Alfredo Zampolini: CONFìTEOR |
Bibliografia Zampolini |
Progetto grafico e impaginazione
Giancarlo Celioni by Seriline s.n.c.
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Questo libro dedico alla memoria di mio padre
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CONFITEOR: "perdizione, speranza e salvezza" è la raccolta di dodici racconti che corrispondono ad esperienze di vita, ma in un contesto profondamente spirituale, che risulta evidenziato da puntuali riferimenti al Vangelo. Se lo scopo dell'autore è stato quello di richiamare l'attenzione sui grandi temi dello spirito che inquietano la nostra società, questo scopo è stato conseguito: alla fine della lettura i per¬sonaggi con i loro pensieri di dolore, di speranza, di gioia risultano ineluttabilmente fissati nelle nostre meditazioni.
PREFAZIONE Confìteor si può definire un percorso didattico di vita cristiana a soluzione di quei problemi che la civiltà di oggi offre agli uomini contemporanei. Un primo impatto con i racconti di Alfredo Zampolini può suscitare smarrimento, ma se poniamo attenzione, al di là delle storie drammatiche narrate, si evidenzia in modo inequivocabile una proposta che apre al lettore orizzonti di vero progresso spirituale. Da una realtà fragile, insicura, sofferta, evasiva, si evince la controproposta esistenziale solutrice dei problemi vissuti. Il non battezzato, Il violinista, Guido, L' Altieri,Il Coltelli, Contini e Frank, altro non sono che esemplificazioni di una profonda convinzione dell'autore: una storia senza Cristo è sempre un dramma. E' da questa constatazione che Zampolini parte per aprire il suo discorso alla speranza. Non la speranza solo umana, ma quella cristiana che conduce alla preghiera, alla risposta alla chamata di Dio e che vanifica le illusioni. Il discorso della trascendenza conclude questo itinerario spirituale. La forma piana, il tono semplice del libro, la scelta di situazioni emblematiche di un vissuto assai comune oggi, offrono al lettore immediate risposte. Don Egidio, nel racconto II sorriso della vecchina, così conclude: " Tu passi le giornate a pregare. E ti par poco? Continua così fino al tuo ultimo giorno e Dio ti darà la ricompensa". Parole che mi risuonano nel cuore come un augurio e mi sembrano ben concludere il messaggio del libro.
Simone Scatizzi, Vescovo
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Prefazione pag. 5
PRIMA PARTE
Il figlio non battezzato pag. 9 Il grande violinista pag. 17 Confiteor pag. 25 Le voci pag. 33 Il traguardo pag. 43 Il presidente pag. 51 I sogni di Frank pag. 59
SECONDA PARTE Il sorriso della vecchina pag. 71 La chiamata pag. 79
TERZA PARTE
Il padrone del campo pag. 105 Un prodigioso avvenimento pag. 121 |
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CONFìTEOR "Chiunque
guarda una donna per desiderarla,
Questa storia mi fu raccontata da un cappellano d'ospedale in prima persona e io gli promisi che l'avrei pubblicata. Così raccontò il cappellano: "Ho l'obbligo di far conoscere una vicenda. L'ho promesso ad un uomo in fin di vita quando ricevetti la sua confessione. Non posso nominarlo quest'uomo per il segreto a cui sono tenuto come sacerdote. Quindi lo indicherò con uno pseudonimo. L'Altieri era, ancora a quarant'anni, un bell'uomo nel pieno del suo vigore quando fu richiamato alle armi per l'entrata in guerra dell'Italia a fianco della Germania. Restò in Sicilia, assegnato ad un reggimento che faceva parte delle truppe di copertura. Lo sbarco avvenne, come è noto, il 10 luglio 1943, nei pressi di Augusta. Il battaglione dell'Altieri, nel piano difensivo voluto dagli alti Comandi, si assestò su alcune colline a sud di Paternò, lasciando agli Alleati tutto il possesso della Piana di Catania. La linea del fronte, dov'era il battaglione dell'Altieri, formava un terreno variamente ondulato che sovrastava il letto di un fiume, vicino al quale passava la strada e la ferrovia. Il nemico sparava bordate di mortaio, gli uomini del battaglione stavano al riparo nelle fosse. Dalle retrovie rispondeva ogni tanto la nostra artiglieria che ben appostata picchiava il nemico con grossi cannoni. Era piena estate e le stoppie del grano seccavano sotto il sole accecante. Nelle ore più calde la paglia prendeva fuoco per autocombustione e una squadra di uomini doveva impegnarsi per spegnere le fiamme con gli scarponi. Un'altra squadra andava ogni mattina a far provvista d'acqua molto lontano e al ritorno qualcuno rimaneva ferito dalle bombe dei mortai. La seconda Compagnia, a cui era in forza l'Altieri, aveva trovato riparo sotto i contorti rami di un mandorleto, dietro un'alta collina. La prima Compagnia invece era più esposta, sistemata com'era su un monticello che faceva da baluardo a tutto lo schieramento.
