: «Vogliamo andare a dormire?» Tutte le sere lo accompagnava nella stalla e gli rimboccava persino le coperte sotto il pagliericcio. «Buonanotte Pasquale… sei un amico» E Giacomino non riusciva proprio a capacitarsi come fossero diventati tanto amici tutto in una volta. Non ci riusciva proprio e finiva per chiudere gli occhi su quel mistero.
Dopo quattro mesi la Giacinta era nuovamente incinta. «Porco mondo, come mai?» si confidò il poveraccio con l'amicone. «Eh! quattro mesi fa dormivi ancora con tua moglie, no?» «Già è vero!… e intanto fra cinque mesi avrò un altro marmocchio ma, giuraddio che alla dozzina non ce la facciò arrivare quella coniglia. E tornò a dormire con la moglie che tanto ormai non valeva più la pena di fare il Sanluigi nella stalla a raccogliere gli odori delle besti e… Erano passati altri sei mesi ed ancora il marmocchio non nasceva. «Ma come e possibile? - si chiedeva - son dieci mesi. Non s'è mai visto una gravidanza durare più di nove. Ci deve essere qualche cosa che non va». Una sera che stava all'osteria della Vagine a fare una partita con gli amici cittadini, lo venne a chiamare d'urgenza il figlio maggiore perchè la Giacinta aveva le doglie. Se ne andò di corsa portandosi via le carte che aveva in mano che tanto tornava subito a finir la partita. Poco dopo arrivò di corsa un contadino con gli occhi fuori della testa: «Un parto trigemino -urlò- cosi ha detto la levatrice. A giacobino gli sono nati tre figli tutti in una volta… Ma dov'è Pasquale, dov'è Pasquale» «Che vuoi da'Pasquale55 gli 'chiesero. «Per carità, aiutatemi a cercarlo, bisogna trovarlo, bisogna avvertirlo che Giacomino s'è imbufalito, ha staccato la doppietta dal muro ed ora lo sta cercando…»
5 - PASCIA'
A Borgo manca qualcosa che la distingua da una città. Mancano le case di piacere. Ed è per questo che si fanno tanti matrimoni affrettati e tante ragazze rimangono con un marmocchio sulle spalle, del quale forse neppure esse sanno dire di chi sia figlio. Ma il Vescovo non ci vuol sentire da quell'orecchio. Nel suo ovile ci saranno magari ragazze abbandonate, gonfie come otri, ma non dovranno esserci assolutamente luoghi di perdizione. Gaetanaccio un giorno che glielo disse per poco non fu scomunicato, ma1grado avesse l'appoggio del Canonicone che era di manica larga e nel suo confessionale i peccati della carne avevano un'ampia comprensione. Se a Borgo non ci sono case di piacere ci fu però un tempo una donna a tariffa. Parlava meridionale, aveva i capelli tinti in rosso e faceva un sacco d'affari che non aveva tempo neppure di dormire. La chiamavano la "Rossa" ed era una donna a modo, discreta e comprensiva che a noi faceva anche a credito, quando eravamo in bolletta e magari si accontentava anche di qualche sigaretta. Poi divenne esosa ed inflessibile sulla questione del danaro, ma non fu per colpa sua, ma di Pascià… Era un gran signore Pascià. Fumava i sigari interi e cenava al ristorante del Mercatale, pagava in contanti e dava ricche mance e poderosi pugni a chi non gli era troppo simpatico. Era un gran signore, e si faceva mantenere dalla Rossa. La povera ragazza che dava via le sue carezze per guadagnarsi da vivere s'era messa a mendicare la carezze di quel romagnolaccio ex-marinaio, ex-saltimbanco, ex-ga1eotto ed ex-un sacco di altri mestieri. Ora abitava a casa della Rossa e la pagava a calci e schiaffi. Siccome la Rossa abitava in un casone popolare, i vicini che non erano mai stati capaci di farla sloggiare con tutti i suoi bagagli a bagasciare altrove, trovarono che quell'uomo era la giusta punizione che una donna di quella fatta si meritava. La moglie di Torpedone, colui che per cinque lire ti assassinava definitivamente un paio di scarpe (calzolaio inesperto), era la più accanita di tutti, nel lapidare quella povera anima persa. I vicini ridevano a sue spalle di tutte e due perchè era notorio che la calzolaia da giovane non era stata neppure essa uno stinco di santo e che a quel povero Torpedone ne aveva fatte vedere di tutti i colori. Ora che era diventata vecchia e brutta andava a baciare i crocefissi e a confessarsi tutte le mattine. La Rossa era cotta di quel bighellone. Pur di averlo tutto per se faceva tutto quello che lui voleva. Pascià passava le ore libere dal servizio in osteria, piantato a gambe larghe in cima alle scale con il sigaro in bocca a sorvegliare il via vai giornaliero della casa come se quello fosse stato il suo incarico. Gli uomini lo temevano e preferivano non raccogliere 1e mute provocazioni di lui. Si sapeva, ed era al solito la moglie di Torpedone a divulgare certe notizie, che un volta per essere stato urtato inavvertitamente da un passante gli aveva messo fra le costole due dita di lama e per poco non lo aveva mandato all'altro mondo. Le donne invece non erano del tutte schive ad ammirare il suo volto dai lineamenti volgari ma indubbiamente di una certa bellezza. Le lavoranti della sarta del primo piano avrebbero fatto chissà che cosa pur di aver quell'ercole nel loro letto e gli lanciavano delle occhiate di dedizione che egli accoglieva come un tributo di sudditanza. Non si abbassava per cosi poco, poteva disporre di quei fiorellini smarriti come e quando gli piacesse; per lui ci voleva ben altro. Ben presto si sparse la notizia che a Pascià piaceva la moglie del ragionier Canietta. La signora era una bella donna sui trent'anni che invano noi del primo pelo avevamo tentato a lungo; alta e dal portamento di regina faceva uno strano contrasto con la figura esile e goffa del marito il quale sgobbava dalla mattina alla sera per permettersi la pelliccia e i bei vestiti. Pascià cominciò a far la ruota come un pavone e a dirle parolette sottovoce quando la incontrava per le scale del primo piano. Anche i più maligni, fatta eccezione per la Torpedona che annusava gli intrighi, non trovavano nulla da ridire sul contegno della bella signora. Ma una mattina Torpedone tornò in fretta dalla moglie e le confidò che dopo l'uscita del ragioniere, Pascià era entrato nell'appartamento dei Canietta. Due minuti dopo la notizia era arrivata all'abbaino e da lì s'era sparsa per tutto Borgo. Possibile? non si poteva pensare che una donna sino allora irreprensibile si concedesse ad uno sfruttatore di prostitute. Eppure… La Torpedona arricchiva i suoi racconti con particolari intimi di sua invenzione. Ci furono anche in ballo delle scommesse, ma in breve la cosa fu manifesta: tutte le mattine, appena il ragioniere andava in ufficio, la moglie apriva la porta a Pascià e stavano insieme sino a mezzogiorno. La Rossa se ne accorse subito e cominciarono allora certe scenate che sulle prime divertirono i vicini per l'originalità dei rimproveri e delle parole. Un giorno lo sentirono dirle: «Dovresti provarci a far la spia, brutta puttana. Prima ti rompo il muso e poi me ne vado per sempre». E la Rossa cominciò a piangere e a sciuparsi per la angustia che finì per non piacere più a nessuno e a fare magri affari. La Torpedona gongolava e si affannava a dire a tutti che non sarebbe finita lì e che il bello sarebbe venuto quando quel povero caprone del ragioniere fosse venuto a conoscenza dei passatempi della sua donna. La signora, malgrado tutta quella canea alle sue spalle, continuava a passare fra la gente con il suo portamento altero di donna superiore. Il povero ragioniere cominciò a sospettare qualcosa dalle occhiate e dai risolini beffardi che accompagnavano i suoi ritorni a casa. Una sera trovò di segnato con il carbone, una confusa ramificazione sotto la quale, per scrupolo di coscienza, l'artista aveva creduto opportuno specificare: «Queste sono le corna del ragioniere Canietta». Era stato Torpedone che non sapendo come avvertirlo aveva creduto opportuno lasciare all'anonimo murale il difficile incarico. Diventò pallido come un morto ma non disse parola neppure con la moglie. Una mattina tornò a casa alle dieci invece che all'una, facendo gli scalini a quattro per volta. Di lì a poco si udì schiamazzo nel suo appartamento. Gli usci si schiusero per vedere qualcosa della scena. Si udiva una vocetta stridula che vociava: «Fuori, fuori, fuori…» Poi un urlo. La porta si spalancò sul muso di Torpedone che spiava dal buco della serratura nell'interesse della comunità e bruscamente ruzzolò fuori il ragioniere con la cravatta di traverso, senza occhiali e tutto scarmigliato come se uscisse da una lotta furiosa. Poi uscì Pascià che lo scavalcò indifferente e scese le scale. Torpedone, disse poi, e lo giurò sulla testa della moglie, di aver visto la signora completamente nuda che cercava di separarli. Due giorni dopo il ragioniere rimandò la moglie a casa sua e dopo qualche tempo venne un carrozzone a prendere la sua roba, perchè aveva ottenuto il trasferimento per un paesino della Calabria, sua terra natale. Non tardò molto che anche la Rossa sparì, né si seppe dove fosse andata a finire. Qualcuno disse d'averla incontrata in un lupanare d'infimo ordine, chi invece assicurò che s'era data al teatro ed era diventata una gran stella e chi infine ch'era morta. Pascià rimase a Borgo ancora per qualche tempo a spendere tutto il danaro che gli aveva dato o aveva rubato alla Rossa. Poi quando nessuno gli fece più credito cominciò a far a qualche furtarello. Una sera venne svaligiato il negozio dei Verri, ma quando i carabinieri andarono a casa sua, trovarono il nido vuoto: il bell'uccello aveva spiccato il volo per altri lidi.
6 - IN CUI UNA MODESTA POESIA DIALETTALE FA SORGERE IL CASO SALVATOR ROSA
Quel giorno c'era qualcosa nell’aria che pesava sul mio capo come una minaccia ed io la sentivo con l'istintiva inquietudine dell’animale che sente l’appressarsi di un cataclisma. Eppure nulla lo lanciava presagire: il cielo era sereno, la gente spensierata e allegra, le ragazze più belle e più provocanti del solito. Erano le undici e un quarto. Al Borgo l'ora viene determinata dalla media aritmetica delle ore segnate sulle due facce dell'orologio elettrico della piazza: una segnava le undici e dieci, l'altra le undici e venti. Erano dunque le undici ed un quarto di un sabato assordante sotto un cielo più immenso del solito, un cielo da grande avvenimento, un cielo da Giudizio Universale. Al sabato al Borgo c'è il mercato. E' il giorno dei contadini dopo una settimana di clausura. Avanzano protetti dalle loro scarpacce ferrate e dai gomiti di pietra, compatti come una massa d'urto sannita, testardi e ignoranti, prepotenti ed insensibili come Lanzichenecchi. Gente che bacia le pile della propria parrocchia e che frantuma certe bestemmie da far inorridire un ateo; bestemmi e solide, asprigne, bastarde, gagliarde e campagnole come loro. Avanzano senza cura di intoppi, di automobili, di divieti e si rincitrulliscono davanti alle bancarelle di quei romagnolacci fegatosi, bugiardi più del diavolo, che appioppano a tradimento la pezza tutta lana garantita, potessi perdere il lume degli occhi. Al foro boario nessuno li frega che vedono anche la festuca nella coda della vacca, ma appena varcata la porta di Valbona s'imbambolano davanti all’unguento miracoloso che guarisce scottature, polmoniti, cancrene, accidenti secchi. Per l'aria c'è un grasso miscuglio di stalla, di sudore e di carburo che si leva pesante dal groviglio informe delle sporte, dei pacchi, dei seni, dei sederi, dei pollastri e degli ombrelli. E, in quel marasma, il gran colpo a tradimento che mi fece tremare le vene e i polsi.
Doloroso il dover lasciare a metà il sabato dopo una settimana di noia per recarsi là ove impera assoluta, temuta e rispettata la LEGGE. «Salutate la mia vecchia e ditele, se non tornassi, che sono innocente e che paghi i miei debiti». Abbandono il frastuono ed il sole per entrare nella piccola zona del silenzio e dell'ombra, dove i soli rumori e attutiti dalle spese pareti, sono il ticchettio delle macchine da scrivere, il lieve frusciare della eterna instancabile ramazza, lo scricchiolio sinistro delle penne sui neri libracci. L’inquilino della camera di sicurezza, ospite dalla sera precedente, busserella trepido alla porta per avvertire che avrebbe bisogno di andare in un posticino a versare parte del liquido che lo fece incappare nel reato di ubriachezza molesta. I benemeriti là dentro sembrano alti il doppio e guardano chi entra con un sorriso invitante: «Prego, prego, rimanga qui con noi, non faccia complimenti». II maresciallo è indecoroso e offende la tradizione e la fantasia e non ha i baffoni neri e porta gli occhiali a "pince-nez”, però inserisce egregiamente il mannaggia in ogni frase. Estrae dalla sua voluminosa cartella il "corpus delicti". «Nè valiò, un'altra di queste (e arriccia il naso) poesie e voi ve ne andate dritto dritto come un fuso in villeggiatura gratisse e amore deo. Mannaggia che mania ci avete; non solo scrivete 'sta roba… Beh, io non voglio fare inzinuazzioni perchè io so napoletano e le poesie me piaceno solo quelle de Napoli: "a marecchiare ce sta ’na fenestra… dicitincillo vuje" eccetera eccetera, ma santo e poi Santo quel Dio, mannaggia! ci potete avere tanti argumenti, nossignore, mi andate a prendere per la barba, l'altra volta, il commissario de pubblica sicurezza, il podestà ed altre ezimie persone che non mi dilungo a enumerare, e 'sta volta addirittura il governo. Mannaggia! éppoi se dice che noi siamo cattivi». Io mi stringo nelle spalle contrito come un gesuita e sbircio la poesia incriminata. Lui se ne accorge: «Mannaggia, volete pure vedere qual'è ? allora vuol dì che ce ne avete diverse su questo soggetto. Mannaggia, mò ve la leggo, anzi leggetela voi che io so de Napoli e con 'sto dialetto ce vado poco d'accordo». Io modestamente, mi schernisco ma quello insiste I sò sigur ch'se quei ch'vojen la guerra l'avesser da gì a falla per i prim, a magnè mal e a durmì per terra, a risighè la vitta ogni minutt, ce pensarien du volt, modacc fututt. Il maresciallo crolla il capo: «Si capisce, mannaggia, che quelli che vogliono la guerra sono il governo. E ve pare a voi che il governo possa andare a fare la guerra come tutti gli altri cittadini della nazzione ? Il governo non è, il governo è… nè valiò che pensate?» «Ma io signor maresciallo…» «Che signor e non signor» «… io non ho fatto altro che mettere in dialetto urbinate ma satiretta del pittore Salvator Rosa» e gliela declamo. «Questa me sembra un pò meglio de la vostra. Ad ogni modo ora me direte dove abbita questo Rosa Salvatore che ce vorrà ’na tirata d'orecchi pure per lui». Io mi soffio il naso per ridere nel fazzoletto e quindi gli spiego. Il Maresciallo è dubbioso e fa chiaramente capire che si informerà, tanto è vero che si appunta il nome sulla carta assorbente. Poi comincia una paternale coi fiocchi. Un'oretta buona. Finalmente conclude: «Ma se proprio non potete fare a meno de prende in giro la gente con ’ste fregnacce non v’attaccate a chi sta in alto e ve può fa del male, mannaggia». «Avete ragione» rispondo tutto compunto. Quello mi guarda sospettoso: «Nè valiò, anche il popolino, chiamiamolo così, o la bassa casta, come volete, è da rispettasse ugualmente e se me venissero altre lagnanze, quanto è vero Dio vé mando in… villeggiatura. Mannaggia, in villeggiatura, si! per questa volta ve ne andate con i piedi vostri, n'altra volta se vedrà». All’aperto respiro ed il mondo mi sembra anche più bello. Guardo il cielo azzurro come il manto di una Madonna ed in tutto quel grande azzurro passa una piccola nuvola, sola soletta, a sfiorare il campanile del Duomo. Una piccola nuvola fresca e rosea come le gote e i sogni di una fanciullina.
