Alfredo Zampolini: FAI Co' |
Copertina: Emilio Furlani, Paesaggio Urbinate
1984 |
dedica autografa
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AL TEMPO DEI LUPINI di Umberto Piersanti Zampolini si affaccia al suo mondo con uno sguardo attento, preciso, analitico: ricorda gli oggetti, i sapori, le parole. La dimensione della memoria domina nei suoi racconti: ma non è l'indistinto, l'alo nato al quale ci ha abituato la grande tradizione della narrativa novecentesca. Tutto è così vero e così spiegato, così puntigliosamente messo a fuoco. In questo l'autore è legato alla tradizione montefeltresca dell'incisione, talora sembra addirittura un miniaturista o un orafo sapiente. Il collegamento alle cosiddette arti minori, il gusto artigiano, l'amore pieno per i «piccoli mondi» sono i segni che caratterizzano e identificano il nostro autore. Il mondo dei suoi ricordi si compone di due aree contigue sia sul piano geografico che emotivo, Urbino e la campagna, i poderi e i vicoli, ma spesso anche percorse da un 'atavica quanto consuetudinaria conflittualità. Il passato domina incontrastato: l'autore intento alla sua puntuale e precisa trascrizione, non ha tempo nè voglia di confrontarlo e coniugarlo con il presente. Ci sono le nostre terre disegnate a tratti rapidi, con le macchie e le piantate: belle, d'una bellezza mai scenografica, e, nello stesso tempo, dure, ingrate, che producono uva dagli acini piccoli e patate stentate, sempre insidiate dai sorci. Dall'altra parte gli interni coi sapori di soffritto, i discorsi presso Vaiola del camino, il rosario del sabato sera. I discorsi sono quelli che ho sempre sentito nelle case dei contadini: le bestie, il fieno, i lupini, ecc., dettati da un mondo dove la lotta per la sopravvivenza domina su ogni altro desiderio o pulsione. I personaggi sono dei «tipi», incarnano tipologie precise: basti pensare a Menghin, celibe inquieto, che crepa all'improvviso dopo aver sempre lavorato e borbottato; o alla Manetta con la sua avarizia, il rosario, la superstiziosa paura della civetta. Ma, nello stesso tempo, sono caratterizzati in modo preciso, persone concrete e irripetibili. Parole o calchi dialettali punteggiano il racconto, lo accendono di sapori e rimandi, costituiscono il tracciato amoroso che percorre la rievocazione; appartengono agli esterni, come il «fai co!» lanciato alle vacche, la treggia, il melotto, la tritta oppure agli interni di cucina come il battuto, i ciccoli, la terrina. Tra la casa e i campi sta la loggia, con le sue ombre che non cessano, gli spini attorno, i discorsi e i riposi degli uomini. Poi vengono i momenti corali, la battitura, il taglio della seccia: e il bere e il mangiare in abbondanza, la carne e il vino, segno concreto e totale della festa. E c'è anche la campagna che entra, i giorni della vendemmia, dentro la città coi suoi carri, l'uva, lo sterco delle vacche: i due mondi che si guardano spesso in cagnesco come fanno notabili e commercianti con i contadini; infine i ragazzi che fregano l'uva. Vicolo di S. Chiara, ci sono stato da bambino e l'ho visto, con le cassette e i carri per settimane intere. Non c'è in Zampolini volontà di protesta, anzi quasi nostalgia di un mondo sentito, almeno ora, come il più autentico: senza però nasconderne crudezza e stenti. E non ci sono vicende, racconti, trame: ciò che conta è rievocare situazioni ed atmosfere, anzi inciderle, tratteggiarle; una volta passati sogni e ricordi sono la stessa cosa e bastano questi ultimi a riempire la fantasia.