Avvenne, al quinto giorno, che gli Alleati bombardarono furiosamente
la prima Compagnia uccidendo molti soldati e il capitano. Il
comandante del Battaglione diede incarico alla seconda Compagnia di
mandare alcuni uomini in perlustrazione per accertarsi di quanto era
accaduto e recuperare la rivoltella dell'ufficiale. Il recupero della rivoltella del morto era impresa rischiosa poiché si sapeva che il terreno era scoperto e ormai terra di nessuno, ma attentamente sorvegliato dal nemico. L'Altieri, con invisibile compiacimento, decise subito che al comando della squadra addetta al recupero fosse il sottotenente paesano che chiamerò Sciacca. Per capire la perfidia dell'Altieri debbo raccontare i precedenti rapporti tra i due. Erano vissuti nello stesso paese e studiato poi nelle scuole secondarie di Messina. A trent'anni l'Altieri si era sposato con una donna ricca per dote e gioielli ma poco allettante, mentre lo Sciacca, più giovane di lui, si era perdutamente innamorato di altra donna, che se anche matura negli anni, era considerata la più bella del paese oltre che essere la più seducente. Lo Sciacca l'aveva voluta condurre all'altare nel giro di pochi mesi, pur sapendo che la donna era chiacchierata.E fece male perché la bella donna, molto ambiziosa, non si accontentò delle modeste risorse del marito, ma trovò appagamento nell'Altieri, uomo di fiorenti condizioni economiche. In breve i due divennero amanti. Tutti sapevano in paese che la coppia si ritrovava periodicamente in uno dei migliori alberghi di Messina ma le prove non furono mai trovate. Il marito Sciacca intuì certamente la illecita relazione della donna, ma essendo di carattere riservato, si chiuse nei suoi pensieri, anzi nel suo mutismo, reagendo soltanto con i colleghi d'ufficio con i quali si mostrava spesso nervoso e intrattabile. Scoppiata la guerra, il destino crudele volle che lo Sciacca fosse destinato a prestare servizio di ufficiale di prima nomina nella Compagnia comandata dall'Altieri, richiamato alle armi prima di lui. Lo Sciacca presentò subito domanda di trasferimento per gravi e personali motivi al colonnello ma questi non ebbe tempo a pronunciarsi poiché, una settimana dopo, il Reggimento fu portato al fronte. Ritornando alla perfidia dell'Altieri, devo dire che lo Sciacca di fronte all'ordine dato dal superiore non disse parola. Scelti quattro coraggiosi soldati e un sergente, si mise in marcia per giungere ai piedi della postazione già tenuta dalla prima Compagnia. Raccontò poi il sergente che appena arrivati sul luogo scoppiarono vicino alcune bombe di mortaio che fu come l'avvertimento di non proseguire. Ma l'ufficiale disse che bisognava compiere la missione. Avanzarono ancora strisciando sulle pieghe del terreno, scansando alcuni cadaveri di soldati che mandavano già fetore. Il nemico smise di sparare e questo permise di giungere in breve tempo in cima al poggetto dove trovarono altri uomini morti. Tra questi anche il capitano col corpo bruciacchiato e con uno squarcio nel ventre provocato sicuramente da una sventagliata di mitraglia. Il sottotenente si avvicinò al pover'uomo per prendere la pistola. Questo gesto bastò. Aveva appena fatto un passo, che cadde riverso a terra colpito da una fucilata del nemico.I soldati e il sergente spaventati tornarono indietro. Sbarazzatosi in questo modo del rivale, l'Altieri provò la gioia del vincitore. La donna adesso era tutta sua e insieme avrebbero fatto grandi cose. Innanzi tutto, appena finita la guerra, avrebbe piantato la moglie e con l'amante si sarebbe trasferito a Roma, vivendo nei primi tempi con i proventi delle sue terre. Poi, con la lunga mano di un parente, avrebbe aperto uno studio, continuando a fare l'avvocato. I clienti non sarebbero certamente mancati, grazie sempre all'interessamento del parente che aveva obblighi verso di lui. Così la sua bella