7 - IN CUI MI SI VEDE AD UN PRANZO DI NOZZE IN CAMPAGNA
Era un finir d'estate bruciato come gli stufati della nonna Tabarina che si dimenticava sempre di metterci in tempo un bicchierino di vino. Era una di quelle mattinate in cui la polvere sembre vetro sbriciolato e c'è nell’aria lo sfrigolio assordante delle cicale sui pioppi e sulle acace. Si chiamano insistenti e noiose:«Dove sei?». «Sono qui». «Dove sei?». «Sono qui». «Dove sei?» «Sono qui.» Non sanno dirsi altro e se lo ripetono fino alla nausea, sino a che non scoppiano come palloncini troppo gonfiati. «Dove sei?» Seguita a chiedere la cicala, ma il cicalo non risponde perchè è proprio quello che è scoppiato poco fa ed ora giace a terra nella polvere come un sacchetto vuoto. E quella seguita: «Dove sei? dove sei?» Finché un altro cicalo, un cicaletto di primo pelo, si accosta un poco titubante perchè è alla sua prima avventura amorosa ed ha paura di balbettare finalmente, si fa coraggiosi schiarisce la voce e risponde: «Sono qui.» Morto un Papa, fatto un altro. In questo momento mi tormenta un atroce dubbio; cosa mangiano le cicale? Polvere? Scheggie di legno? E non bevono mai? Certo che no. Per questo allora il loro canto è così secco come un legno che scoppietta al calore. Le fratte di more sono tutte impolverate; il loro bel verde smeraldo ravvivato ogni mattina dalla lieve rugiada si è sbiadito, sporcato, asseccato. Tutto è secco stamani e pare che tutti abbiano la mia medesima arsura. Anche quella nuvoletta bianca a picco sulla Tortorina ha sete e si guarda spaesata attorno in cerca delle colleghe che nella notte l'hanno lasciata sola, lei che è un pochino sbadata e si era indugiata a scherzare con la luna. Ora se ne sta lì e non sa che fare. Vorrebbe piangere ma non può, le nuvole sono solidali, non piangono quando sono sole, hanno bisogno di compagnia. Finalmente la nuvoletta sorge le sue compagne verso la Carpegna, nei paraggi del grifagno castello di San Leo a sospirare sulla prigione di Cagliostro e vorrebbe raggiungerle si sforza, si allunga, ma non c’è vento e non riesce a muoversi. Tutti sono storditi e fiacchi stamane, anche il cane randagio che con pazienza francescana mi segue da una mezzoretta, appena sono uscito da Orobinia. Ha la lingua ciondoloni fra le zanne acute e gli occhi rossi e cisposi. Certo questa notte deve aver dormito poco, lo si vede, forse a causa di qualche cagnetta bastarda del Monte o di Santa Lucia. Ha proprio un'aria affaticata, ciò non ostante mi segue. Chissà poi perchè. Così! I cani, io penso, non chiedono mai dei perchè. Accidentaccio che caldo, signori miei. Mi doveva proprio venire in mente di acconsentire alla proposta di Giuliano Tibet. Le sue idee hanno sempre un fondo di tragedia. E’ nato per le tragedie e si ostina invece a voler comporre delle operette con quel bel risultato di "ABBIAMO TRASMESSO IL SEGNALE ORARIO…".Che fischi quella sera! Pareva il congresso dei richiami di merli e lui impassibile fra le quinte andava dicendo: «Non mi hanno capito ecco perchè fischiano». Se invece la gente fischiava perchè l'aveva capito troppo bene. Ferruccio con le lacrime agli occhi gli gironzolava d'attorno con il fiasco del vino per calmarlo, ma lui era tanto calmo: beveva e seguitava a dire che non lo avevano capito e che anche le prime di Rossini erano state fischiate. Ma lasciamo perdere… «Buon giorno giovanotto, è distante il podere di Martino Scannocchio?» «Scannocchio?..Scannocchio? mai sentito nominare.» «Non siete di queste parti?» Si sono di queste parti, ma Scannocchio non l’ho mai… aspettate forse vorrete dire Scannaccio?» «Può darsi». «Ah! bè, allora è qui vicino, fra un paio di chilometri ci siete.» «Grazie. Buon giorno.» «Giornooo.» Mi ha detto nulla quel contadinello dall'aria citrulla; altri due chilometri! E con questo sole? Oh cane, chi te la fa fare questa sudata? Io vado da Martino Scannocch… Scannaccio a vedere come si sposa e a partecipare al festino nuziale. Mi ha invitato Giuliano Tibet. Nemmeno quello conosci? Oh cane mio come sei ignorante! Come fai a non conoscere Giuliano Tibet? il poeta, il commediografo, l'autore-attore più bravo, più allegro, più sbornione, più tutto? Che tipo! E come gli piace il vino a quello, e che sbornie… Bè questo non glielo andare a ridire che poi se si offendono sono guai, perchè è capace di tutto quello. Vèh che bella ragazzotta! E che occhi! che occhi bene sviluppati, chissà come devono essere sodi… «Dove andate bella figliola? Oh non vi offendete chiedevo così per chiedere. Che non si può? Anche voi andate allo sposalizio? Ma che fortuna, che fortuna, allora facciamo la strada insieme.» «GIÙ’ LE MANI!» Accidenti che caratterino! Più in giù di cosi dovevo metterle?» Ma eccola, deve essere quella la casa di Cannocchio, di Scannacelo accidenti a lui e al suo nome. Infatti Giuliano Tibet viene incontro, a me, alla ragazzotta e al cane. Siccome per una inveterata abitudine contratta con l'amorevole complicità della illustre autrice dei miei giorni, le mie levale mattutine non avvengono mai per tempo, mi sono perduto la cerimonia dello sposalizio. «Dimmi Giuliano, i contadini dicono "SI" come lo dicono gli operai, i professionisti, i poeti?… e allora ho perso poco… ah, c’è stato anche il sermoncino del parroco? e allora non ho poi fatto tanto male ad alzarmi tardi? Mi ricordo ancora come fosse ora il discorso tenuto da Don Ignazio di Monte Soffio allo sposalizio della Nunziatella con Pippo di Cà Fante. Durò esattamente tre ore e tre quarti e tutti dalla debolezza si attaccavano ai muri, meno gli sposi impalati lì davanti a lui che li innaffiava in faccia per via che quando parla, le parole gli si impuntano proprio al momento di uscire e deve far vibrare le labbra per aiutare la fuoriuscita del verbo. Lo sposo e la sposa (lo si seppe poi) soffrivano le pene dell'inferno perché lui aveva le scarpe strette ed il colletto inamidato che gli segava il collo dal mento alle orecchi; è lei poverina aveva un urgentissimo bisogno di trasferire i suoi grandi glutei a sedere su di una ciambella col buco. Giù che don Ignazio sputava incessantemente per dire che non aveva parole per augurare loro tutta il bene di questo mondo, sino a che, in capo a quelle tre ore e tre quarti, sputò per l'ultima volta e li congedò. Lo sposo svenne ma rimase in piedi perchè ormai si era irrigidito dentro il suo collettone inamidato, mentre la sposa dovette essere trasportata fuori a braccia perchè aveva il pancino gonfio coma un pallone e non poteva più fare il minimo movimento senza correre il rischio di lasciare andar tutto. E don Ignazio asciugava le lenti con il suo fazzolettone rosso pensando che forse li aveva commossi un poco troppo… «Giuliano hai notato che occhi ha quella contadinotta che ho incontrato per la strada? e anche il retro è a posto, però ha certe mani dure! Mi ha dato un cazzotto nei fianchi (rideva ma ce lo ha dato) che mi ha fatto vedere le stelle. Bè e dove sono gli sposi? Presentami. Mi sai dire che cosa rappresento io qui? La buona società di Orobinia? Acc…e va bene, ma la buona società ha una sete bestiale, sete d'acqua Giuliano. Ti dispiacerebbe di condurmi ad abbeverare ad una frigida e vitrea fonte Aretusa? «Ah ah! ah! rinasco, rinasci, rinasce anche il cane che ancora non si è scostato di un pelo da me. Bè, senti cane mio, mi sei simpatico; Giuliano Tibet è stato invitato, lui ha invitato me, io invito te; ci siamo? avanti march». «Quanti invitati! guarda, guarda Giuliano.» «Cosa?» «Hanno tutti un fagottino sotto il braccio». «Ebbene?» «Come ebbene! è il regalo per gli sposi. Solo noi siamo venuti a mani vuote.» «Ma no che non è il regalo». «Cos'è allora?» «Le posate, i piatti e i bicchieri» «Ma va là.» «Proprio. Gli invitati sono molti e siccome in campagna; i vasellame scarseggia, ognuno deve portarsi l'occorrente se vuol mangiare». «Questa è buona davvero!» «E' logico, no?» «…Ma io parlavo di quella ragazza là…, che occhi anche quella! che occhi hanno da queste parti.Forse dipende dall'aria». «Ti consiglio di tenere le mani a posto». «Ma come si fa a tenere le mani a posto davanti a tanta grazia di Dio?» «Non ti preoccupare ed abbi pazienza. Dopo pranzo potrai fare ciò che vorrai». «E perchè dopo pranzo?» «Perchè saranno tutti cotti.» «Mi guardano come una bestia rara.» «Lo sei, ma non troppo rara.» «Grazie, Giuliano.» «Prego.» «Dove ci sediamo?» «Vieni qui non fare l'ingordo che non è ora. Ti presento agli sposi». Ci vuole un buon quarto d'ora prima che mi districhi dai complimenti di tutta la consorteria. Però anche la sposa ha un gran bel paio di occhi… e bravo Scannocchio… Scaimaccio, cioè non riesce ad entrarmi in capo questo maledetto nome: Scannoccio… Scannaccio… ScannaCc «Giuliano» «Dimmi.» «Parche si chiama Scannaccio?» «Perchè ha sempre in tasca un coltello con sette dita di lama per scannare i maiali» «A si?» «Si. Ti consiglio quindi di non guardare troppo la sposa». Mi sento l'ospite di riguardo. Che felicità essere al centro dell'attenzione generale! L'ho provato soltanto lì ma è sempre qualcosa». A tavola dietro di me c'è un contadino addetto eclusivamente alla mia persona. Cominciano ad affluire le portate. Dopo la pastasciutta non ho più fame, perchè imprudentemente mi è scappato di dire che non avevo mai mangiato una pastasciutta così buona ed il mio cameriere particolare me ne ha fatto allora ingozzasse tre piatti colmi colmi. Sono già pieno. Poi c'è l'arrosto di cappone che fa svenire soltanto a odorarlo. Sei porzioni me ne ha ficcato nello stomaco il mio aguzzino. Poi cappone in umido, poi cappone lesso, poi allo spiedo, E qui finisce la storia del cappone. Comincia quella del coniglio. Di questo solo tre portate perchè ai ferri non viene bono. Me lo ha assicurato il cappoccia che quando parla fischia come una vaporiera per via che gli mancano i denti davanti. Dopo il coniglio ci sono diverse portate di manzo in tutte le salse. I contorni sono poi svariatissimi: spinaci imparmigianati che sembrano le nostre colline sotto la prima neve; cetriolini sotto aceto con cipolline dolci; carciofini amarognoli, gustosi; giardiniere complete; olive… oh le olive farcite così bene, ma così bene, con le alici dentro ed al posto del nocciolo un capperino che è un amore. Poi frittate di diverse specie a seconda dei gusti: con le vitalbe, con il pomodoro, con gli spinaci, con le cipolle, con i grascioletti. Poi le insalate. Io sono sempre stato matto per 1’insalata, il mio carnefice si è subito accorto che mi piace quella ricciolina con le fooglioline di carrucola, e giù che devo brucare come una capra che se non la mangio tutta quello mi strozza, parola d'onore. Ma quando finisce questo supplizio? Ah, perdio ci sono ancora le frittelle. E quante! di patate, di riso, di pane e uova, di semolino, di che altro? mah! Poi finalmente il dolce. Madre mia proprio quello che piace a me:zuppa inglese… ma come faccio a mangiarla, chi mi da un altro stomaco? Giù mi dice minacciosamente con gli occhi il io aguzzano. E giù, se poi crepo la colpa è la tua fellone. Per pietà; è finito? No, ci sono ancora altre quattro specialità di dolci. «Giuliano, Giuliano… » «Cos'hai da supplicare ?» «Giuliano debbo dettarti le mie ultime volontà.» «Buffone, bevici sopra.» Già, berci sopra, dimenticavo il bere. Quanto ho bevuto? e chi lo sa? più vuoto il bicchiere e più me lo trovo pieno. Quell'infame deve avere certo un scione in mano. Si, proprio. Quanto vino, qante speci… no, per carità, non ne parliamo perchè sennò ributto fuori tutto. Sono pieno sino al naso, anzi anche dentro il naso. Sìno alle recchie. Solo il cervello è rimasto fuori, ma galleggia penosamente e fra poco annegherà anche lui. «Giuliano se muoio, dì alla mia donna che sono caduto da prode.» Poi vengono le frutta. Le mele sono grosse come palloni da calcio e i fichi come damigiane. Io rido a crepapelle perchè un fico mi guarda male. Mi sento spavaldo; «Ehi, fico, non mi metti mica paura, sai?» «Giuliano mi gira la testa.» «Lasciala girare.» «Giuliano ho voglia di piangere.» «Piangi» «Vorrei piangere sulle… sugli occhi di quella ragazza là…» La stanza comincia piano piano a muoversi. Le teste dei commensali fanno 11 giro-giro-tondo. Poi diventano una sola testa… Che testa! Che caldo… come gira… «Giuliano ho lo stomaco pesante… oddio, oddio.» E' un fuggi fuggi generale. Non è colpa mia. E allora Vitellio che per farlo si solleticava con una penna intrisa d'olio? Quante storie, quante storie… Che occhi… Ei, cane dove sei?… Hai sete ancora?… Ma no, quello non è un cane, è un cavallo… Giuliano quello è un cavallo... Dove mi porti giuliano?… accidenti come trotta quel cavallo …trotta trino cavallottra… trotta trotta cavallino Valencia… ma che dico? mi confondo sempre… non so cantare… Ho la lingua che pesa un quintale… ma quella è la mia mamma… Olà mamma come va?… ramonaaa. Perchè mi spogliate? No mi spoglio da solo. Ciao Giuliano, io sono a letto e dormo… Ciao, aaah!che sonno. Ma che ora è? le 5? e perchè mi mettete a letto a quest'ora? bè, non importa. Buonanotte io dormo… RRRRrrrr…
8 - IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI
Era l’epoca in cui l'amore platonico cominciava a non piacerci più tanto e si andava con le ragazzette nel buio dello Spineto o delle Vigne. Le donne, quelle rotonde e goderecce, ce la mangiavamo con gli occhi senza pudore e senza rispetto. Ad avare uno scudo in tasca era festa grossa o la madre aveva perduto divista per un secondo il portamonete. Eravamo prepotenti, spacconi, arcifanfani come galletti Bantam, piccoli, tignosi, tutta voce. Eravamo cinici e carnali, pure ci pianse il cuore quando la Gianna si sposò con Gaetanino del Gobbo, perchè la Gianna era una di quelle che ci sognavamo alla notte, pura e mistica come una Madonnina. Solo in sogno ci potevano fare all'amore perchè non era una di quella che andavano sole per la strada e ci aveva sempre addosso, appiccicati alla schiena, gli occhi del padre, della madre o dei fratelli. Quel tradimento a noi non ce lo doveva fare a noi che tutte le sere di tempo buono le andavamo a sviolinare le serenate più dolci sotto la finestrella. Scettici e sensuali come eravamo che le donne le annusavamo come cani da punta, c'eravamo innamorati tutti di lei, cotti duri, capaci di dire di andarci ad arruolare nella Legione Straniera o di morire sotto la sua finestra con un fiore in bocca ed un pugnale nella schiena come quel menestrello gentile innamorato della duchessa di Orobinia al tempo in cui gli uomini andavano in giro con un quintale di ferro addosso. Non c'era verso che la Gianna desse retta a qualcuno di noi. Aveva troppa paura di quei terribili occhi appiccicati alla sua schiena ed in oltre noi eravamo in troppi, la desideravamo in troppi e lei era onesta quanto bella. Un bacio solo aveva dato, solo uno e nulla più di un bacio: a Giacinto, un maniscalco del Mercatale sempre nero come un tizzo di carbone, ma che quando si lavava la faccia le ragazze slanguidivano tutte. Quel bacio non lo poteva dimenticare nè lei che si struggeva in lacrime con le compagne, nè lui che ci si dannava l'animo e ferrava i cavalli alla rovescia dalla disperazione. Era il primo amore di tutti e due e poverini ci rischiavano di morire di consunzione. Noi lo invidiavamo a morte quel maniscalco sudicio che rubò dalle labbra della bella il primo bacio d'amore, ma avremmo preferito che Gianna avesse sposato lui piutto che quell'odioso Gaetanino del Gobbo. Ma Gaetanino era ricco. Aveva sempre un gran quantità di denari sparsi alla rinfusa per tutte le tacche che poteva smarrire un bigliettone da cento senza neppur accorgersene. Fu il padre che la costrinse ad accettarlo e lei pianse e strepitò che voleva il suo maniscalco, ma non ci fu verso, lo dovette sposare che con il padre non ci si ragionava. Lo chiamavano "Millelire", perchè per mille lire avrebbe ammazzata la moglie o la suocera. Stettero fuori un mese gli sposini, in giro per l'Italia e mandarono cartoline da Venezia con i piccioni in mano, da Roma fra i ruderi del Colosseo, da Posillipo in barchetta. Si diceva però che la Gianna avesse pianto per tutto il viaggio. Quando tornò si mise quieta. Il tempo è un gran rimedio per tutte le piaghe. Noi ci stringemmo le spalle e ci gettammo su altre donne. E Giacinto? Giacinto andò a fare il militare, che era di leva, e tornò più bruno e più maschio due anni dopo quando tutti avevano già dimenticata quella storia. Pareva che anche Gianna e Giacinto l'avessero dimenticata, ma Gaetanaccio disse profetico: «Fumo negli occhi!»