Umberto Piersanti |
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LA VESTIZIONE DELLA NONNA
In una stanza interna della casa, dormiva la nonna. Aveva settanta anni, un viso pallido, due occhi celesti, la carnagione bianca. Le guance erano scavate, la pelle non più sottile ma il viso aveva tratti fini, eleganti. Ai suoi tempi doveva essere stata una bella donna. Ora aveva la sua croce, una gamba piagata, che la costringeva a camminare col bastone. Viveva con noi. Mio padre le aveva concesso una stanza, con una finestra che dava sul cortile. Quasi tutto il pomeriggio la nonna lo trascorreva a riassettare in camera sua ma verso sera veniva in cucina a sedersi su un enorme seggiolone. Poggiava i piedi su un panchetto di legno e la schiena su un cuscino. Vi rimaneva per ore a leggere e pregare, si alzava soltanto quando era il momento di cena. Quando era freddo, si faceva mettere la brace nello scaldino e ci passava le mani sopra; all'occorrenza metteva lo scaldino sotto il panchetto che aveva delle fessure per scaldarsi anche i piedi. Mangiava un pane tondo, a forma di focaccia, un pane bianco che tagliava a fette sottili e masticava adagio. Quel pane era l'unico cibo diverso dal nostro e la nonna ci teneva a pagarlo coi suoi soldi, anche se ne aveva pochi. Era di origine povera la nonna, da ragazza era stata guardarobiera in una casa signorile. Poi aveva sposato il nonno muratore. Il nonno si era costruito una casa, ma era morto qualche anno addietro. La nonna la casa l'aveva affittata. L'affitto, quindici lire al mese, era il suo unico reddito. Ci comperava gli unguenti e le fasce per la gamba, le caramelle d'orzo e lo sciroppo per la tosse, le pasticche del Re Sole e quel pane bianco che affettava con cura, badando che non si sbriciolasse. Quel pane costavo caro e ogni due giorni ce ne voleva una pagnotta. Nelle giornate d'inverno, la nonna stava a letto fino a tardi e per ripararsi meglio dal freddo, indossava una mantellina di lana. Al mattino della domenica io ero sempre pronto per aiutarla ad alzarsi. Mi chiamava verso le undici. La vestizione della nonna avveniva come un cerimoniale di chiesa. La nonna si metteva seduta sul letto, si toglieva la mantellina e la lunga camicia da notte, rimanendo con la sola maglia a maniche lunghe che aderiva al corpo e poneva in evidenza la sua magrezza. Il viso era bianco del colore del marmo e sembrava scolpito, i capelli erano lisci, divisi nel mezzo da una scriminatura. Le mettevo davanti la bacinella con l'acqua e l'asciugamano. La nonna si puliva bene le mani e poi passava delicatamente le dita bagnate sugli occhi, sulla fronte, sulle guance, sul collo. I vestiti erano stesi in bell'ordine ai piedi del letto e sulla seggiola. Le passavo la camicia da giorno, che aveva ricami sul collo e sul petto e poi le mutande di cotonina con lo spacco ai fianchi, che terminavano con un pizzo. La camicia era lunga, arrivava fino al ginocchio. La nonna la infilava e dopo sollevava le coperte per tirarsi su i mutandoni e diceva: — Adesso passami il busto. Il busto aveva le stecche sul davanti per sorreggere il torace, (la nonna diceva che teneva su lo stomaco) e dietro era legato con le fettucce che si incrociavano su due file di occhielli. La nonna lo fermava davanti coi gancetti. Le consegnavo allora la sottana crespata e lei la fermava in un fianco con l'uncinello e poi la faceva scendere pari pari fino alle caviglie. Adesso la nonna, in piedi, mi faceva un cenno per dire che voleva la gonna. La gonna era grigia, con belle pieghe e si fermava ai fianchi. La nonna la accomodava con cura badando che buttasse bene e che facesse rigonfiamento. Poi indossava il corpetto, dello stesso colore della gonna, un corpetto liscio e attillato, che terminava con un colletto alto e che dava slancio a tutta la sua figura. La nonna terminava il suo lavoro allacciando tutti i bottoncini del corpetto sul davanti. A questo punto si esaminava tutta, dalla testa ai piedi, e soddisfatta mi diceva: - Mettimi le calze. Si poggiava sul letto ed io le mettevo quelle sue calze di lana grossa, corte e ruvide, e le infilavo ai piedi le pantofole. Lei si alzava diritta. Era bella la nonna, fasciata dall'abito antico. Aveva una bellezza elegante, ed io la guardavo compiaciuto. Appoggiata al mio braccio, poteva muovere i primi passi verso la toletta. La toletta era un mobiletto di legno tenuto sopra un tavolino. Aveva uno specchio a quadro inclinabile e un cas- settino per i pettini. La nonna ci passava a dir poco mezz'ora. Lisciava a lungo i capelli, prima da una parte e poi dall'altra, con gesti uguali, lenti e molli. Dopo li rovesciava dietro, li appallottava con le dita, formava una crocchia che fissava alla nuca con le forcelle. Si guardava ancora nello specchio, dava un altro tocco e diceva: - Adesso andiamo di là. Afferrava il bastone, si appoggiava al mio braccio. Facevamo insieme il nostro ingresso in cucina. L'acqua rumoreggiava nella pentola. Suonava mezzogiorno. La nonna prendeva il libro delle preghiere. Appoggiata al seggiolone, sotto il quadretto della Madonna, mia nonna a voce alta incominciava: «Angelus Domini nunziavit Mariae et concepit de Spiritu Sancto»…
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