donna, riverita e servita, avrebbe fatto la gran signora e lui, introdotto nella ricca borghesia romana, avrebbe condotto vita piacevole e galante. Questo ardito vaniloquio ebbe un contraccolpo da una notizia ricevuta per radio il 25 luglio, dalla quale si apprese la caduta di Mussolini e l'affidamento delle Forze Armate al generale Badoglio. Furono ore di ansia e anche di timore per tutti gli uomini del Battaglione poiché plotoni d'assalto tedeschi combattevano a fianco a fianco con le truppe italiane. Pochi giorni dopo gli Alleati sferrarono un micidiale bombardamento che durò tutta la notte. Era notte di luna piena e tutti i contorni delle valli e delle colline emergevano come sotto un pallido sole. Il cielo, dello stesso colore della terra, sembrava confondersi con essa. Contati i morti e vista l'impossibilità di tenere la posizione, il Comando di Battaglione ordinò la ritirata generale. Soldati e ufficiali alla rinfusa, si buttarono nel vallone che era alle loro spalle per sfuggire ai lanciafiamme nemici. Il tenente Altieri approfittò di questo trambusto per eclissarsi e raggiungere la sua bella. Smessa la divisa, si vestì da bracciante e dopo qualche peripezia arrivò al suo paese. Seppe che la moglie era sfollata in luogo lontano, in casa della madre. Così ebbe via libera per portare l'amante a convivere con lui in un suo possedimento di campagna. Passò giorni di inaspettata e riposante tranquillità, pur sapendo di essere un disertore. Ma la situazione nell'isola era così caotica da far pensare che per parecchio tempo nessuno si sarebbe occupato di lui. Ma la guerra ebbe una svolta quando l'8 settembre fu firmato l'armistizio. La situazione politico- militare in tutta Italia divenne molto pericolosa. Questo fatto invece di impensierirlo lo rallegrava. Chissà quanto sarebbe durata la guerra! Di disertori poi era piena tutta la Sicilia, ci sarebbe voluto tantissimo per processarli tutti. Tanto valeva allora che il nuovo Governo concedesse un'amnistia. Con tanta incredibile leggerezza il tenente Altieri sperava in un provvidenziale colpo di spugna che cancellasse il passato. Intanto cominciarono ad arrivare i vincitori nell'isola. Erano truppe indiane, nepalesi, australiane e polacche in cerca di un provvisorio stanziamento. Un contingente polacco mise le tende nel suo paese. Passò più di un anno e si arrivò al 25 aprile del 1945 con la resa delle truppe tedesche in Italia e poco dopo si giunse alla fine della guerra. Le truppe polacche dovevano essere rimpatriate, ma non si mossero dalla Sicilia, rifiutando di partire per non cadere nelle grinfie del governo comunista di Varsavia. Speravano di essere accolte in qualche Paese libero d'Europa o d'America. I polacchi erano giovani alti e belli e facevano gran figura con la loro divisa. Mentre viveri e altri generi di conforto scarseggiavano tra la popolazione, i polacchi erano forniti di tutto, specialmente dell'ottimo cioccolato che con galanteria offrivano alle signore e signorine che preferivano la loro compagnia. Fu così che la bella di Altieri fece amicizia col tenente Ostrok che la ricolmava di doni. L'amicizia divenne più stretta quanto l'Altieri dovette partire in tutta fretta per Roma chiamato dal Ministero della Difesa a motivo della sua diserzione. L'Altieri stette fuori una ventina di giorni e quando tornò la donna del cuore era già del tenente polacco. Questi la portò all'altare molto presto e avendo trovato asilo in Argentina volò con lei in quella lontana terra. L'Altieri rimase sconvolto, impietrito dagli avvenimenti. Ma dovette tornare a Roma poiché si profilava per lui una condanna. E a Roma rimase sei mesi in carcere. Uscito dalla galera volle dimenticare il passato vendendo tutti i beni che aveva in Sicilia, compreso lo studio, poiché con la condanna non poteva più esercitare la professione di avvocato. A Roma visse