Eva una di quelle notti che si scelgono per assassinare un prete o per violare una serva di primo canto. Luna e stelle infreddolite erano a dormire sotto il gran coltrone delle nubi disinteressandosi completamente dei poveri Orobinati che davano il naso sui muri, perchè quando l'economo municipale stabilisce che le lampadine delle vie debbono durare dei mesi anche se il giorno dopo sono in frantumi non c'è niente da fare. Dal mare veniva un'ariaccia buggerona che radeva il pelo. In quella ariaccia venivo io tremolante perchè uscivo caldo caldo dal letto della serva di don Corrado, odoroso di spighetto e di carne fresca(il letto, naturalmente). Andavo a casa leggero e contento come un cavaliere antico che torna a casa vittorioso da un torneo. Passai sotto la finestra della casa di Gaetanino e di Gianna che in due anni di matrimonio non erano ancora riusciti a mettere al mondo un marmocchio. Già! quando lui perde le ore più belle della notte per starsene al circolo a giocare alle carte, i figli non nascono certo per virtù dello Spirito Santo. La finestra era illuminata da una rosea e blanda luce che traspariva filtrata da una pesante tenda, spargendosi sul piccolo balcone infiorato come una infarinatura lunare. Sotto la finestra il portoncino chiuso, piccolo fragile custode di una dolce intimità. Mi fermai a guardare quella finestra dalla quale veniva quel tenue chiarore dolce come il tepore di un talamo nunziale. Lo guardavo con desiderio, perchè a vent’anni l’ardore che scorre nelle vene non si smorza mai. Delle ombre passavano dietro la tenda ricamata; un’ombra alta e curva come l'ombra di un ramo d'olivo ed un’altra più bassa e più morbida. Poi la luce si spense. «Ora vanno a letto. Chissà come la deve pungere quel sacco d'ossi quando le si avvicina». Il mio animo svuotato da poco si riempì nuovamente di desiderio per quella piccola stanza dove nel buio si era accesa certamente un’altra fiamma. Li vidi col pensiero, Gianna e Gaetanino del Gobbo, e mi venne fatto di pensare a Giacinto. Chissà dov'era e cosa pensava in quel momento? Il portone si aprì con un impercettibile gemito e ne usci l’ombra alta e curva. Gastanino, quel babbione, andava come ogni sera a depositare qualche migliaio di lire al banco del macao. Io ero incollato all'ombra di un vicoletto come l’anima del male. «Sarebbe bello ora andare a tenere compagnia alla Gianna mentre lui va a giocare» Forse la donna avrà sciolto i suoi lunghissimi capelli in una cascata d'ebano lucente ed attenderà triste il ritorno consueto nel suo letto vuoto troppo grande per una persona sola. I passi di lui risuonarono pesanti nel buio come i rintocchi del campanone del Duomo quando suona a morto. Li seguii allontanarsi e perdersi nella notte. «Provo? Non provo?» A vent'anni certe idee balzane tentano e se la ragione si oppone bisogna stringere i denti per frenarsi. Quei passi che si allontanavano però non li avevo seguiti io solo. La finestra si illuminò di nuovo… «Porse cerca qualcosa da leggere» Poi… si spense. «E' meglio dormire!» Si riaccese e si spense. Ancora,ancora! Mi sentivo le vene uscire dalla fronte. L'Agnesina, l'anno scorso mi segnalava così quando la via era libera e potevo salire. Un'altra ombra uscì allora dalla tenebra e si fermò nel mezzo della strada. Ad Orobinia quella notte c'era la sagra delle ombre. Le imposte si aprirono quasi senza rumore e qualcosa volò strada, qualcosa che cadendo tintinnò come una campanellina d'argento. Una chiave? La chiave per aprire la porta che conduce alla felicità di una donna che attende. Per un attimo la luce tornò a filtrare accarezzando i fiori addormentati sul verone. Un attimo solo per leggersi negli occhi la tremenda felicità del furto. Quindi buio ancora e questa volta un lungo buio. Nessuno passava per la strada. Nemmeno l'eco di un passo lontano, solo il fischio del vento che radeva rabbioso gli spigoli, le mura e il mio naso. Pensai che se i proverbi sono veri, quella sera Gaetanino del Gobbo avrebbe vinto molti quattrini. Pensai anche alla serva del prete che ronfava nel suo letto devastato, ma era un pensiero lontano lontano. Pensai a tante altre cose.
L'ombra però 1'avevo riconosciuta. «Fumo negli occhi». Aveva detto Gaetanaccio e lui non sbagliava mai.
Morì il passerotto a dieci passi dalla Cerqua Bella mentre dall'acacia volava al pioppo cori un ragnolino in bocca. Era vecchio il passerotto, ma aveva tanti passerottini sempre affamati; era vecchio e il suo cuoricino più piccolo di un cece batteva disordinatamente; cardiopalma per tutte le paure che aveva preso fra le fratte ad ogni stormir di foglia, alle sassate dei monelli, alle fucilate di Bastiano che da anni gli dava la caccia con il suo schioppaccio per via che gli beccava le ciliege. Quel giorno il passerotto non gliela fece a tornare a casa. Si era stancato tanto dietro un ragnolino agile e furbo che frullava da tutte le parti, che si nascondeva dietro le foglie o che si lasciava cadere a capofitto sul lucido binario di un filo d'argento ondeggiante mollemente nell'aria. Così che quando riuscì ad acciuffarlo era sfinito. Dall'acacia al pioppo della nidiata non c'era molta strada ma quel ragnolino quasi incorporeo che teneva nel becco era diventato pesante come un macigno. Piombò fra le stoppie rotolando nella polvere di vetro fra i sassolini bianchi ed i papaveri marci, a dieci passi dalla Cerqua Bella di Bastiano. Ci fu allora un grande convegno in onore del passero morto. Venivano insetti da tutte le parti. I vermi, i moscerini e le mosche cantavamo inni di gioia sul cadavere del nemico che giaceva con le palpebre chiuse e col becco serrato sul ragnolino che si dibatteva ancora. Erano tutti contenti che fosse morto e nessuno pensava ai passerottini che rimanevano orfani, soltanto le formiche che venivamo in lunghi cortei dicevano: «Era tanto buono poverino. Come ci dispiace che sia morto!» E tornavano a casa cariche delle spoglie di lui strappate pezzettino per pezzettino. «Poverino, poverino come ci dispiace» Seguitavano a dire perchè le formiche sono ipocrite ed egoiste come gli uomini… Sulla Cerqua Bella un trionfo di cicale accompagnava il Sole che saliva nella gloria afosa del meriggio.
La Giunta Sorica si adunò in quella burrascosa notte di maggio dopo tanti vani tentativi. Sino allora gran periglio c'era stato; si volevano ammazzare, squartare, mangiare, ma infine di rotto c'erano stati solo i vetri del Bar dello Sport. Poi si fece avanti il sor Bonifacio e prese lui le redini di quel branco di scalmanati. Sor Bonifacio era un piccolo mago, un piccolo dio: rappacificò gli animi. Quella sera disse alla moglie prima do uscire: «Li ho tutti in pugno ormai: andrò, vedrò, vincerò». «Va bene - disse lei - ma prendi il mantello perché è una serataccia». Venne, vide, vinse. Li aveva davvero tutti in pugno, lui, quelli della Giunta. Li affascinava con quella sua oratoria incomprensibile, per via che si mangiava le parole, ma i suoi silenzi erano eloquenti e i suoi ssfondoni erano efficaci. Era lui solo che aveva visto un Palio di Siena, quindi l'unico competente. In realtà non l'aveva visto affatto, ma glielo aveva raccontato un dozzinante toscano che gli bazzicava per casa per via della moglie. E quel racconto mera tanto vivo nella sua mente che a forza di raccontarlo si suggestionò tanto che finì per credere di averlo visto realmente e diceva: «… allora vidi il cavallo della Lupa passare avanti a quello della Civetta, ma quando stava per tagliare il traguardo incespicò e mi stramazzò proprio sotto gli occhi…» e gli ascoltatori fremevano. Così la Giunta Storica gli diede i pieni poteri e lui disse: «Noi potiamo fare grandi cose, signori, potiamo e faremo». Ferruccio portò un grappino per lui, pagato dal Canonicone che amava più le carambole e le corse in bicicletta che il quaresimale. «Grazie - disse Bonifacio - mi farà bene questo grappino. Ho un poco di acidità di stomaco questa sera. E' stato quel capponaccio galastrone che mi ha imbarazzato». S'era di venerdì, ma il Canonicone era di manica larga e non fiatò. Il palio dei biroccini venne dunque stabilito in tutti i particolari per la festa di San Crescentino Patrono. «Se inviterete l'Arcivescovo, io mi ritiro dalla Giunta». Urlò il Canonicone che in vescovato non odorava troppo di santità. «Anch'io mi ritiro - disse il sacrestano del Duomo - se inviterete il Prefetto ed il Maresciallo. Il sor Bonifacio batteva un cucchiaino sul cabarè per richiamare l'ordine nella sala. «Diplomazia, signori, diplomazia ci vuole». Ferruccio gli portò un altro grappino, pagato dal sacrestano del Duomo in società con il segretario comunale. Per decidere il percorso del Palio fu necessario l'intervento del sor Angiolino, che si faceva chiamare Ingegnere, ma era soltanto Geometra e tutte le sue opere che portavano la sua impronta, dalla casa popolare al muricciolo, avevano bisogno di puntelli e fortificazioni per reggersi. Il percorso partiva dalla sommità del Monte, passava in piazza, girava per Valcona, per giungere infine al traguardo situato a metà del Mercatale. «Perché il traguardo al Mercatale? - INTERRUPPE UNO DEL mONTE - sempre la solita camorra; il traguardo lo vogliamo al Monte». Ma in considerazione che i biroccini non avevano motore e vanno solo in discesa, l'interruzione non fu neppure rilevata. Il percorso era oltremodo difficile se si pensa che le discese del Monte e di Valbona hanno una pendenza di quasi 45° ed a metà percorso, in Piazza, bisognava fare una voltata ad angolo retto. Prendere quella curva in piena velocità fu giudicato impossibile da tutto i giuntisti, per la prima volta d'accordo su di un punto, ed estremamente pericoloso. «Ciò aumenterà l'emossione della gara». Stabilì il sor Bonifacio che amava il rischio degli altri. Inoltre alla fine della discesa di Valbona bisognava infilare a tutta velocità la porta romana, piuttosto stretta e dal fondo stradale mezzo sconquassato che avrevve forzato la mano al guidatore; c'era il pericolo di schiacciarsi contro il muro e di entrare nella chiavica municipale che spalancava la sua bocca accanto alla porta. «Bazzecole!» Finita la discussione Ferruccio portò i grappini per tutti i giuntisti e questa volta ognuno pagò per se. Il campanone del Duomo suonò la mezzanotte e il Canonicine si affrettò a vuotare il suo bicchierino perché la mattina dopo doveva dir messa. «Al successo del Palio» disse il sor Bonifazio «Al successo, alla gloria, alla vittoria» fecero eco o giuntisti. «Alla Vittoria» brindò il Canonicone acceso in faccia, tale era il nome dalla sua a serva giovane e buona chealla notte aveva timore di dormir sola.
Il Sor Bonifazio diceva: «Sarà una cosa mai vista, una cosa ammirativa. I pesaresi e i fanesi dovranno crepare dall'invidia… Ci faremo sopra una pubblicazione che fra qualche anno dovranno accorrere nella nostra città forestieri da tutte le parti… treni popolari, speciali… cartelloni reclamativi… trasmissioni radiofoniche… Ah!» il sor Bonifazio si faceva prendere dalla fantasia, spiccava lunghi salti nel futuro.
Giornalmente dal Bar dallo -Sport, eletto sede del Comitato organizzatore, usciva un ordine del giorno scritto a mano da Gedo del Comune, che aveva la miglior calligrafia, veniva attaccato alla vetrina d'entrata davanti alla quale si radunava poi una gran folla di appassionati che Moscone, il solerte dirigente del traffico cittadino, non riusciva a disperdere provocando gravi ingorghi di circolazione. Santa Lucia, San Bartolo e Santa Margherita diedero subito la loro adesione, ma i quattro grandi rioni ancora si facevano desiderare per quanto fosse notorio ohe si preparavano indefessamente. 11 26 maggio, Lavagine presentò l'iscrizione ed il giorno dopo fu la volta di San Polo. Tutti però tacevano i nomi dei corridori e la qualità dei biroccini, ma nei soliti ambienti bene informati si poteva sapere tutto, specie nella privativa Tafani & Figlie si era costituito un vero e proprio ufficio informazioni. Rimanevano ancora i due grandi favoriti : Monte e Mercatale, acerrimi nemici sin dal tempo del pallone con il bracciale. Il primo era famoso per i suoi intrepidi corridori, il secondo per i suoi costruttori di biroccini che avevano un segreto brevetto. Non si decidevano ancora ad entrar in gara perchè ognuno dai due volava essere l'ultimo all’iscrizione vuoi per scaramanzia, vuoi per orgoglio. La passione era giunta a11’apice. La sera del 27 i Mercatalesi bastonarono di santa ragione due giovanotti del Monte che con la scusa di venire a fare all'amore con due ragazzette del Mercatale, stavano spiando i preparativi del campo nemico. Se ciò fosse stato vero o meno non era certo, comunque si portarono a casa un carico di bastonate da ricordarsele per un bel pezzo. Il giorno dopo, per rappresaglia, quelli del Monte presero a calci uno dei corridori più famosi dal Mercatale, Peppe Raganaccio che faceva all'amore con la.Rosina, sorella del Roscio, un non meno famoso corridore di parte nemica. «Questa me la pagherai,Cristone» urlò Raganaccio che non poteva nemmeno sedersi da quanto gli bruciavano gli emisferi. Il Roscio sghignazzava e la Rosina piangeva come un vite tagliata tra il fratello e il fidanzato per riappacificarli, ma ci volava ben altro per calmare Peppe Raganaccio che era buono come il pane, ma che quando gli scappava la pazienza e diceva Cristone, voleva proprio dire che per calmarlo non c’era che di lavare l’ingiuria con il sangue. Il Roscio che si sentiva protetto dai suoi continuava a provocarlo sghignazzando, con le mani in tasca, il berretto sull’occhio e l’aria da bravaccio. «Occhio per occhio, caro mio. Ieri avete bastonato due dei notri e oggi è toccata ad uno del Mercatale, siete ancora in debito.» Peppe Raganaccio mugolava i suoi Cristoni e schizzava fiamme dagli occhi ma non poteva muoversi perche il suo nemico era troppo ben protetto e tutta la via era gremita di facce poco dolci. Inutilmente la Rosina lo tirava par un braccio. «Piantala anche tu, stupida. Accidenti a quella volta che si è venuta in capo l’idea di venire a cercare la ragazza proprio in questo covo di delinquenti...» «Piano amico, piano - disse il Roscio pacatamente mettendo però avanti le sue manacce - piano perchè ti diamo il resto…» Ma Peppe era fuori di se e sbraitava come un ossesso. Allora anche la Rosina s'inviperì che anche lei nelle vene aveva il sangue e non 1'acqua calda: «Ne ho abbastanza anch'io, se lo vuoi sapere» e si ritirò in casa sbattendogli la porta sul muso. Il mercatalese ci rimase male e fece per andarsene ma si accorse che nel frattempo nuove facce si venivano mescolando alla massa e non erano facce montane. Divenne allora spavaldo. Dalla finestra la Rosina che si era pentita di quanto aveva detto lo richiamò: «Peppe senti…» Ma Peppe voltò la testa solo per guardarla con disprezzo. La Rosina aveva le lacrime agli occhi ma il mercatalase assaporava troppo la vendetta e tutto ringalluzzito dai mercatalasi che si facevano sotto chiotti chiotti nella calca urlò in modo che tutti lo sentissero: « Ne ho abbastanza di te… ni hai stufato. Ci stavo solo per divertirmi, con te…» La Rosina sparì con un urlo straziante e Peppe si pentì subito di quanto aveva detto perchè in fondo le voleva un bene dell'anima anche se era una del Monte e bisognava proprio che fosse fuori di se per isultarla a quella maniera. Il Roscio vide rosso raccattò a terra un mezzo mattone e gli si avventò contro con la bava alla bocca. Allora si fecero sotto le guardie del corpo di Raganaccio e ne vanne fuori una cagnara di proporzioni mai viste. Correvano botta da orbi ma per fortuna pochissime arrivavano a segno. Accorsero i carabinieri con le baionette inastate. I mercatalesi allora se la svignarono per i campi e rientrarono al loro rione con qualche testa rotta e qualche occhio pesto ma trionfatori lasciando che con la forza pubblica sa la sbrigassero quelli del Monte. Quando in città si seppe l'accaduto, il sor Bonifazio fregò le mani soddisfatto: «Promette bene… P5romette bene… Però per San Crescentino bisognerà avvertire il maresciallo che chieda rinforzi».