per qualche anno consumando il suo patrimonio, frequentando locali malfamati e finendo alcolizzato. Fu raccolto un giorno per strada e portato all'ospedale, ma il fegato era rovinato per sempre e la fine si presentò prossima. Consapevole della sorte e meditando sul suo passato, si accorse di aver sprecato la sua vita. Sinceramente pentito chiamò me, cappellano dell'ospedale, per confessarsi. E nella lunga confessione mi raccontò tutta la sua storia. Mi sembrò così dispiaciuto e così desideroso di essere perdonato, che lo assolsi dalle sue colpe. Egli allora mi manifestò il desiderio di far sapere a tutti le sue brutte vicende affinché la lussuria venga fuggita come il peggiore dei mali"
LA
CHIAMATA
"Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi
avrà
Il signor Carlo era una persona abbastanza agiata che abitava con la moglie e la figlia in un bell'appartamento alla periferia di una città di mare. Figlio di un notaio, aveva seguito corsi regolari al liceo riuscendo bene e ottenendo alla fine un bel diploma di maturità. Con l'aiuto del padre e la sua bella presenza aveva ottenuto subito il posto di direttore del Consorzio agrario. Invaghitosi della più modesta ma anche più carina delle sue impiegate, l'aveva sposata due anni dopo, a condizione, come si poteva pretendere a quel tempo, che la donna lasciasse l'ufficio per occuparsi soltanto della casa e della figliolanza, che lui voleva numerosa. Purtroppo quest'ultimo desiderio andò fallito poiché la moglie, nel dare alla luce la prima figlia Iolanda, ebbe serie complicazioni all'utero che il chirurgo decise di asportare. A parte questo intoppo, la vita del signor Carlo e della famiglia trascorse senza inciampi e poche difficoltà. Entusiasta della figlia che riusciva molto bene negli studi, servito puntualmente dalla moglie, ottima consorte e ottima madre, il signor Carlo, che aveva superato da poco la cinquantina, poteva dire di aver avuto diversi privilegi: una buona situazione economica, un bel posto nella società e il ruolo di rispettato capofamiglia. Ma gli capitò un fatto imprevedibile e scioccante. La figlia Iolanda, da poco maggiorenne, gli comunicò all'improvviso che lo lasciava per seguire la sua vocazione. Era un caldo pomeriggio di settembre col sole che saettava nel cielo raggi ancora infuocati. Il signor Carlo stava nel giardino di casa su una comoda sedia a sdraio in un angolo d'ombra. Giungeva a quell'ora provvidenziale dal mare un'arietta fresca che mitigava i bollori. Verso le quattro, pensando di non disturbarlo, Iolanda, con molta apprensione, si avvicinò al padre e con voce prima tentennante e in seguito più ferma cercò di dirgli che voleva farsi suora. Il padre rimase trasecolato, poi turbato. Si alzò in piedi, interrompendo spesso la figlia con esclamazioni di contrarietà. Alla fine le domandò: "Ma quando vai in convento?" "Spero presto" - rispose timidamente Iolanda. "Quel luogo sarà la tua rovina!" - sentenziò il padre con uno sguardo gelido. Quella risposta ferì Iolanda profondamente. Ma il risentimento del padre era appena incominciato. E ci volle qualche ora prima che giungesse allo sfogo. Tutto il pomeriggio l'uomo lo passò chiuso in salotto a ripensare a ciò che aveva udito, senza potere credere che quelle parole fossero uscite dalla bocca di sua figlia. Quando si ritrovarono a cena, investì Iolanda con toni aspri chiamandola sprovveduta e ingrata, e poi rimproverò anche la moglie che, conoscendo le intenzioni della figlia, gliele aveva nascoste. Quella cena fu terribile per le donne e si concluse prima del tempo col pianto disperato di Iolanda. Due giorni dopo, il signor Carlo era da poco rientrato dall'ufficio, quando il telefono squillò nel suo salotto. Era il suo migliore amico (meglio dire il solo amico) che ignaro di tutto chiamava da Montecurvo, un paese della collina. Questo amico si chiamava Nino.
Nino era stato a scuola con Carlo, al liceo, per tutto il tempo
degli studi. Franco e ottimista, qualche volta anche burlone, si
distingueva da Carlo, rigido e puntiglioso. I due avevano stretto
amicizia in gioventù e l'avevano mantenuta anche in seguito. "Ah, sei tu? Hai fatto bene a chiamarmi... Sapessi! Una cosa incredibile... Ma certo, in famiglia!... Non avrei mai pensato che mi capitasse una cosa simile!... La salute non c'entra, no! E' la testa di mia figlia che non funziona... Proprio così, invece! Sì, sì, va in convento!... Inumana, senza cuore, ecco quella che è!.. Ma certo che è decisa, anzi irremovibile. Io che avevo fatto tanti progetti su di lei!... E sai dove va a finire? Ridi, adesso! Nelle suore di clausura... Non mi far arrabbiare anche tu con la storia della vocazione! Sta a sentire bene. Mia figlia non ha mai accennato di ritirarsi dal mondo, anzi aveva il pensiero di entrare nell'insegnamento universitario. Che succede un mese fa? Va in gita con alcune amiche a Loreto, condotta da quel prete delle novene che si fa chiamare monsignore. Sta lì quattro o cinque giorni e torna a casa apparentemente tranquilla. Passa una settimana e mi spiattella in faccia che vuol farsi monaca, che questa è la sua volontà. Ma cosa prova un padre come me, che ha un'unica figlia sulla quale ha fatto tanti bei progetti?... Cosa vuol dire che è maggiorenne? E' sempre mia figlia, l'unica che ho! Se si sposasse e mettesse al mondo dei figli, se facesse la sua carriera, nulla da dire. Sai che fa il terzo anno di Lettere, ebbene è tanto brava e stimata, che le daranno sicuramente la cattedra, a suo tempo. Vedi, per questa cattedra, se non le bastasse il merito, metterò io a segno un bel colpo... Hai indovinato, quel politico di Bologna, che per me si è dichiarato disposto a fare tutto!... Ricorda che alla Camera ce l'ho mandato io, facendo pressione sul mio partito... Certo, e col pensiero che un giorno mi sistemasse la figlia. Lo sai che io non sono laureato, per un solo esame, quello di latino, l'ultimo, che mi andò male e che non volli più ripetere davanti a quel professore tanto ignorante e presuntuoso... Un errore lo riconosco, ma insomma, andò così. Beh, ho pensato sempre di potermi rifare di quello sbaglio facendo prendere la laurea a mia figlia. Ed ecco, porco d'un boia, che Iolanda mi butta all'aria tutto per farsi suora reclusa...Ma no, subito! C'è già pronto il convento che l'aspetta. Guarda, per me non è più mia figlia... No, no, vada con quelle, stia con loro, con le Agostiniane, preghi con loro, faccia tutto quello che vuole con quelle lì!... Ti pare che esageri? Ma tu hai due maschi, bravi ragazzi, sistemati, non puoi capirmi!... No, no, la ferita è troppo profonda! Non si lascia improvvisamente la famiglia per rinchiudersi in convento... Dice che vuol diventare la sposa del Signore. E va bene, ma i genitori? Quelli che l'hanno istruita ed educata per tanti anni, dove li mette? In soffitta li mette! E allora? Via, via non c'è più gratitudine, fai il bene e ricevi un mattone in testa!... Sì, si, ti sto a sentire, ma lo sai che facendosi suora non ha più nessun obbligo verso i genitori, nemmeno in caso di bisogno? E ti pare cosa da poco?... Di' pure ciò che vuoi, caro Nino, ma questa è la più grande delusione della mia vita... La madre? Anche lei è rimasta male, ma si rassegna. Dice che se la strada di Iolanda è questa, non possiamo farci niente. Così rimango solo a oppormi a questa pazzia!... Vedrai se ho ragione io, non durerà e si pentirà. Sarò io a trionfare alla fine e quel monsignore piangerà!... Chi vuoi che l'abbia spinta a questo passo? Proprio lui, non si sbaglia, quell'attacca -gonne! Mi risulta che ne ha imbambolate altre di ragazze. Cosa può essere successo in quei quattro giorni a Loreto, io non lo so, ma mia figlia, a quel che sento e vedo, è un'altra!... Tu la vuoi difendere, ma non merita niente, proprio niente...Sì, sì, cercherò di trattenermi, ma è tremendamente difficile... Ti terrò al corrente, non dubitare. Adesso ti saluto, stammi bene!" Vennero tempi duri per Iolanda. La madre taceva, il padre stava sempre irrigidito. Iolanda soffriva. Della madre tuttavia sapeva che non provava risentimento verso di lei, ma il padre, che pur nella sua naturale austerità l'aveva nel passato trattata bene e spesso anche compresa, ebbene quel padre adesso non era più lui, ma un uomo freddo e ostile. I giorni passavano uguali e sconcertanti per la ragazza ma finalmente un giorno di novembre arrivò il