Mancavano due giorni alla gara ed ancora nè il Monte né il Mercatale si erano isoritti. «Promette bene, promette bene…» seguitava a dire il sor Bonifazio ed aveva ragione perchè l'interesse pubblico aveva una febbre che spaccava il termometro. Nella bottega della Sciascia vennero esposti i premi e la gente che usciva dalla messa di mezzogiorno (era di domenica, il 30 maggio) faceva ressa e commentava. Davanti alla vetrina si trovarono anche il Roscio con la sorella che pareva invecchiata di dieci anni, ed il Raganaccio che aveva sottobraccio una fraschetta imbellettata. «Il premio che vincerò sarà per te, carina diceva il mercatalese guardando la Rosina con la coda dell'occhio. Alla poverina vennero i lacrimoni e per non farli vedere a quel farabutto si trascinò via il fratello mentre Peppe sghignazzava. «Carina, carina.. le aveva detto carina…» urlava dentro di se la Rosina poco dopo quando già Peppe Raganaccio era nuovamente pentito di ciò che aveva detto.
Frattanto le monache di Santa Chiara lavoravano giorno e notte a ricamare il ricco stendardo di seta che sarebbe stato l'ambito premio per il rione vincente che, come diceva il regolamento, 1'avrebbe tenuto sino all'anno dopo rimettendolo in palio per la seconda edizione. Si sarebbe così formata usa tradizione diceva il sor Bonifazio ed aggiungeva fregandosi la mani: «Promette bene, promette bene». Frattanto nella privativa delle sorelle Tafani si sparse la notizia che i biroccini del Marcatale avrebbero avuto le ruote con i cuscinetti a sfere e sembrava infatti che Pasticcio fosse ritornato da Pesaro con una voluminosa e misteriosa valigia. Il facchino Tempesta (neutrale perchè era della piazza) assicurò che quella valigia era pesante come se fosse piena di ferro e lui lo sapeva bene perchè l'aveva portata dalla corriera sino al Mercatale. La partecipazione dei due acerrimi rivali fu in sospeso sino alla vigilia, ma a mezzanotte in punto, allo scadere cioè del tempo utile per l'iscrizione, il sor Pasqualino Cicetti e l'avvocato Barozzi, i due appassionati dirigenti del Mercatale e del Monte, s'incontrarono sulla porta del bar dello Sport ognuno con il suo bravo foglio d'iscrizione in mano. Malgrado l'ora piuttosto tarda, una folla di ente gremiva il caffè e la piazza per vedere come sarebbe andata a finire la facceda. Il sor Pasqualino Cicetti e l'avvocato Barozzi si squadrarono in cagnesco ed entrarono nel bar tra i mormorii del pubblico e siccome il sor Pasqualino entrò per ultimo, il Mercatale chiuse con il suo nome la lista dei rioni partecipasti al 1° Palio dei biroccini. Poco dopo la porticina della saletta riservata al Comitato Organizzatore si apri e apparve il sor Bonifazio che annunziò il lieto evento. Indi, mentre la folla esplodeva in un caloroso applauso, il sor Bonifazio abbandonando l'aria importante che aveva assunta per l'occasione si fregò soddisfatto le mani per la millesima volta disse: «Promette bene, promette bene… Ferruccio, un grappino». Quindi il bar sì chiuse, mentre il Comitato continuava i suoi lavori. Frattanto nei rioni le cucitrici e le magliaie lavoravano per finire in tempo divise, maglie, bandierine e distintivi, poichè ad ogni rione il Comitato Organizzatore aveva assegnato un colore (per evitare liti e confusioni i calori erano stati sorteggiat: San Polo, azzurro; La Vagine, violetto; Santa Lucia, bianco; Santa Margherita, rosso; San Bartolo, nero: Monte, giallo; e Mercatale, verde. La gente face ritorno alle proprie case con il desiderio di far tutto un sonno per giungere prima all'indomani. La notte stellata che già portava con se il tiepido soffio dell'estate, stese il suo velo di sonno sui rossi tetti delle case ubnificando nell'oscurità, i colori dei sette rioni.
Il sor Pasqualino Cicetti e l'avvocato Barozzi fecero notte in bianco a concertare la tattica di gara dopo aver girato per case dei propri campioni per assicurarsi che non passassero la notte in bagordi.Erano accompagnati da una piccola scorta di fidi dalle facce truci: non si sa mai che cosa può succedere quando si ha a che fare con degli avversari poco leali… Peppe Raganaecìo non poteva chiudere un occhio per via della Rosina che aveva ormai dichiarato ufficialmente alle amiche che quel Mercatalese sudicio era definitivamente morto per lei. Da parta sua, però, la Rosina ripensando alla promessa che Beppe aveva fatto a quella sgualdrinella si era addormentata con il visetto bagnato di lacrime e sognava che lui la rapisse su di un biroccino a motore e se la portasse in una pazza corsa giù per lo stradino di Rosciolo. Anche il Roscio non poteva dormire: quel sospetto sui cuscinetti a sfere gli rodeva troppo. Sarebbe stato uno svantaggio indiscutibile... le andavano a pensare tutte quei farabutti del Mercatale!
Gli attacchini con a capo Casabona stavano attaccando lungo tutto il percorso gli striscioni colorati con gli evviva per i sette rioni partecipanti al Palio. Facevano una gran fatica perciò Casabona più cotto del solito incollava i manifestini alla rovescia e dovevano ristaccarli e riattaccarli senza nemmeno fiatare perchè l'attacchino capo non ammetteva osservazioni ed aveva già spalmato la bocca con il pennello della colla ad uno dei più giovani apprendisti che gli chiedeva se era più bono il rosso o il bianco»
Era stato stabilito che appena la processione avesse riportato in Chiesa la statua di San Crescentino, avrebbe avuto inizio la gara. Il segnale di apertura del Palio dei biroccini sarebbe stato dato dallo sparo di una batteria di mortaretti e lasciando libero in cielo un pallone enorme formato da sette spicchi di carta velina ognuno del colore di un rione col relativo nome. Si trattava del solito pallone ad aria calda col pentolino del fuoco sotto. Era stata un'idea del Sindaco. «Sarà una cosa significativa».aveva assicurato ma per quanto uno si scervellasse non s'era potuto capire che significasse. Comunque non gli si era potuto dire di no. La processione di San Crescentino fu molto frettolosa quell'anno. Pareva che persino i preti avessero fretta di terminare presto la funzione per godersi la corsa, tanto più che mentre si sarebbero tolti i parafasti sacri avrebbero parso dal tempo prezioso par assicurarsi un buon posto. Come San Crescentino ballonzolando e cigolando sul suo piedistallo, varcò la soglia del Duomo di ritorno dalla sua passeaggiatina annuale, un fuggi fuggi generale. I preti diedero la benedizione in fratta e furia. Gli organisti accelerarono i tempi e via tutti a gambe levate a schierarsi lungo il percorso. In piazza ara stata eretta una staccionata di legno circondata da sacchetti di sabbia per via di quella curva pericolosa che a parere del sor Bonifazio avrebbe aumentato 1'emozione della gara. Al Marcatale c'era l'adunata dal concorrenti che dovevano poi raggiungere in corteo il Monte in modo da sfilare lungo il percorso tirandosi dietro i loro biroccini. Alle 18 precise il sindaco si alzò dalla sua poltrona al centro del fastoso palco delle autorità, situato davanti al traguardo e con voce commossa dichiarò aperto il 1° Palio dei biroccini. Esplosero allora i mortaretti che produssero un certo panico e fu quindi tagliata la fune che tratteneva il gran pallone colorato che già gonfio d'aria calda anelava lo spazio infinito del cielo. Il pallose significativo s'innalzò lentamente fra i battimani e lo strombazzio della banda la quale suonava una marcetta composta per l'occasione dal maestro Zurlo. Il pallone danzò per aria con il pentolino che fiammeggiava, stette un po' indeciso sul da farsi, poi preso dalla brezza spari dietro i tetti andando, come si seppe poi, ad incendiare un pagliaio alla parrocchia di San Donato il che costituì uno strascico interminabile per il risarcimento dei danni. Da sotto la Voltacoia, scesero allora i corridori in corteo per ordine d'iscrizione. Avanti a tutti sventolava lo stendardo in palio, poi dieci giovani in costume cinquecentesco, quindi una fanfara di trombe che stonava maledettamente la marcia trionfale della Aida ed infine i corridori che si trascinavano dietro i loro biroccini. Erano due per rione, quattordici in tutto. In testa venivano quelli di Santa Lucia col berrettino bianco ed i biroccini del medesimo colore (avevano fatto un po' le cose in economia).Poi i due di San Bartolo in maglione nero. Quindi quelli di Santa Margherita con una fascia azzurra a tracolla. Seguivano poi i quattro rioni più importanti: in testa i corridori di San Polo con le sgargianti maglie rosse sulle quali spiccava lo stemma del rione rappresentante un mulino nero in campo bianco. Quindi i corridori di La Vagine con una blusa violetta stemmata da una tinozza da bucato. Seguivano i due del Monte in camicietta e berrettino giallo e con vistosi stemmi rossi raffiguranti una scala a pioli con in cima un baco da seta che pareva piuttosto un vitello. E per ultimo, accolti da un vero uragano di applausi i corridori del Mercatale completamente vestiti di verde: scarpe, pantaloncini corti, maglione berrettino e persino i guanti, tutto verde. Avevano fatto le cose in grande al Mercatale, crepi l'avarizia! I corridori sorridevano alla folla che li acclamava, avanzando con passo sicuro tirandosi dietro i loro biroccini dai verdi luccicanti di cromature. Il loro stemma era un disco rosso su cui era disegnata una testa di toro. Peppe Raganaccio sfoggiava in più dell'altro partecipante un enorme paio di occhialoni verdi da motociclista. Il suo biroccino aveva realmente i cuscinetti a sfere. La folla urlava in una maniera impressionante: i carabinieri ed i soldati facevano fatica a contenerla. Già volavano i primi pugni a proposito di quei cuscinetti a sfere che per i corridori degli altri rioni rappresentavano un grave svantaggio che avrebbe dovuto essere contemplato dal regolamento. Ma già le solite camorre: la moglie del sor Bonifazio non era appunto del Mercatale? ma allora… giù fischi da ottanta, mentre in quel frastuono infernale i quattordici corridori si alineavano davanti al palco delle autorità. Essi prestarono quindi giuramento solenne (anche al giuramento aveva pensato quel diavolo d'uomo del sor Bonifazio) come i cavalieri antichi prima di un torneo di combattere lealmente senza le solite camorre di squadra. Indi s'incolonnarono e sfilando davanti alla folla schierata lungo tutto il percorso raggiunsero il punto di partenza al Monte dove i sostenitori locali volevano dare subito un fracco di bastonate ai mercatalesi ma l'interveato della forza pubblica sedò decisamente il piccolo tumulto. I quattordici corridori si schierarono per la partenza, erano: Peppe Raganaccio ed il mani scalco Pallone del Marcatale, il Roscio ed il filandaio Gustavo del Monte, il bidello Gigetto ed il mugnaio Camillo detto Semolone di San Polo, i due facchini Ciucci e Pacchiana di La Vagine, l'oste Minoia e Cicetti per San Bartolo, il macellaio Leonida detto Scannatopi col figlio per Santa Margherita, Raffaellone e Ninacca per Santa Lucia. L'attesa raggiunse lo spasimo. Ogni tanto al traguardo qualche burlone gridava: "Eccoli, eccoli..." e la gente si accavallava paurosamente. Il palco delle autorità, minacciava di essere sommerso ogni momento. Fra la folla i cazzotti volavano come niente ed i carabinieri avevano costituito al centro del Marcatale un piccolo campo di concentramento per i più facinorosi. La banda strombazzava all'impazzata senza badare al maestro Zurlo che si sbracciava per mantenere il tempo sino a che un torso di cavolo gli chiuse un occhio in modo piuttosto violento. Attorno alla giuria c'era uno schieramento importante di carabinieri e soldati perchè già qualche scalmanato aveva dato l'assalto al sorBonofazio per fargli intendere con modo energico le giuste ragioni a proposito di quei cuscinetti a sfere. Il maresciallo dei carabinieri con la sciabola sguainata, ritto su di una sedia dirigeva l'ordine pubblico. Una diecina di forestieri capitati per caso sul posto si divertivano un mondo approfittando del trambusto per esplorare indisturbati fra le sottane. Era un vociare lnfernale. Una bolgia. Volavano gli insulti più sanguinosi specie da parte di quelli che erano al sicuro sulle finestre mercatalesi imbandierate di verde dalle quali partivano proiettili di ogni sorta che naturalamente colpivano chi meno c'entrava. Il parroco di San Donato ricevette in piena faccia una scarica di fagioli lanciata età un gruppo di quei notissimi frombolieri del Ghetto famosi per la precisione con cui maneggiano le loro fionde elastiche. Il sindaco non faceva a tempo ad accomodarsi il tubino che una lunghissima canna che partiva chissà da dove glielo rimetteva per traverso. Nemmeno il Maresciallo era risparmiato che al rosso delle sue bretelle si era aggiusto quello di un pomodoro lanciato con ferocia. Il parroco di San Sergio vittima 41 un lascio di patate fradice bestemmiava sordamente mostrandosi del parere di don Ciccio di Gadana che soleva dire: "Quando ci vogliono, ci vogliono…" Finalmente dalla piazza si fece udire un urlo disumano che annunziava certo l'arrivo dei corridori. Ma nessuno si vedeva. Che diamine succedeva? Ecco finalmente un bolide verde saetta giù per Valbona. E' Peppe… Peppe Raganaccio. "Dai, dai… Peppe, Peppeeee…" e dietro di lui non c'era nessuno. Chea diatacco… Nel frattempo uno del Monte approfittando dal trambusto è riuscito ad arrivare alle costole del sor Bonifazio e gli urla negli orecchi: "Quei cuscinetti a sfere ti porterranno al cimitero… venduto!" Quindi gli agguanta il collo e cerca di mordergli il naso. Pochi metri ancora di discesa separano il prode Raganaccio dal pericoloso varco di Porta Romana. Il biroccino a tutta velocità rimbalza paurosamente ad ogni sporgenza… un lampo… uno strepito orrendo e Raganaccio scompare alla vista… dov'è… dov'è… A quella velocità pazzesca non ha preso bene le misure e ha infilato come a una saetta l'entrata della chiavica municipale di dove lo estrarranno i pompieri dopo varie ore di intenso lavoro. Dalla piazza continua a venire un urlo impressionante che sembrano più grida di dolore che d'entusiasmo. E gli altri dove sono? Finalmente si vede scenderà la discesa un biroccino sgangherato di colore azzurro. «Santa Margherita! I Santa Margherita…!» ma sul biroccino non c'è il guidatore. E questo? Il catorcio azzurro cigolando penosamente scende a valle solo soletto e taglia il traguardo mentre la furia bestiale della folla spazza ria tutto: carabinieri, soldati, baionette… tutto. Il palco delle autorità è sparito. Chi l'ha visto? La banda musicale verrà trovata un'ora più tardi malmenata e con gli istrumasti a pezzi giù per i fossi di Rosciolo. Ma come andò la corsa? Partirono i quattordici come bolidi gettandosi lungo la ripida discesa del Monte.il Roscio è in testa tallonato da Pappe Raganaccio. I due lavaginesi, Ciucci e Pacchiana sfondarono con rumore infernale il portone inchiavardato della chiesa di San Francesco, poco prima di arrivare in piazza e rotolarono sin quasi sull'altare sotto gli occhi esterrefatti di Fra Beniamino. Il filandaio Gustavo del Monte si aggrappò di schianto ad un pilastro dalla tettoia in piazza delle Erbe, demolendone una buona porzione. L'oste Leonida Scannatopi invece rimase al punto di parteaza perché nel dare la spinta lui ruzzolò bocconi a terra ed il biroccino gli partì da sotto come una palla di schioppo rimbalzando sul selciato provocando panico fra gli spettatori. Pallone, Cicetto, Camillo (Semolone), Ninacca, Gigetto ed il figlio di Leonida (Scannatopi) poco dopo la partenza di erano cozzati fra di loro aggrovigliandosi furiosamente e così intricatamente che dopo una buona mezzora non sì era ancora riusciti a districarli e sgomberare la strada. Nel fratempo il Roscio piombò in piazza a velocità pazzesca mentre più cauto il Raganaccio pensava alla curva. Il Roscio non ci pensò e per quanto sterzasse non gli riuscì di deviare di un solo millimetro la linea retta presa dalla sua macchina infernale che frantumò la palizzata di protezione, fendè vertiginosamente la calca e depositò il suo guidatore nel campionario della drogheria di Adelemo fra un frantumaio orrendo di vetri. L'oste Minoia di San Bartolo e Raffaellone di Santa Lucia piombati in piazza a gran velocità non si sognarono neppure lontanamente di prendere la curva e l'uno finì nella vetrina della Sciascia dove ancora erano in nostra i premi e l'altro andò a fracassare ciò che non aveva finito di fracassare il Roscio. Naturalmente il paesaggio di questi bolidi nella piazza gremita di gente non fu senza incidenti, il che è logicamente scientifico e dovettero accorrere tutte le autoambulanze del passe. Ninacca dal canto suo entrò in vite come un aeroplano e ruzzolò per una ventina il metri ora sopra ora sotto al suo biroccino. Peppe Raganaccio invece da quel guidatore nato che era prese la curva in perfetto stile e volò verso la vittoria che ormai non poteva più sfuggirgli senza però fare i conti con l'apertura spalancata della chiavica. Dietro di lui il biroccino di Leonida (Scanntopi) correva senza guidatore piombò in piazza a gran velocità cozzò nella palizzata e fece come una palla di bigliardo che tocca la sponda, ossia mutò direzione premendo la curva a modo suo s'imfilò giù per Valbona, giungendo come già si solo al traguardo… Il paese parve allora invaso da una follia omicida. Spazzato il campo del Marcatale, bande armate andavano in cerca dei propri nemici nei vicoli. Quelli di Santa Margherita gioirono poco del loro trionfo perchè furono costretti a battere la ritirata sotto un sacco di botte. Lo stendardo della vittoria, dal manico nichelato, fu rinvenuto attorcigliato attorno al collo dello sfortunato organizzatore, quando i pompieri riuscirono a ripescarlo nello scarico delle immondizie. Il sindaco e altre autorità civili e religiose compreso l'Arcivescovo scamparono a mala pena al linciaggio, barricandosi nell'osteria del Borgo protetti dai soldati… Piano piano la follia sportiva si calmò. Gli animi si placarono e qualche mano sì strinse. Alle fontanelle i più contusi si facevano i bagnoli d'acqua fresca. Quando fu estratto dalla chiavica Peppe Raganaccio più morto che vivo, la Rosina in lacrime, con la disperazione dipinta sul bel visino gli si avventò sopra lavandogli a furia di baci appassionati il volto sporco di fogna. Il campanone del Duomo suonò allora per la benedizione ed i più presero la strada della chiesa, mentre nella mascalcia di Gaetanone si lavorava par districare lo standardo dal collo del sor Bonifazio che mormorava malinconicamente: «Peccato! Prometteva cosi bene… prometteva cosi bene…»
11 - I PECCATI CAPITALI di Ubaldo Santini Jr.