momento. Accompagnata dalla madre, partì in taxi di buon mattino per rinchiudersi nel convento delle Agostiniane di Bellincio. Il padre non volle saperne. Mai e poi mai avrebbe sopportato di condurre sua figlia nel chiostro. Di quelle suore di Bellincio aveva detto un giorno alla moglie che nemmeno pensava che esistessero. Tra la città del signor Carlo e Bellincio correvano circa quaranta chilometri di strada camionabile (che allora si diceva maestra), per diversi tratti vicino al mare. A quell'ora del mattino la strada era frequentata da poche macchine, così che il taxi frusciava tra case ed orti, costeggiava campi ancora freschi d'erba, e qualche spianata che forse serviva da Campetto da gioco. Dalla parte opposta il mare appariva verde-scuro e increspato e la spiagga deserta. Le due donne tacevano. La madre, poco avvezza a uscire di casa, guardava incuriosita ciò che vedeva intorno ma nella mente di Iolanda passavano tanti pensieri. Entrava nel convento desiderosa di rimanervi per tutta la vita. Sapeva che sarebbero state numerose e dure le prove da superare, ma entrava in comunità per amore di Cristo che le si era rivelato dopo aver letto le Confessioni di Sant'Agostino. Ma il cuore era dolorante a causa del padre che si era dimostrato molto urtato per la sua scelta. Il cambiamento di suo padre nei suoi confronti era stato sconvolgente. Ricordava un padre severo ma buono. L'aveva seguita nella preparazione alla Comunione e alla Cresima, l'aveva aiutata nello studio. E non poteva essere contrario ai buoni sentimenti se fino a vent'anni l'aveva condotta ogni domenica in chiesa, alla Messa delle undici. E adesso questo padre era tanto adirato con lei, perchè aveva offerto la vita al Signore. Come era possibile? Ricordava però le parole del padre nei riguardi della sua futura professione. Fin dagli anni delle scuole superiori, vedendola riuscire molto bene negli studi, aveva ripetuto più volte che l'attendeva l'insegnamento universitario, che quello per lei era la carriera giusta. Doveva essere stata una forte delusione per lui la scelta del convento che buttava all'aria le sue ambizioni. Poteva essere anche il distacco così improvviso a rendere il padre tanto irascibile. Lei, figlia unica, era stata la coccola della famiglia. Da parte sua le sembrava di aver ricambiato, rimanendo affezionata e vicina ai genitori fin la maggiore età. La mamma era stata comprensiva, non se l'era presa tanto. Provava dispiacere anche lei per la sua decisione, bastava guardarla in viso. Tuttavia non mostrava e non aveva risentimenti. Quell'idea di lasciare il mondo l'aveva fatta conoscere al padre all'ultimo momento. Ciò le dispiaceva. Ma quell'idea, venuta due anni fa, non era stata sicura in tutto quel tempo. All'inizio la temeva e sperava che scomparisse. Infatti in certi periodi si indeboliva e sembrava svanire nel nulla, ma poi tornava più vigorosa di prima. Si era confidata, dopo lungo pensare, col suo parroco che stimava molto. Don Costanzo, dopo averla ascoltata più volte, le assicurò che quel volere era suggerito da Dio. Ma decidere conforme a quel volere le restava ancora difficile. Aveva pensato di fare visita al Santuario di Loreto unendosi ad alcune amiche. Sicuramente la Madonna l'avrebbe aiutata. La Madonna nera, fasciata da un manto di perle, stava sopra l'altare, nella casetta di Nazareth. In quel rustico abitacolo, formato da mattoni consumati e croste annerite dal fumo, pendevano dalle pareti grossi anelli di ferro che sostenevano lucerne fioche, come nelle vecchie chiese di campagna. Lei si pose in ginocchio ai piedi della statua di Maria, preziosa e mirabile. E ogni giorno, pregava per dieci minuti, quant'era consentito a ogni visitatore di rimanere nella casetta. Purtroppo non accadeva nulla. Ma l'ultima volta, quando ormai stava per rialzarsi, sentì dentro di sè una volontà e una gioia grande. Rimase in quello stato per alcuni giorni e lo giudicò un sicuro segno di incoraggiamento verso il grande passo. Della sua intenzione, che si tramutò presto in decisione, parlò a casa con la mamma che, pur dispiaciuta, riuscì a comprenderla, e in quel caldo pomeriggio di settembre col padre. Non si aspettava una reazione così brusca da parte di lui. Quei no! no! violenti che sembravano dettati da uno spirito maligno. A quei terribili dinieghi aveva opposto nella mente le parole del Cristo : "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me!" Ed era venuta via da casa col cuore lacerato ma con la certezza di non sbagliare.
La fermata del taxi davanti ad un bel portone dal portale bugnato,
riportò Iolanda alla realtà del momento. Scese insieme alla madre e
la suora portinaia le condusse in parlatorio . Il parlatorio era in
un andito scuro, sulla parete di fondo. Su questa parete Iolanda
sorpresa vide una "ruota" di legno che girava su se stessa
lentamente. Quando si fermò udì una voce provenire da dietro
quell'arnese. "Sei Iolanda? Io sono madre Clara e ti do la
benvenuta". La ragazza disse che era lei. Dopo essersi scambiate
alcune frasi di cortesia la superiora l'avvertì che doveva
rispondere ad alcune domande di prammatica: "Iolanda, vuoi entrare
nella famiglia della Agostiniane?" Poco dopo la porticina laterale si aprì e la superiora accolse le due donne abbracciandole. Passando sotto le logge di un chiostro dove c'erano tanti crisantemi, le condusse nella grande sala dove le sorelle stavano lavorando. La sala era ariosa e al centro mostrava un bel tavolo lucido con un gran vaso di ceramica. Le sorelle erano sedute tutt'intorno alle pareti con l'ago o l'uncinetto in mano… Ad un invito della superiora che annunciò la nuova venuta, si alzarono ad una ad una e corsero ad abbracciarla. Iolanda si sentì commossa.
"Qui" disse la superiora "lavoriamo tutte nel cucito, nel ricamo e
nell'uncinetto. E' un lavoro piacevole, vedrai!". "Sorella" disse la superiora quando furono davanti ad una porticina "questa è la tua cella. Troverai sul letto il vestito da novizia. Indossalo e attendi la campanella. Tutta la nostra vita è regolata dal suono di questa campana che segna l'ora del lavoro, del riposo, della preghiera e della penitenza." La superiora si rivolse alla madre della ragazza dicendole che per lei era venuto il momento del distacco. Madre e figlia furono lasciate sole. Le due donne si dissero poche parole di commiato e si distaccarono con un bacio. Prima che la madre si allontanasse molto commossa, Iolanda le si rivolse accorata: "Ti raccomando il babbo!". La novizia restò sola nella cella e diede uno sguardo intorno. Da una parte c'era un bianco lettino e un armadietto, dall'altra un inginocchiatoio con un vasetto di fiori e sul muro una lampadina. Più in alto un bel Crocifisso in legno chiaro con a fianco una scritta a grandi lettere: Veni, Creator Spiritus. "Eccomi, Signore, dove hai voluto!" - disse Iolanda rivolta al Cristo. E provò dentro di sè una grande gioia. Si affacciò alla finestra che dava su una lunga distesa di tetti rosseggianti sotto un cielo chiaro. Ripensò in quel momento a casa sua, alla sua stanza dove aveva vissuto per ventun'anni. E rivide per un attimo la scrivania e i due scaffali di libri. Dove sarebbero finiti quei libri? Ma le si presentò la figura massiccia del padre che quand'era piccola l'aiutava a fare i compiti e quella un po' patita della madre che la portava a letto tutte le sere soffiandole nell'orecchio la buona notte. Commossa da quei ricordi, si lasciò cadere nell'inginocchiatoio e cominciò a pregare. La campanella suonò e Iolanda rinfrancata attese. Venne una sorella per accompagnarla in chiesa. Pochi minuti prima la ragazza aveva deciso, dopo i voti, di farsi chiamare suor Maria. Per un anno intero prestò servizio nel convento di Bellincio, dopodiché fu mandata alla Casa provinciale, in una città della Romagna. Fu chiamata dalla Madre per istruire le sorelle che non avevano studiato. Passavano in quella Casa sia le suore anziane che possedevano quasi sempre la sola licenza elementare che le giovani che avevano molto spesso interrotto gli studi secondari. Iolanda si fermò in quel posto due anni. Si trovava bene nel suo lavoro e l'amore verso Dio si consolidava. Intanto il giorno in cui avrebbe preso i voti e indossato l'abito si faceva sempre più vicino. E lei pensava a quel momento con grande attesa. Ma nel cuore rimaneva una spina. Il padre, dal giorno del distacco, non l'aveva più degnata, non rispondendo nemmeno alle sue telefonate. Questo suo ostinato silenzio l'addolorava profondamente e qualche volta la faceva piangere. Si rianimava e si consolava nella preghiera e quando cantava insieme alle sorelle, alle quali però non aveva confidato la sua pena. Le peggiori ore della giornata erano quelle della sera, quando si ritirava nella sua stanza. Si diceva: "Mio padre mi tiene lontana dalla sua vita e dal suo cuore. E' una croce molto pesante per me. Se non mi aiuti tu. Signore, come potrò servirti nel modo che ti ho promesso?" Arrivò quel tanto atteso giorno dei voti e Iolanda indossò l'abito scuro, col velo, e capì che il disegno di Dio stava avverandosi. Quel giorno nulla turbò la sua letizia. Ora l'aspettava il vero tirocinio e dopo sei anni avrebbe abbracciato la professione perpetua, con la rinuncia a tutti i beni e la promessa di povertà, castità e obbedienza.