AVARIZIA. Soltanto in morte diventano utili l'avaro ed il porco ingrassato (F. Logau)
Pare impossibile ma è proprio della gente che si scava la fossa con le mani. Finiva il carnevale. Quei giorni una valanga di nubi nere cose una carbonaia passava bassa nel cielo a sfiorare i campanili di Borgo. La pineta era tutta salsedinosa come se l'Adriatico le lambisse i piedi invece di essere tanto lontano laggiù in fondo alla piana incenerita. Dalla Carpegna veniva un ventaccio buggerone che aveva dichiarato guerra e sterminio ai cappelli, agli ombrelli e alle mutande delle donne. Gli studenti di Borgo andavano in giro, poverini, a fin di bene in tutto quel freddo. «Raccogliamo denari e cose per i poveri» dicevano cercando di rendere pietose certe facce patibolari da filibusta. Era un'opera di solidarietà umana. «E chi sarebbero questi poveri?» «Noi» Ma il sor Gasparino non si lasciò abbindolare dalle chiacchiere infiorate e dai sorrisisi bugiardi. Che gliene importava a lui del carnevale? Finiva? Ma poteva anche finire il mondo, lui sarebbe crepato a casa sua fra la sua roba. «Mi minchioni? E rifiutò di regalare i cinque fiaschi di vino richiesti. Non era obbligato e non voleva assolutamente rinunciare ai suoi diritti. "Mi minchioni?" disse di no e fu irremovibile. Gaetano che per il suo caratterino era detto Gaetanaccio, contrariamele al suo abituale modo di trattare le cose avverse, fu assai dolce nel cercare di fargli comprendere come non fosse molto prudente mettersi contro una comunità che a Borgo era assai temuta (li ohiamavano anche i "Lazzaroni"). Non ci fu nulla da fare, anzi il sor Gasparino si lasciò persino sfuggire delle parole imprudenti. Gaetanaccio non fiatò: atteggiò il suo muso duro da sgherro a una espressione di disappunto e disse soltanto: «Peccato sor Gasparino, peccato davvero perchè ci contavamo proprio su quei cinque fiaschi di Vernaccia… Buon giorno». E se ne andò lasciando l'avaro nel dubbio di aver commesso un errore. Ma ormai era fatta, eppoi cinque fiaschi di Veraaccia, "Mi minchioni?", lui non li beveva in un anno. Davvero, davvero aveva proprio la faccia da gnocco? Perchè doveva sperperare il suo per i bagordi di quattro scioperati quando lui, ricco come era, si lavava da se le mutande per risparmiare i soldi della lavandaia e si affannava a mettere a repentaglio i suoi danari prestandoli a dei disgraziati che spesso non li restituivano neppure costringendolo a mettere le cambiali nelle mani degli avvocati? "Mi minchioni?" Brutti scioperati! La cui operazione principale, oltre a quella di non far nulla tutto il santo giorno, era di vivere alle spalle dei gonzi. Che tempi! Che tempi! Il sor Gasparino scrollò la magra schiena spianata come un'asse d'abete coperta da una giubbaccia che avrebbe fatto schifo persino ad un disgraziato e andò a sfogarsi con il suo amico Samuele che da quaranta anni sedeva dietro il bancone del suo negozio di rigattiere nel Ghetto senza mai avventurare il suo naso all'aperto per non lasciare incostudita la polvere delle sue cianfrusaglie. «Che vi possono fare, sor Gasparì mio? Avete fatto ben, avete fatto ben! Che gente, che gente…» E soffiava indignato nella barbaccia polverosa. «Ma quelli sono vendicativi, Samuele mio, quelli mi piacciono poco». «Non ci pensate, sor Gasparì, avete fatto ben, avete fatto ben» E pensare che per il sor Gaparino quei cinque fiaschi di vino sarebbero stati un sacrificio da nulla perchè aveva una cantina da dissetare un esercito d'occupazione. Non solo, ma era ricco sfondo anche se piangeva sempre miseria, specie quando doveva andare a pagare le tasse. Passavano i giorni e sembrava che l'incidente fosse ormai chiuso, tanto che l'avaro finì persino per dimenticarsi che Gaetanaccio non portava quel nome per nulla. Una notte però, era mezzanotte, il sor Gasparino udì bussare alla porta di casa. «E chi può essere a quest'ora?» Chiese alla moglie che gli ronfava accanto, ma quella dormiva e ne sapeva quanto lui. «E chi può essere? e chi può essere?» Il busserello di ferro continuava a battere, ad intervalli regolari dei colpi che si ripercuotevano per tutta la casa. «E chi può essere?» non trovava le ciabatte e pestava coi piedi nudi sul gelo dell'impiantito. Aprì la finestra che dava sulla strada e chiese con la sua vocetta stridula "chi è?" «…i èè?» rispose 1'eco. Silenzio di tomba. Poi gridò una civetta. Era una bella notte di plenilunio, fredda e limpida come una lastra di ghiaccio. Il sor Gasparino si sporse e guardò giù alla porta. Nulla. Nemmeno un'anima viva. Solo le ombre delle case a muto colloquio tra di loro. Uno dei soliti scherzi da prete, pensò, ma mentre stava per ritirasi fu bussato ancora. «Gesummaria santissima» Davanti alla porta non c'era nessuno eppure qualcuno bussava. Il sor Gasparino stralunò gli occhi e si spenzolò fuori per vedere meglio e vide purtroppo ciò che non avrebbe mai voluto vedere: il busserello di ferro, mosso da una mano invisibile, si alzava e si abbassava riempiendo la casa di funebri rintocchi. «Gasparino, Gasparino, ma chi è che bussa». Urlò la moglie da1 letto. Gasparino non rispose perche aveva da fare: batteva i denti convulsamente, mezzo instupidito, senza aver la forza di staccarsi darla finestra. La donna si alzò imbacuccandosi in un paio di braghe del marito e andò a vedere anche lei. Vide. Cacciò un urlo che risvegliò gli echi della contrada e rinchiusa la finestra con tanta violenza da mandare i vetri in frantumi con un baccano d'inferno. L'alba li trovò accanto al letto, accosciati per terra, che non avevano avuto più il coraggio di coricarsi per il timore che gli spiriti entrati dal buco della serratura venissero a tirar via le coperte per farli morire di paura.
La notte seguente il fatto si ripetè e poi ancora la notte appresso. A mezzanotte in punto una mano invisibile impugnava il busserello e batteva dodici funebri rintocchi. Poi tornava il silenzio. La faccenda fece il giro di Borgo: al Ghetto c'erano gli spiriti. La Piattolina, che faceva le carte e le cabale del lotto, si ricordava di aver sentito dire che più di cent'anni prima, nella casa del sor Gasparino ci si era impiccato un tale che aveva amicizia col diavolo.
Finalmente le bussate cessarono ma cominciarono altre e non meno preoccupanti manifestazioni misteriose. Si udiva per la via un sinistro strascichio di catene ed un brontolio confuso di anime in pena che si lamentavano dall'oltretomba. La Piattolina disse che non c'era dubbio e cavò tre numeri per la ruota di Bari che uscirono invece in quella di Milano ma che se non altro servirono a confermare la storia dell'appiccato. Si venne poi a scoprire che costui era stato un sordido usuraio e allora il sor Gasparino si convinse. Lui e la moglie non chiudevano più un occhio per tutta la notte e si erano ridotti in uno stato pietoso. Una notte furono lanciati del sassi che mandarono in frantumi tutti i vetri. I ciottoli erano neri come la pece, mai visti da quelle parti. «Ciottoli d'inferno!» sentenziò la Piattolina e cavò altri tre numeri che questa volta non uscirono per nessuna ruota. Il sor Gasparino non sapeva più a che santo voltarsi e giunse persino a fare dei tridui, delle novene, a far dire messe alle anime del Purgatorio. Niente da fare. Il soprannaturale non si lasciava calmare da quei palliativi. Il parroco fece persino usa piccola processione per tutta la contrada, benedicendo gli spigoli e i portoni. Tutto ciò costò dei bei denari senza portare nessun frutto: ci guadagnarono la chiesa, lo stato e la Piattolina che teneva sedute consultive in continuazione. In risposta alla processione, la mattina dopo, sulla porta della casa spiritata v'era dipinta una gran croce rossastra. II segno venne esaminato da un esperto e risultò che il colore usato non era colore. Era sangue. Questo fu l'ultimo atto della misteriosa faccenda, anzi il penultimo perchè infatti ne accadde un altro che chiuse allegramente il ciclo spiritistico nel ghetto. Una notte, era una settimana che durava quella sinfonia, il sor Gasparino udì nuovamente battere il bussarello. Al colmo della disperazione e con un brutto sospetto che già si andava formando in lui, corse alla finestra. L'aprì di furia. Mise la testa fuori giusto giusto perchè una scopa attaccata ad una lunga canna gli accarezzasse la faccia. E quegli spiriti birbaccioni l'avevano intrisa di sterco la scopa. II sor Gasparino non disse nemmeno ah!
A mezza quaresima si presentò nuovamente Gaetanaccio con una gran canestra sulle spalle e una faccia da schiacciarci sopra le mandorle. Chiedeva qualcosa per gli studenti. C'era un'altra festicciola in programma. Volava appena dieci fiaschi di vernaccia, un prosciutto, un rocchio di salciccie secche e qualche formaggino di pecora. L'usuraio non fiatò. Mise nel canestro il vino e il resto, quindi tirò fuori dal portafoglio (lo chiamavano il porta-sudori-della- povera-gente, un bel fogliettone da cento lire e col migliore dei suoi brutti sorrisi disse: «Ecco tenete, per i vostri poveri, però vorrei sapere…» Gaetanaccio cortesemente spiegò. Il bussarello lo legavano con un lungo filo nero che veniva manovrato di lontano nel buio del portone di rimpetto. I sassi neri li avevano mandati a prendere al mare. La croce era stata dipinta col sangue di bue. Lo stridio di catene era semplicemente uno strascichio di catene.La spennellatura con la scopa… lasciamo perdere… «Spero che non l'abbiate presa a male sor Gasparino mio. Ci si annoia tanto a Borgo che un poco di svago non fa male. Vero?» L'avaro fu di spirito e ci rise anche lui. Però quando il giovane se ne andò col bottino bastonò la moglie come se fosse stata lei la causa di tutto. E la moglie allargò le spalle e se le prese senza protestare. Disse soltanto: però… cosa c'entravano quelle cento lire?» ARTURO SANTINI Jr
GOLA I medici lavorano per conservarci la salute, i cuochi per distruggerla: ma questi ultimi sono più sicuri del fatto loro. (DIDEROT)
La ricetta, la vera ricetta per fare il vin caldo la conosceva solo don Pavolo, il parroco del Tufo, e non la rivelava a nessuno, perchè era vincolata da un solenne giuramento: si sarebbe fatto scannare ma non avrebbe fiatato. Don Pavolo era l'ospitalità in persona. Ospitalità che aveva l'innocente aspirazione di diventare famosa in tutta la regione o perlomeno nell'ambito della diocesi. E così aveva sempre la casa piena di persone che alla sera andavano a barattar quattro chiacchere con lui, d'estate sul fresco del sagrato e d'inverno avanti al ciocco in cucina. Era allora che veniva in ballo quel famoso vin caldo che superava di gran lunga tutti i più squisiti ponci di questa terra; naturalmente quindi all'inverno aveva più visite che in estate ed egli ne era lieto perché ciò rappresentava il miglior riconoscimento alla superiorità indiscussa della sua bevanda. Le nostre massaie hanno ognuna la propria ricetta: chi ci mette la cannella e chi la scorza di limone e chi l'una e l'altra; chi ci mette le zucchero e chi il miele. Quello che ci metteva don Pavolo non lo sapeva neppure la sua fida fantesca che lo serviva sin dal tempo della sua prima messa ed era vecchia bacucca, più madre che serva. Il fattore Pannella, la moglie Annunziata e la loro giovane figlia Caterina non mancavano mai alle serate di don Pavolo. Con loro venivano sempre il ricevitore postale, il sensale di buoi, il cantoniere ed il sagrestane Andreino Scalso, il quale con la scusa di venire a prendere ordini, che erano sempre i medesimi, s'intrufolata tutte le sere nella conversazione. Come fosse capitato alla parrocchia del Tufo questo Andreino Scalso era un mistero per tutti, compreso don Pavolo. Il di lui predecessore dopo la morte del vecchio sagrestano che serviva messa da più di sessant'anni, si era trovato fra i piedi uno sconosciuto che nessuno aveva chiamato nè mandato. Era una domenica di quaresima e siccome quella mattina il rituale senza sagrestano era in pericolo, Andreino era stato accolto come la manna del cielo. Non era stato possibile però tirargli fuori una parola di bocca sulla sua origine. Disse solo che gli bastava un tozzo dì pane, un paio dì scarpe, magari vecchie, perchè il sagrestano di una parrocchia che si rispetti non poteva servir messa scalzo. La prima però, quella domenica di quaresima, dovette servirla così com'era e siccome in chiesa c'era anche quell'animaccia perduta dell'amico Pasquale che alle funzioni ci andava solo per provocare le donne, non perse l'occasione per battezzarlo Scalso, con la esse al posto della zeta, alla paesana. E Scalso gli rimase come cognome, nè Andreino mostrò di offendersene. Probabilmente quel soprannome rimpiazzava egregiamente un cognome che per ragioni di lutto personali era meglio lasciarlo dove stava scritto… Non di rado facevano parte della combriccola alcuni bravi giovani della associazione cattolica e qualche pudica figlia di Maria. Tutti quanti timorati di Dio e, sino ad una certa ora, temperanti nel bere e riservati negli sguardi. A volta giocavano a tresette, alla tombola, all'omo nero con le penitenze, ma più spesso, d'inverno, si disponevano attorno all'immenso camino, con il parroco nel mezzo a scaldarsi i piedi ragionando di funzioni religiose, di Santi, di miracoli, di politica, di pettegolezzi paesani e campagnoli. Si parlava male del Governo e bene della Chiesa; si esaltavamo le Missioni e si diceva peste e corna della guerra. Ma siccome tutti i Salmi finisco in gloria a l'argomento piaceva a tutti s'intrecciavano argomenti grassi e gustosi di pranzi e di pietanze. Ognuno aveva qualche cosa di buono da descrivere e da far assaporare con la fantasia, colorita da schiocchi di liagua. Era quello il momesto in cui don Pavolo si alzava e pronunziava le fatidiche parole: «Ed ora vi farò assaggiare una tazza di vin caldo come la so fare io solo in tutto il mondo. Che Iddio mi perdoni l'immodestia, ma è proprio così». Come lo facesse questo dannato vin caldo era proprio come il mistero della Santissima Trinità: si sentiva com'era, ma non si sapeva che c'era. Intanto le donne allungavano furtive la coda dell'occhio facendo finta di nulla. Niente! il segreto non si carpiva. Don Pavolo armeggiava a lungo nella dispensa rifiutando cortesemente ogni sera le offerte di disinteressate di aiuto. Tutti rimanevano in sospeso ad aspettare, parlando distrattamente con l'attenzione rivolta al parroco che scarabattolava tra cartocci e barattoli come un alchimista che voglia dimostrare di aver scoperto come si fa l'oro con il timore però che gli sia rubato il segreto della pietra filosofale.
La sora Annunziata PPannella (un robusto donnone energico e volitivo che malgrado gli anni si svenava ancora regolarmente ogni mese) aveva due grandi preoccupazioni: conoscere il segreto della famosa ricetta di don Pavolo e sorvegliare la Caterina che ormai faceva girare parecchie teste nei dintorni. Sulla ragazza si intrecciavano già le innocenti malignità della gente per via che il maestro elementare della frazione le dava lezioni private di francese. La ragazza, per volontà del padre, si era fermata alla quinta elementare ma leggeva molto e s'istruiva da se e quando quel bel giovane ricciuto, uscito fresco fresco dagli esami di abilitazione, aveva ottenuto una supplenza al Tufo, la Caterina aveva espresso, il desiderio di imparare un po' di francese. Niente di male! tanto più che le lezioni si svolgevano sotto gli occhi della fattoressa. I due però si arrangiavano ugualmente a guardarsi sospirosi, a darsi delle delicate pestatine di piede o a toccarsi furtivamente le mani nel voltare le pagine dei testi. Il più emozionante però era il ripetersi sommessamente: "Je t'aime beaucoup, beaucoup...mon tresor… mon amour…»" E siccome la competenza linguistica del maestro non oltrepassava di molto quei limiti, le lezioni progredivano lentamente ai fini didattici e molto velocemente a quelli sentimentali. La fattoressa dal canto suo aveva sempre nella testa quel chiodo di quel maledettissimo vin caldo. Che ci metteva? che ci metteva? il vino era vernaccia indiscutibilmente, anzitutto per il sapore eppoi si sa che dove non c'è vernaccia il vin caldo non è vin caldo ma può servire ottimamente per un buon pediluvio. Anche l'odore della cannella non mancava e cosi pure i chiodi di garofano; si sentiva troppo bene e si vedeva anche sia l'una che gli altri. Ma poi? che altro ci metteva poi? miele? foglie di lauro? mentuccia? noce moscata? un fulmine che se lo porti? mah! Forse quel sapore indimenticabile doveva provenire da qualche droga esotica. Ogni sera erano le solite congetture che ognuno ruminava nel proprio cervello, tanto che per tutti il vin caldo di don Pavolo era diventato una vera e propria ossessione. La fattoressa non sapeva proprio darsene pace e devota com'era se ne faceva persino uno scrupolo di coscienza tale che sentiva il bisogno di confessarlo, ma vergognandosi di confessarlo a don Pavolo andava a scaricare il suo fardello nei confessionale di don Checco alla parrocchia di San Cripriano. Al ritorno da quelle serate la povera fattoressa non riusciva a prendere sonno e si voltava e rivoltava nel letto mentre il marito ronfava come un contrabbasso. Ma già gli uomini non hanno di queste preoccupazioni! Nella stanza accanto che profumava tutta di spighetto, la Caterina fra la lenzuola ripassava piano piano a fior di labbra la sua lezione di francese prima di addormentarsi: «Je t'aime beaucoup, beaucoup...» Quando don Pavolo in persona serviva la magica bevanda la conversazione cadeva di colpo. Quel vin caldo pareva rubino fuso. Vi galleggiavano dentro come minuscoli pesciolini i chiodi di garofano e qualche filaccio stopposo di cannella, e tutti poi credevano di vederci qualche striatura misteriosa di una colorazione appena appena percettibile. Don Pavolo conosceva il doppio vizio delle sue pecorelle: uno lo accontentava, che il il vino era, sempre abbondante, ma il secondo lo lasciava maliziosamente com'era, trincerandosi dietro l'invincibilità di quel famoso giuramento che gli chiudeva la bocca. Se non ci fosse stato quel giuralente di mezzo, la fattoressa avrebbe finito per affrontare dcisamente il prete, come un bandito di strada: «O la borsa o la vita!… o la ricetta dell vin caldo o divento miscredente!» Mentre bevevano nessuno parla e tutti, uomini e donne, sorbivano rumorosamente con il naso nelle tazzine di terracotta sulle quali era dipinto un volo di rondini. Era un dono offerto a don Pavolo dai fedeli di un paesetto vicino. Dono che risaliva a trent'anni prima quando don Pavolo allora giovane ed ardente predicatore, faceva i quaresimali per le parrocchie della diocesi.
In una brutta giornata di primavera don Pavolo si buscò un malanno improvviso che lo portò sino alle soglie dall'aldilà. Un acquazzone marzolino, rabbioso come un gatto scottato, l'aveva colto tutto sudato mentre sgambettava per ritornare alla svelta in parrocchia. Gli era salito addosso un febbrone che spaccava il termometro. Gli diedero gli estremi sacramenti: si confessò placidamente che in quell'anima candida peccati ce n'erano pochi, forse qualcuno di gola… Impartì le ultime volontà in piena lucidità di mente: le poche migliaia di lire che aveva da parte le lasciava metà ai poveri e metà alla vecchia serva, perchè non morisse di fame. Parenti non ne aveva più. Per la sua camera era un via vai di donnette che volevano veder morire il parroco che le aveva battezzate, comunicate e sposate. Andreino Scalso poveraccio, che gli voleva bene come ad un figlio vagava avvilito dalla sagrestia alla camera e dalla camera alla sagrestia pensando che non avrebbe mai avuto la forza di suonare a morto per lui. La fattoressa Pannella non stava più in se dall'angoscia. Don Pavolo non poteva morire portando nella tomba il segreto del suo vin caldo. I minuti erano ormai contati. Colse un momento che nella camera non c'era nessuno per mormorare in un orecchio al morente: «Don Pavolo benedetto ditemi… che ci mettevate in quel vin caldo? fanto ormai lo potete dire ora che... - (stava per dire: ora che morite - Lasciateci questo ricordo don Pavolo». Don pavolo mosse faticosamente le labbra esangui: « Vernaccia …» e sospirò affannosamente. «Questo lo so... che altro don Pavolo, che altro?» ansava frettolosa cosciente di fare un gran peccato. «Un pizzichino di cannella... non troppo però... non troppo…» e la voce del poveretto era un soffio appena percettibile. «Si, si, anche questo lo so… che altro anima benedetta?» «Una presetta… una... presetta… (il fiato gli mancava)… una presetta di… di chiodi di garofano...» «Benedetto don Pavolo, anche questo si sa, ma che altro per l'amor di Dio, presto.» Il parroco già rantolava penosamente e pareva spirasse da un momento all'altro. La Pannella si teneva una mano sul cuore che pareva volesse uscirgli dalla bocca. «Una cucciaiaiata di… di…» (era lì tutto il mistero, in quella cucchiaiata * Una cucchiaiata ? ditemi presto* «Una cuochiaiata di …di…di…» Don Pavolo stralunò gli occhi, annaspò con le mani, reclinò la testa ossuta sul guanciale e tacque di colpo. La sora Annunziata urlò disperatamente: "Aiuto, aiuto, è morto!… è morto senza dirmi nulla» Accorsero le donne, il dottore, il sagrestano, tutta la casa. Don Pavolo non era morto. Respirava ancora… e buon per lui continuò a respirare per altri quindici anni. Quel caro don. Pavolo!
Quando don Prvolo, uscito di convalescenza, incontrò la fattoressa a quattr'occhi, le disse: «Quando lo confessiamo quel peccatuccio, sora Annunziata?» e la sora Annunziata confusa chinò gli occhi, rossa come un papavero. Poi in confessionale Don Pavolo le fece una lunga paternale sul come frenare le tentazioni. Quindi aggiunse con un sorrisetto malizioso che non si vedeva dietro la grata: «La prossima volta che mi succederà di star per morire ancora, ve la darò per davvero la ricetta. Ora per penitenza reciterete dieci rosari a Maria Santissima, cento pater e cento Ave e ascolterete tre messe di seguito per le Anime Sante del Purgatorio. Atto di contrizione…» Arturo Santini Jr
LUSSURIA Consiglia in casa non ci poteva stare, si sentiva soffocare, i chiacchiericci delle donne la mettevano a disagio. Preferiva scorazzare tutto il giorno alla fornace fra gli uomini sudati, sporchi di terra, e fra i ragazzini neri come tizzoni, tra le torri dei mattoni essiccati o da essiccare. Tornava a casa a sera, anch’essa odorante di argilla, stanca con il sudore che infradiciava il grembiulone nero sotto le ascelle. Non sapeva vivere in casa fra le donne, era come se un pugno di ferro le stringesse forte la gola e preferiva vivere con gli uomini come un uomo. Quando guardava la sorella, così diversa da lei che sembrava una pupattolina rosea e morbida, dalle carni delicate e dai capelli ben curati, sentiva un'ira sorda contro di lei, contro la buonanima del padre, contro la madre, contro tutti. Erano tanto diverse tra loro con un contrasto così stridente che faceva male. Consiglia di bello non aveva che il corpo, un corpo stupendo che il lavoro materiale e la vita materiale avevano aggraziato in rotondità sode e muscolose, ma gli uomini non sapevano di quel tesoro celato nel grembiulaccio nero e sbrindellato, senza grazia come un sacco di juta. La consideravano uno dei loro senza sapere che aveva delle anche irrequiete e dei seni pungenti. Era al corrente di tutti i segreti dell'arte e gli uomini a volte si fidavano di lei come di un operaio dei più esperti. La madre qualche volta le diceva: «Non andare più alla fornace. Sei tutta sbrindellata come una pezzente. Rimani in casa, impara a cucire e ricamare come tua sorella e cerca do vestirti un po' meglio. Perchè non provi a dare un poco d'olio ai tuoi capelli che sono spinosi come ricci di castagne?» Consiglia passava sui capelli le sue manacce dalla pelle ruvida e arida, ma non le rispondeva neppure e la madre non insiteva. Ogni rimprovero era inutile ed inoltre la figliola non tornava mai a casa con le mani vuote. Consiglia amava gli uomini della fornace perchè essi non si accorgevano che era una donna, li amava come fratelli ma appena si accorgeva che qualcuno di loro cominciava a gironzolare attorno a Carmela, Consiglia non lo guardava in faccia ed era come morto per lei. Lo considerava un insulto e diventava cattiva.
A diciotto anni Consiglia si accorge di pensare a cose che prima di allora non aveva mai pensato, a sentire, sopratutto, che così non poteva continuare. Fu in un pomeriggio di primavera: si era distesa bocconi all'ombra di una torre di mattoni e si era addormentata con il petto pressato sulla dura terra... Aveva sognato… un sogno strano, mai fatto e si era svegliata tutta in sudore con gli occhi smorti. Il cuore le pulsava fortemente con le vene troppo piene di sangue. Le giunture le dolevano e si sentiva invasa da una spossatezza languida. Da quel giorno ogni contatto, sia pur fuggitivo, con un uomo la faceva rabbrividire. Una sera, sul vespro il vecchio Cristoforo, incontrandola mentre tornava a casa le fece una carezza scherzosa sotto il mento. A Consiglia parve di venire meno; si fermò socchiudendo gli occhi e fu sul punto di dire al vecchio una gran pazzia. La sua sofferenza era diventata tanto acuta che la faceva spasimare. Non sapeva più lavorare, al mattino si alzava tardi, perchè alla notte non chiudeva più un occhio e mordeva le lenzuola ruvide con i seni pressati sul duro materasso. Carmela dal letto accanto le chiedeva che cosa avesse, se si sentisse male, Consiglia non le rispondeva o le sibilava fra i denti un insulto triviale di quelli che udiva dagli uomini alla fornace.
Martino, il figlio del vecchio Pinon, il padrone della fornace, venne una sera a parlare con la madre di Carmela che con la ragazza era già d'accordo, si vedevano da parecchio tempo di nascosto quando Carmela tornava da Sant'Anna ancora tutta odorosa dell'incenso della benedizione vespertina. Il matrimonio fu stabilito per la fine d'agosto. Pur essendo fidanzati ufficialmente, Martino e Carmela si vedevano di nascosto nella grande pineta del monte. Consiglia lo sapeva e ne soffriva; sapeva perchè si andavano a nascondere fra i cepugli bassi nel buio e si mordeva le labbra per non gettarsi sulla sorella a graffiarle quel visetto da Santarellina.
Una sera Consiglia tornò a casa ansante. Carmela si, stava infilando le scarpette di pelle lucida venata di serpente che erano il suo orgoglio. «Carmela, è inutile che tu esca questa sera.» «Perchè?» chiese Carmela sorpresa. «Ho incontrato Martino proprio ora che mi ha detto di avvertirti che in quel posto questa sera non ci può venire… Ha da fare con il padre. Verrà dopo cena.» Consiglia pareva quasi che supplicasse di essere creduta e si gettò riversa sul letto per nascondere il tremore delle labbra. Carmela diventò rossa e si sfilò in silenzio le scarpine e andò in cucina a nascondere il suo disappunto. Consiglia si alzò di scatto con l’agilità di un felino. Era già buio e di lì a poco non ci si sarebbe visto neppure ad un passo di distanza. In cucina la sorella canticchiava mesta e svogliata. Carmela si decise: si tolse di dosso con ansia febbrile la veste sbrindellata e la ruvida sottoveste. Brancicò nuda nel buio affannosamente con gli occhi sbarrati urtando contro gli spigoli. Trovò finalmente la vestaglia di Carmela profumata di lavanda, la indossò rapidamente e si circondò i capelli con il velo della madre. Poi andò alla finestra e si sedette sul davanzale con le gambe penzoloni nel vuoto. Indugiò un momento. Carmela dalla cucina la chiamava: «Consiglia, Consiglia.» La finestra era bassa e la ragazza con un salto si lasciò cadere. «Consiglia dove sei?» Consiglia furtiva come una ladra si gettò nel buio. La luna non c’era e non si vedeva nulla. Si mise a correre disperatamente con il cuore in tumulto e giunse alla pineta con il fiato mozzo. Si ficcò sotto i bassi pini. Sapeva qual'era il loro "posticino" perché lì aveva spiati più volte. Carmela, disse Martino nel budo, Carmela.» Consiglia non fiatò e lasciò che le braccia di Martino la stringessero forte. «Carmela non potevo più attendere questa sera» Carmela... Carmela... sempre Carmela. Consiglia tremava convulsamente sotto le carezze di Martino con gli occhi socchiusi. Sentì che la vestaglia non fasciava più la sua nudità. «Carmela!» esclamò sorpreso il giovane sentendola tutta nuda, si staccò un attimo… mun attimo solo. I due respiri affannosi si fusero in un uno solo rovente sotto l'acuto aroma dei pini che frusciavano nel buio alla leggera brezza. «Carmela, Carmela...» E alla ragazza pareva che lui dicesse: «Consiglia, Consiglia…»
14 - DA GRIGIO A VERDE
Era un signore distintp e piuttòsto anziano, anzi quasi vecchio, ma di una vecchiezza elegante simpatica da giustificare l'interessamento di un adolescente. Mi confermò le mie vaghe cognizioni in materia, mentre il treno ci scuoteva leggermente in un cullio amoroso accompagnato dalla ninna nanna musicale e monotona delle ruote sulla rotaia. Il nostro scompartimento di"seconda” aveva il comodo privilegio di una blanda luce azzurrata malgrado che il personale delle F.F.S.S. avesse tolto tutte le lampadine a causa delle continue infrazioni alla norma sull'oscuramento. Quella luce veniva gentilmente offerta dal solito commesso viaggiatore attrezzato di tutto punto par i lunghi viaggi in ferrovia.