Ma due giorni dopo provò una stretta al cuore quando le comunicarono
di andare a prestare servizio a Monte curvo. Montecurvo era vicino a
casa sua e la ferita si riapriva. Tuttavia, dopo il primo momento,
Iolanda cominciò a pensare e a sperare che la breve distanza potesse
spingere il padre a rompere quel suo gelido e ostinato silenzio e
forse un giorno suonare alla sua porta. Passarono alcuni mesi ma il comportamento del padre rimaneva lo stesso. La madre riferiva che il padre era sempre irritato con lei e non chiedeva mai sue notizie e al telefono si comportava sempre allo stesso modo. Quando, alzando il ricevitore, capiva che era sua figlia a chiamare, passava il ricevitore, senza dire una parola. Trascorsero alcuni mesi. Vista l'irremovibilità dell'uomo, il signor Nino che abitando a Montecurvo si recava ogni tanto con la moglie al convento per rincuorare Iolanda, pensò ad uno stratagemma per attirare l'amico Carlo a Montecurvo, con la speranza che una volta giunto, si commovesse per la presenza in quel luogo dell'unica figlia. Sapendo che Carlo aveva l'hobby del restauro dei dipinti, provò ad invitarlo un giorno a casa sua in occasione dell'apertura di una mostra di quadri antichi rimessi a nuovo da noti specialisti. E l'amico salì a Montecurvo per vedere la mostra. E dopo aver ammirato insieme lo stupendo lavoro dei restauri, il signor Nino tentò la carta vincente. In quel paese l'aria è buona e il panorama che si apre sulla sottostante campagna e sui monti lontani è molto attraente. Così Nino invitò Carlo a fare un bel giro sulle vecchie mura. E lentamente, parlando dell'una e dell'altra cosa. Nino riuscì a condurre l'amico sulla strada alberata che sale al convento. L'amico doveva pur sapere che quel fabbricato antico, con i grandi finestroni in alto e sotto i quali fra poco sarebbero passati, era la dimora della figlia! E allora, non avrebbe alzato gli occhi a quei finestroni? Non avrebbe tradito una qualche emozione? Il signor Nino (per mezzo del quale ho conosciuto questa storia) mi assicurò che per tutta la strada l'amico Carlo restò imperturbabile. Anzi, ad un certo punto, cominciò a parlare dei suoi viaggi fatti da piccolo col padre. E non la finiva più di raccontare. Era evidente che cercava di non dare occasione all'amico di parlargli di sua figlia reclusa. Imperdonabile orgoglio! Il signor Nino capì che per quel giorno non restava che rassegnarsi. Ma negli anni seguenti cercò di sfruttare quelle scarse occasioni che si presentarono per favorire in qualunque modo l'incontro tra padre e figlia. Non riuscì nel suo intento per l'irremovibile caparbietà del signor Carlo.
Passarono così inutilmente sei anni che tuttavia permisero a Iolanda
di avvicinarsi al momento della promessa di professione perpetua. Il signor Carlo, che nel frattempo era andato in pensione, restò solo. Fu un brutto colpo per lui, poiché la solitudine è peggiore di una malattia. Cercò di reagire frequentando di più gli amici del bar, distraendosi col gioco delle bocce dove ricopriva il ruolo di raffatore. Ma quando la sera o la notte rientrava a casa sua e la trovava silenziosa e vuota, il morale gli andava in pezzi e qualche volta gli pareva di impazzire. In quei momenti il pensiero di sua figlia anziché turbarlo gli metteva il desiderio di lei, della sua voce, del suo viso, del suo modo di camminare.
E allora guardava il telefono appoggiato sul tavolo. Perché non
suonava quel telefono? perché Iolanda non si faceva sentire? Passò un anno intero che vide l'uomo vivere tra gli amici e conoscenti con la stessa risolutezza e caparbietà di prima, ma di notte, solo col suo destino, provare sensazioni dolorose di vuoto e di paura. Passarono altri terribili sei mesi, in cui il desiderio di abbracciare sua figlia divenne sempre più forte ma l'orgoglio impediva ancora all'uomo di cedere.
Finalmente, in un giorno di turbine e di pioggia, si recò a
Montecurvo per bussare a quella porta.
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