«Apparteniamo a due razze differenti, caro Tenente» mi dice accalorandosi sull'argomento cha gli sta tanto a cuore. Dal canto mio quel caro tenente fa un certo effetto perché soltanto da poche ore posso permettermi il lusso di essere interpellato così: ufficiale fresco fresco, i miei abiti odorano ancora di sartoria e quindi quella se pur leggerissima emozione è comprensibile. Anzi quell'amabile vecchietto finisce per farmi prendere familiarità con il nuovo attributo. «Da noi la vita è regolata ancora con i vecchi sisteni, la modernità, o perlomeno alcune delle sue manifestazioni più ardite, non fanno presa da noi. Pigliate ad esempio l'emancipazione della donna che nel meridione ha assunto delle forme veramente allarmanti; la nostra donna invece, e mi guarda maliziosamente, non se le sogna certe libertà. Ha un destino diverso, forse peggiore o forse migliore, comunque in una altissima percentuale è ingenua, riservata e soprattutto onesta e l'uomo che la sposa è sicuro di prendersi una donna vergine di corpo e di anima. Da noi l'amore è una cosa seria; il matrimonio è un vincolo che non lega soltanto due vite, ma intere comunità. I nostri non sono mai o quasi mai un naufragio. Non di rado essi sono legati ad un contratto su tanto di carta bollata davanti ad un notaio in presenza di testimoni. Forse il metodo vi parrà un poco feudale, ma la nostra donna è avvezza ad obbedire e sa fin dall'infanzia il destino che l'aspetta e se spesso lo sposo le viene destinato dalla volontà della famiglia, ciò non toglie che imparerà in breve ad amarlo. «Voi invece vi buttate troppo leggermente allo sbaraglio, sposando la prima che vi capita, forse perché ha toccato qualche cosa di sensibile del vostro cuore, senza riflettere sul passo che fate, senza sapere né precedenti né condizioni economiche. Tutto ciò è simpaticamente romantico e cavalleresco, ma genera sovente malintesi e delusione e finisce molto spesso in tragedia. La donna meridionale è invece assai più amante della integrità e di conseguenza è gelosa della sua reputazione che la spinge ad accettare la corte di un uomo solo quando sarà sicura di diventarne la moglie. Mi dispiace per voi, caro tenente, ed i suoi occhi torneranno nuovamente ad essere maliziosi - ma penso che nel meridione dovete segnare il passo, per dirla alla militare, di quelle che vanno sotto il nome di avventure galanti. Oddio, le nostre donne s'innamoreranno di voi come di molti altri, tyanto più che i meridionali hanno un certo fascino nella nostra latitudine, ma vi dovrete accontentare di guardare, guardare e niente più… Vi dico anzi che anche voi finirete per subire il caldo del nostro sole e di un paio di occhi neri come carboni e non potendoli baciare furtivamente, finirete per baciarli legalmente. Non è il pricaso, comunque è un augurio, perché ripeto la nostra donna è onesta. Rirdate: guardare…, guardare, guardare, e … soltanto guardare». «Tabu» «Si, tabu, ma non cieca superstizione o chiuso circolo di diffidenza; tabu nel senso di una concezione morale e sociale». Mi vien voglia quasi di battergli le mani tanto il suo discorso e pieno di foga oratoria. Usa un suono enfatico e pesante comune al linguaggio meridionale che sulle prime urta leggermente chi è abituato a frasi spigliate e semplici, a parole appropriate ed efficaci, ma che poi finisce per rendersi simpatico. Per quanto poi si capisce che una persona istruita ha delle curiose inflessioni dialettali. Per esempio, non fa alcuna distinzione fra la "T" e la "D" e pronuncia: quanto per quando, antare per andare, comanto per comando, come se fosse raffreddato. Per curiosità e cultura personale gli domando di dove sia. E' di Foccia, focciano puro sangue. Mi dispiacerebbe sentirgli dire: maggiore, mangiare, maggio come macciore, manciare maccio! I miei buoni amici meridionali.(e ne ho tanti e sinceri e per di più ho tanta simpatia per il meridione) mi perdonino l'ironia, ma era questo il mio primo approccio con gente del Meridione e certi approcci sono a volte dei veri e propri urti. Perdonato? Grazie. Il treno è giunto a Termoli e sbuffa nella notte nell'intento di aggirare alle pendici il Gargano che troneggia massiccio e cupo nel fondo della chiara notte invernale, circonfuso dell'alone romantico della tragica leggenda di Fieramosca.
Dopo Termoli mi assopisco vittima di una notte in bianco e di una giornata densa di avvenimenti nuovi che mi hanno stancato cervello e nervi. Di tanto in tanto mi scuoto di soprassalto con il naso ficcato dentro l'orecchio del distinto signore focciano o spremuto dal medesimo contro il vetro diaccio che mi illividisce la guancia. Gente che scende, gente che sale, chi brontola e chi inciampa. nello scompartimento è buio pesto; certo il commesso viaggiatore + disceso e naturalmente si è portata via la sua lampadina. Di tanto in tanto tra il sonno e la veglia odo nomi sconosciuti echeggiare nel pallore dell'alba sotto le pensiline delle stazioni: Campomarino, Serracapriola, Ripalta, Ppggio Imperiale, Apricena… fischi, richiami, rumore di ferraglie… Qualcuno grida angosciato (o pare a me): coda, coda. Qualche frase incomprensibile… il russare del distinto vecchietto che si è stabilito definitivamente sulla mia spalla e russa flebilmente come russerebbe un passerotto, ammesso che i passerotti russino… Mi addormento, mi sveglio, mi risveglio in quell'alternarsi monotono ed urtante di scosse, di pause e di lunghe nenie di ruote e di rotaie… San Severo! San Severo… a San Severo ho un amico, ma certo lui dorme a quest'ora. Beato lui… ah… ah… mi riappisolo. Rignano Garganico… gli sbadigli si succedono agli sbadigli fino a Foggia (Foccia) che si avanza rapidamente, bianca come uno stollo sul mare verde-grigio della capitanata. Sono quasi le sei e il treno ha un'ora di ritardo. «Ripartirà fra una ventina di minuti» Mi informa salutandomi il cari vecchietto e augurandomi cortesemente: «Buon viaccio… e attento alle donne meridionali, sono pericolose». Dopo di un ultimo saluto amichevole come ci conoscessimo già da anni e dovessimo rivederci da un giorno all'altro, sparisce mescolato nell'ondata di gente che va verso la stazione, contrastata da quella che va in direzione opposta verso il treno. Mi vien voglia di prendere qualcosa di caldo e scendo così come sono senza cinturone e senza bustina. Un soldato di servizio mi salutaed io rispondo portandomi sbadatamente la mano alla testa scoperta. Allora mi mordo le labbra e guardo furtivo e vergognoso all'intorno per vedere se qualcuno ha notato lo scandalo. Il soldato sorride con complicità. Accidentaccio che figura! Oggi non ci si rende più conto di quali delitto mi macchiai allora con quel disgraziato saluto. Si è vero, come ufficiale ero ancora una burba, ma non come soldato che da più di un anno armeggia fra i saluti. Beh, ormai è fatta. Ingollo un caffelatte amaro e stantio sempre con il pensiero a quel saluto. Ho avuto sempre a che fare con dei saluti, io.
Due saluti,me li ricorderò sin che campo. Il primo, quattordici mesi orsono. Avevo indossato allora allora la divisa del fante nuova di zecca, stretta di spalle e corta di maniche, Odorava acutamente di naftalina, pregna addirittura… Ogni tanto, anche a distanza di mesi, ne trovavo qualche pezzetto nelle cuciture. L'avevo indossata con molta emozione econ pochissima capacità, quella benedetta divisa. Le fasce non riuscivano a starmi aderenti ai magri polpacci e facevano pensare vagamente ai tetti a sega delle pagode cinesi. Il mio primo saluto militare venne rivolto cortesemente, con sublime spirito di disciplina, ad un sergente dalla zazzera leonina. Esagerai a sollevare il gomito per apparire più marziale ed udii un sinistro scricchiolio sotto l'ascella. Tenevo gli occhi bassi, quasi per pudore, la faccia storta e (fatale dimenticanza) la sigaretta in bocca. Tutto ciò mi costò cinque giorni di consegna e un cicchetto interminabilmente odioso, dal quale risultava che il mio atto mi aveva subito messo in luce come elemento poco raccomandabile spiritualmente e fisicamente. E quel sergente nel lisciarmi guardava acutamente il mio cranio con lo stesso interesse di un frenologo che studi un caso dubbio. Il secondo saluto, pochi giorni prima al paese. Avevo indossato allora allora la fiammante divisa dell'ufficiale. Era una giornata di febbraio umida e fredda, ma per me era la più deliziosa dell'annata. Stivalavo rumorosamente nell'umidità viscida del lungo porticato, meta di tutte le passeggiate invernali e galeotto e paraninfo di tutti gli idilli strapaesani. Verso di me venivano, frettolosi e freddolosi, cinque avieri infagottati fino agli occhi nei loro gabbani e con le mani sprofondate a succhiarsi il calduccio delle tasche. Il cuore mi incominciò a rumoreggiare irregolarmente, perché temetti che l'insieme delle circostanze facesse assistere alla dolce creatura, che mi camminava al fianco appesa al mio braccio destro, l'ignobile spettacolo di cinque avieri che, per motivi del tutto personali e climaterici, non salutassero un sottotenente di fanteria. Grazie a Dio salutarono tutti e cinque, freddolosi e frettolosi, ma salutarono. «Che giornata! - dissi con indifferenza». La divina tiranna dei miei pensieri alzò dal bavero della pelliccia il nasino rosso di freddo e mi guardò comprensiva. Me ne accorsi, era inutile fingere con lei e sbottai francamente con ingenuità: «Hai visto che mi hanno salutatto?» «Si - sospirò lei malignamente - ho visto che una ti ha salutato con la sigaretta in bocca» «Ah!» dissi ed in cuor mio ripensai al sergente dalla zazzera leonina e dalla faccia di apache: il sergente Mannori! Povero sergente Mannori dagli eccelsi pensieri tradotti purtroppo in un italiano infame, che ci tiranneggiava spietato per un bottone penzolante, per uno scarpone non troppo lucido, per un attenti poco marziale. Ci opprimeva con una incredibile e terroristica disciplina che si allentava soltanto in trattoria o al caffè (pagavamo noi per lui) ma che tornava più ferrea che mai poco dopo al contrappello serale per una borraccia non appesa al suo proprio posto o per una fascia già nostalgicamente allentata. Quando diventammo anche noi sergenti, dopo una serie esasperata di inutili esami, ci guardò mestamente cucire alle maniche della giubba i galloni prepotentemente nuovi. Mi parve invecchiato di dieci anni. Disse che eravamo ugualmente delle gran burbacce e che era una gran fortuna che ce ne andassimo, perché lui, anche a pari grado, ci avrebbe fatto saltare come dei saltamartini. Povero segenta Mannori! Non poteva abituarsi all'idea che ormai eravamo perduti per lui, forse perché, a modo suo, ci voleva bene. Un ricordo però lo lasciò ai trentasette, i soli della sua compagnia che attraverso i duri vagli e le severe selezioni, divennero ufficiali nel '42. Un'eredità di comando, direi. E cioè, quel guardare severamente il reparto schierato e dire bruscamente: «Meglio, meglio quegli attenti». Gli pagammo, e questa volta disinteressatamente l'ultima cena, ma ormai lui, il sergente Mannori dalla zazzera leonina e dalla facci di apache, apparteneva al passato assieme ai suoi spietati biglietti di punizione e alla caserma Romanello da Forlì. Il pèresente ed il futuro erano rappresentati dalla sospirata licenza e dal chimerico Corso A.U.C.
Ormai si è fatto giorno un bel giorno limpido e luminoso che è il buon augurio dell'inverno meridionale. Incontro altri ufficiali e non ci vuol molta perspicacia che sono tutti "pinguini" come me, freschi freschi, impacciati e preoccupati nel vano tentativo di mostrare di non esserlo. Il treno è pieno zeppo di Pinguini e dal loro aspetto mi figuro il mio e non ho veramente motivo di rallegrarmi. Faccio conoscenza di quelli che stanno nel mio scompartimento e ci trvo anzi un collega di corso. Mi riaccuccio già stanco e slanguidito e questa volta mi addormento pesantemente. Mi risveglio un'ora dopo con negli orecchi: «Candida, Candida, caffelatte, caffelatte…» Due facce mi guardano sorridenti, che hanno da sorridere non lo so e mi urtano anche se sono le facce di due graziose ragazze. Il mio collega di corso è accanto a loro e da parecchio tempo, a quanto mi dicono, attendono il mio risveglio per conoscermi. Ragazze in gamba, non c'è che dire, ma possibile che siano meridionali? Eppure si, anche loro dicono viaccio, manciare,e Foccia… Ma allora quel distinto vecchietto che mi ha raccontato… Santo Dio sono anche due belle figliole, Maria Concetta e Rosaria, entrambe studentesse in lettere, nerissime di occhi e di capelli. Eccezuini, eccezioni, caro mio… e che pretendevi che tutte le donne pugliesi stessero sul comò sotto la campana di vetro? Sono di Cerignola, cugine e fidanzate con due ufficiali di stanza a Bari e vanno appunto a trovarli come tutte le domeniche. Strana abitudine pert delle ragazze che ripugnano l'emancipazione, penso. Maria Concetta si interessa esageratamente a tutto ciò che concerne la mia persona, fuma una sigaretta dietro l'altra e completa fuggevolmente le mie cognizioni ambientali: «Quelli sono fichi d'india». Non ne avevo mai visti; crescono qua e là sulla scarpata della ferrovia, senza frutti perché siamo in inverno. L'aria del mattino mi rinfresca e mi rimette a posto. Posso finalmente vedere nella limpidezza del mattino la sterminata, monotonamente uguale, campagna pugliese. Muriccioli bassi, erbacce, fossi putridi e ulivi ulivi e ulivi, poi filari di viti e quindi nuovamente ulivi muriccioli bassi, erbacce e fossi putridi. Non un uomo, non il biancheggiare di un paio di buoi all'aratro, non una casetta fra il verde, solo monotonia desolante nella quale l'occhio non sa trovare un punto dove fermarsi. Ad un tratto cedo cumuli di ciottoli di forma stranissima che fanno pensare ai tucul abissini. Li indico a Maria Concetta che mi sta attaccata addosso. «Trulli» «Trulli?» «Specie di capanne» «E lì dentro vivono degli uomini?» «Ci si riparano qualche volta dalle intemperie, ma generalmente servono come depositi per gli attrezzi» Lei legge nei miei occhi qualcosa di curioso, di ironico forse, di sconcertato, è un'impressione che neppure io so definire. Mi sorprendo a pensare come deve essere triste dover dormire anche per una notte in quella capanna che ricorda un monumento funebre. io dormorei meglio all'aperto. Ne sono sicuro, tanto sicuro che non mi passa neppure lontanamente per l'anticamera del cervello che proprio in uno di quei trulli impianterò un giorno una comodissima dimora divisa con un gattino tisico e dei topi giganteschi che mi mangiarono mezza bustina nel periodo in cui, dopo l'armistizio del '43, Molfetta era l'ultima città italiana.
Trinitapoli, Margherita di Savoia, Ofantino, Barletta… sono già vicino alla meta. Maria Concetta mi dà già del tu e mi guarda arditamente negli occhi a lungo senza arrossire. Mi dice che le piace la mia compagnia e che cercherà di tornare presto da Bari. Il suo fidanzato ha l'abitudine di baciarla romanticamente sui capelli, cosa che a lei dà un fastidio enorme. Mi piacciono i settentrionali e confessa che ha già preso una cotta per un bolognese l'anno scorso. Trani Sono già al corrente di altre sue intimità del genere… e se nel pomeriggio sarò libero dovrò farmi trovare alla stazione. Lei scenderà ad attendere il treno delle 19. «Staremo un poco insieme da buoni amici, vuoi?» «Figurati, è un vero piacere» Ah Maria Concetta, se ti vedesse chi dico io, quale delusione gli daresti, ma tu non puoi capire quali rapporti abbia io con un distinto signore di Foggia (Foccia). Bisceglie Prendo la mia valigia e mi avvicino ad uno sportello, perché ormai non ho più che pochi minuti. Maria Concetta mi fa le ultime raccomandazioni, mi augura di trovarmi un buon alloggio e lo dice in modo da far capire che dovrà piacere anche a lei. Il treno fischia al semaforo. La mia nuova sede si avvicina lentamente nel verde. Le case si ammucchiano, poi si vedono palazzi, , vie persone e pensiline. I vagoni fracassano per pochi momenti gli echi di un sottopassaggio e si adagiano mollemente con uno stridio di freni. Sono le dieci, Maria Concetta mi ripete le ultime raccomandazioni e quando il treno se la porta via agita a lungo il fazzoletto dal finestrino. Anch'io agito la mano per dirle addio. Questa sera non l'attenderò alla stazione, né stasera né mai, mi ha procurato una delusione troppo forte e ha fatto svanire davanti a me il sogno di una terra dove tutte le donne sono ancora all'antica, senza emancipazioni. Se incontro quel focciano puro sangue, so io cosa dirgli, porca miseria. Una delle due: o non racconti frottole o apra gli occhi e si accorga finalmente che le idee dei suoi tempi sono tramontate anche sotto il fulgido sole del meridione.
( % 14 - DA GRIGIO A VERDE) SERVIZIO di PICCHETTO. Fischia rabbioso e gelido il rovaio che spazza il piccolo cortile dell'accampamento. Vicino si sente il brontolio sordo e inquieto del mare che cozza prepotente contro le basse scogliere e gli argini in cemento vicino al porto. E' molto freddo; un freddo che penetra sotto gli indumenti e morde la carne. La sentinella è sotto il porticato adibito a cucina, vicino alla porta. Non vi ci sono garitte qui ed in qualche modo ci si deve pur riparare da questo vento infame ere ricaccia il respiro in gola. Nell'arola c'è ancora un po' di brace e la sentinella, senza togliersi di spalla il lungo fucile dalla baionetta innestata, cerca di mantenerlo in vita gettandovi di tanto in tanto qualche pezzetto di corteccia che strappa da una catasta di legna. Certo avrebbe voglia di prendersi un bel ciocco e farlo ardere tutto, ma la legna è preziosa e serne per il rancio di domani. Così curvo com'è l'uomo, la luce della brace gli arrossa il viso, scavandogli dei solchi profondi e neri sotto gli occhi e nelle guance. Appena mi sente avvicinare ed intuisce nell'ombra chi sono, scatta sull'attenti e, pestando forte i piedi per terra, imbarazzato fa per andarsene, ma io gli dico: «Stai qui che nel cortile davanti il cancello non si resiste» In vento fischiava furibondo sotto gli androni, dove, quasi allo scoperto, dorme la truppa, portando con se un'acquerugiola gelata che forse son gocce strappate al mare vicino. La sentinella non potrebbe parlare, ma parla ugualmente; non potrebbe fumare, ma fuma lo stesso. Non gli metto soggezione come nessun ufficiale può pensare di mettere soggezione ad un anziano. L'anziano è stato sfacciato nelle sua continua infrazione al regolamento che un "Pinguino" non si permetterebbe mai di rimproverargli qualche cosa. In fondo però è rispettoso a modo suo. Lo è perché non farebbe mai una cosa che potrebbe mettere negli impicci un suo superiore. Ed anche lui, il mio anziano, è così; mi offre anzi una sigaretta e per non offenderlo sono costretto ad accettarla. E' una Milit, ma ora che le sigarette sono rare come le donne non dipinte, si fumano volentieri. Si parla. Senza che io gli chieda nulla, mi parla di se, dei suoi bambini, dei suoi innumerevoli mesi di servizio. E mi parla della guerra, modestamente, senza enfasi, senza falsi sentimentalismi, dicendomi che è brutta, che è scomoda, che è pericolosa e che soprattutto è inutile. Ma che pure una volta in ballo, anche i più fifoni e i più riflessivi, fanno il loro bravo dovere. E mi parla del suo Tenente che ha lasciato a Monastero crivellato di schegge. I greci tiravano bene; con i mortai da 81 tiravano sull'uomo come noi con il fucile… si sa difendevano la loro terra… la sua voce diventa sensibilmente più dolce. Il suo Tenente, il miglior ufficiale dell'esercito italiano, senza offendere nessuno… son sempre i migliori a cadere, gli altri si imboscano nei comandi, ma certo anche di questi cìè bisogno, lo comprende anche lui, anche i servizi hanno la loro importanza, certo, ma… certo i migliori vanno dove c'è il pericolo come il suo Tenente. Ha la fotografia, se la tira fuori da un involtino di carte e me la porge e subito arrotola un pacchetto vuoto di sigarette, l'accende sulla brace e mi fa lume. «E' lui» mi dice con lo stesso con cui avrebbe detto "E' mio figlio" Io penso allora allo strano magnifico fascino che doveva avere quel biondo sottotenentino di non più di vent'anni su quel vecchio e ruvido richiamato dalla barbaccia incolta e ribelle che gli sta accanto in posa fiera con la baionetta in mano. «Si chiama S.O., ne ha sentito parlare? E quello lì vicino con quella barba sono io -dice felice - La fotografia la facemmo tre giorni prima che morisse. Lui non la vide mai, ma l'ho mandata a sua madre che mi ha scritto per ringraziarmi dicendo che ci hanno fatto un ingrandimento… ma io non so se nell'ingrandimento ci hanno lasciato anche me» la sua voce è triste. Si china a gettare qualche corteccia che ha strappato con le sue unghie senza pensarci, come se artigliasse un ignoto nemico ed il suo volto arrossato dagli ultimi bagliori della fiamma che muore: mi fa pena e mi sembra tanto famigliare. Allora anche io gli parlo un po' di me, della mia vita, di Maria, del mio paese, dei miei studi, dei miei dubbi… E lui mi ascolta accennando col capo e fissando la brace, forse non ascolta me e pensa al suo Tenente, il miglior ufficiale dell'esercito italiano… senza offendere nessuno… Da sotto il porticato si vede il cielo sgombrarsi pian piano della nuvolaglia che l'opprime. Qua e là appare qualche piccola stellina tremolante. Domani sarà bel tempo. «E' tardi» dico e mi avvio. La sentinella scatta sull'attenti nel buio. Io mi volto al vento che mi schiaffeggia e che gioca frenetico con i fiocchi della mia sciarpa azzurra. Vorrei dire qualcosa alla mia sentinella, qualcosa che sento nel cuore. «Sentinella» «Comandi, signor Tenente» Vorrei dirgli il mio dubbio, ma forse non capirebbe la mia intenzione: «Nulla, nulla… Buonanotte» «Buona notte, signor Tenente» e batte forte i tacchi mentre io mi allontano fra il vento che mi fischia nelle orecchie con un sibilo acuto e lacerante come il fischio delle granate che ancora non ho sentito.
15- SIMONINO IL BRIGANTE BUONO
Per quanto sembri impossibile, anche dalle nostre parti dunque ci fu un brigante che scorazzava per la campagna quasi invisibile e assolutamente inafferrabile. Si chiamava Simone, da piccolo gli dicevano Simonino, perchè non cresceva mai. Rimase sempre basso e rachitico, goffo e striminzito che faceva pena. Da bambino era lo zimbello di tutti, orfano e disgraziato com’era, ma era tanto buono che non si poteva fare a meno di volergli bene. Si rendeva utile in mille maniere.Per una scodella di latte o di minestra lavorava dalla mattina alla sera. Lavori leggeri, si capisce, perchè con quelle braccine che pfjrevQno stecchi non poteva certo portare dei quintali o spaccare i duri ciocchi di quercia, ma in compenso era svs&to e sveglio.Sino a sei anni si occupò di lui il Nonno Pipot un povero vebchio che mendica, vu sui gradini di Santa Lacià e - lì lo aveva trovato, nato da pochi giorni, avviluppato in pochi stracci che certo lo riparavano scarsamente dal gran freddo che faceva, infatti s’era d’inverno e xs c'era uno di quei nevoni famosi. Come fosse rimasto in vita quell’esserino che tirava il fiato con i denti era un mistero per tutti, il Nonno Pipot non poteva certo essere una buona balia per lui, ma si vede che il Cielo non aveva permesso che morisse perchè doveva fare, la sua strada nel mondo. Quando il vecchio mendicante andò in paradiso a raggiungere i Santi e gli angioli, il piccino rimase completamente solo a sei anni e visse come un passerotto, della provvidenza ^divina. Si accorse un giorno di essere già grande senza sapere e senza ricordare come aveva fatto ad arrivarci. Lavorava tutto il giorno di quà e di là senza un padrone fisso ed ogni domenica andava a trovare il nonno che dormiva il suo ultimo sonno sotto una croce di legno a San Bernardino. La sua giornata di festa la passava li a parlottare sotto voce con la misera tomba, sfogando i suoi piccoli crucci e aprendo interamte il suo animo. Quando il cielo diventava buio e si accendevano le stelle, fra Ignazio il custode, lo andava a cercare perchè doveva chiudere il cancello. Il frate si fermava un istante presso la tomba del Nonno Pipot e recitavano insieme una breve preghiera, poi prendeva per nano il fanciullo e lo accompagnava alla porta. Prima di congedalo Fra' Ignazio gli faceva immancabilemente una carezza sulle guancie smunte e gli diceva invariabilmente: «Sii sempre buono, Simonino, e stai sempre lontano dal peccato - ed il bimbo accennava di si con il capo - Sii sempre buono perchè lassù c’è Iddio che vede tutto e che un giorno premiarà i buoni e castigherà i cattivi». Nel dire lassù, Fra‘ Ignazio puntava l’indice al cielo e Simonino alzava il capo in direzione del gesto dalle, mille stelle tremolanti nel firmamento gli piovesse addosso una gran pace ed una grande speranza. A venti anni non lo chiamavano più Simonino, ma Simone. Continuava sempre ad essere piccino ed esile come fanciulletto di dieci e si industriava a tirare avanti come a Dio piaceva. Simone aveva due sogni: uno, di avere un giorno una casetta tutta per lui; 1’altro sogno lo confessata appena a se stesso tanto se ne vergognava, Simone desiderava una moglie, magari non bella, nemmeno brutta però, ma laboriosa e buona, sopratutto buona perchè lui aveva tanto bisogno di bontà. Ma chi poteva sposarsi un Simone? Per quanto ci potessero essere a questo mondo delle creature misere e disgraziate nessuna lo era quanto lui. Eppure ci sperava, ci sognava sopra a lungo. Se l’era costruita nella sua fantasia e nel cuore la sua ragazza, ma più si guardava attorno e meno la vedva. Erano tutte differenti da come le sognava lui, che guardava negli occhi senza curare troppo il resto; e vedeva troppi, occhi sfacciati o melensi o cattivi. Ma un giorno la vide. L'incontrò in chiesa e l’adorò estatico come una Madonnina. Cominciò allora a seguirla, a divorarla con gli occhi, a pensarla notte e giorno. A volte durante il lavoro s'interrompeva e rimaneva a lungo a parlarle teneramente con l’animo sino a che qualche scapaccione non lo richiamava alla realta! Quanto era dura quella realtà! Simone sgobbava, sgobbava senza perdere un solo minuto per farsi il gruzzoletto, ma un giorno 1'assalì un timore? E se prima che io riesca a mettere da parte qualche soldo qualche altro me la porta via? Bisogna che le parli. Che le dica di attendermi… si, si; ma chi glielo dava il coraggio povera anima? E gliela potevano portare via davvero da un momento all'altro quel bocciolino di rosa fresca. Simone si dichiarò alla ragazza. Come lo fece nessuno avrebbe potuto ridirlo, forse nemmeno la ragazza, perchè sin dalle prime parole cominciò a ridere, a ridere che sembrava ci dovesse morire ed aveva persino le lacrime agli occhi.A nche Simone aveva le lacrime agli occhi, ma per un altro motivo. In quel momento passò un giovanotto, uno di quelli dall'aria spaccona, con i baffettini all'insù, con i capelli lucidi di brillantina e lo spadino al fianco. Si trovavano in un viottolo solitario nella campagna e la ragazza era andata lì appunto per aspettare quel giovanotto e Simone che non lo sapeva l'aveva seguita, vedendola sola, per parlarle del suo amore. La ragazza corse incontro a quell'antipatico figurino e sempre ridendo gli disse di difenderla dagli assalti del seduttore Simone. Anche il giovane rise e lì, proprio davanti a: lui, baciò la bella bocca vermiglia della ragazza. Simone chinò la testa avvilito e fece ger andarsene ma i due giudicarono che la burla non era ancora finita. Il giovane lo prese per il colletto e cominciò a scuoterlo brutalmente fingendosi irato: «Ah mi volevi rubare la ragazza. Ah! si» Lo alzava di peso da terra, che poi non era nè una grande fatica nè una eroica impresa. E la ragazza rideva rideva. Ciò era quello che gli faceva male più al cuore del povero disgraziato, anche se lo avessero ammazzato poco gliene sarebbe importato, ma. quel riso… Non disse nulla e se ne andò rassegnato, ma il ricordo di quell’insulto e di quel bacio provocante gli spezzavano il cuore. Cercò di Fra' Ignazio che era ormai decrepito e sordo come un banco, gli raccontò i suoi affanni. «Continua ad essere sempre buono Slmone lassù c'è il Signore che vede tutto e che un giorno premierà i buoni e castigherà i cattivi.» Non sapeva dir altro il vecchio frate e a Simone ciò non bastava più, aveva bisogno di un altro conforto. Aveva venti anni e quelle parole sfioravano appena il dubbio della sua grama esistenta, voleva un altro conforto. Forse un frate più giovane e più colto avrebbe saputo consigliarlo per il bene della sua anima, ma non poteva far quel torto a Fra’ Ignazio, che da tanti anni lo accoglieva tutte le domeniche come un figlio prediletto. Per un attimo gli venne in testa di farsi frate. Doveva essere bella quella vita semplice e quieta tra il lavoro tranquillo e la preghiera fervida, vicino a quei morti che non soffrivano più per la carne in quel grave silenzio del camposanto. Un frate lui? Cosi zotico ed ignorante! Non ne sarebbe stato degno. Un bel giorno sparì. Lo cercarono dappertutto perchè operai pagati come lui e con la sua buona volontà non se ne trovavano da ogni parte. Ma fu tutto inutile. E um bel giorno si seppe la strabiliante notizia: Simone si è dato alla macchia, é diventato un bandito! E tutti ci ridevano. Possibile? Simone brigante? Ah! Era buona davvero, più buona di quella di Simone innammorato. Ma tant’è, Simone rimase alla macchia ed era armato sino ai denti. Non che qualcuno ne avesse paura, ma con l’andare del tempo sul vespro le donnette ed anche gli uomini preferivano allungare il passo perchè tutti ricordavano di aver fatto qualche torto verso quel povero derelitto. Chi non ci pensava ers invece la Lisa, la figlia di Oristiano da Gai£a (nome corretto poi con Margherita), la quale, nelle sue scappate a Torricino, al saper certe cose ci faceva delle matte risate. Ma un bel giorno, che se ne andava ad un appuntamento amoroso se lo trovò faccia a faccia in un viottolo affogato nella macchia, fece un balzo di paura nel vedere un brigante, ma poi lo riconobbe. La Lisa era sfacciata e spavalda e lo provocò anche. Lui non disse nulla e 1e si avvicinò in silenzio. Allora la ragazza cominciò ad aver paura ed urlò, ma nessuno poteva sentirla in quel posto. Simone le aveva piantato gli occhi addosso, due occhi infuocati e minacciosi. Non era più il ridicolo Simone di un anno prima, aveva in se ora uno strano fascino che avvinceva e anche gli occhi dei più intrepidi si dovevano abbassare davanti a questo suo sguardo. La vita selvaggia gli aveva fatto bene. Sinone sempre senza parlare le afferrò le trecce, impugnò il coltellaccio per recidergliele, e mentre la ragazza si riversava a terra svenuta ripensò a Fra' Ignazio (c’è il Signore lassù che vede tutto e che un giorno premierà i buoni e castigherà' i cattivi). La lasciò andare senza farle nulla, e sparì nei boschi. Da quel giorno Simone diventò Simonaccio e le guardie cominciarono a dargli la caccia invano, perchè lui, piccolo com’era, si appiattava in ogni buco e conosceva tutti i rifugi della regione. Ma all’infuori di quell’atto non ne fece altri. Nemmeno le galline rubava. Si accontentava qualche volta li balzare nella strada all’improvviso con il trombone in mano, incutere così un po' di spavento e quindi se ne andava com’era venuto senza torcere un capello a nessuno. A volte spariva per dei mesi interi e non si sapeva dove andasse a finire, poi tornava sempre uguale nell’aspetto e nel vestire. Faceva del bene se poteva, senza, far sapere chi era che lo facesse, ma la mano di Simonaccio era inconfondibile e sul suo cammino invece che maledizioni lo accompagnavano le benedizioni ciò non ostante le guardie lo cercavano perche nessuno può stare fuori della legge anche solo per fare del bene. Finalmente il brigante si preparò a morire. Si cercò un posto tranquillo e bussò alla porta di una casa di campagna dove abitava una povera famiglia di contadini… «Sono Simonaccio - disse - ma non temete, sono venuto qui a morire tra gli uomini» Ma nessuno aveva paura di lui. Chiese un posto nell’angolo più buio della stalla e gli diedero invece un letto, il migliore della casa. Volle morire cristianamente e fu mandato a cercare un prete. Si confessò, ma quali peccati poteva confessare quell’anima innocente? Poi si comunicò, ricevette devotamente l’ultimo sacramento e prima di chiudere gli occhi per sempre volle chiedere perdono a tutti perchè aveva ancora l'illusione di essere stato un terribile e odiato bandito. Povero Simonaccio! Quando spirò pareva che si fosse addormentato tanto fu dolce il trapasso, dolce come era stato il suo piccolo grande cuore. Molta gente si era radunata nella casa a vederlo morire e tutti piangevano perche moriva un'anima eletta. Piangeva persino il guardiacaccia, ed era tutto dire, burbero ed inflessibile com’era. Dalle nostre parti si dice che quando si sfila una stella è un’anima buona che va in paradiso, chissà se nessuno sull'aia delle coloniche vide quella notte in una scia luminosa sfilare! la stella del brigante Simonaccio? Ma era d’agosto, in questo mese tante ne cadono di stelle e come era possibile in mezzo a tutte vedere la sua?
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