Alfredo  Zampolini:   L'ultimo cielo di Federico

(Morte del duca Federico nel ferrarese il 10 Settembre 1482)

 

PUBBLICATO NEL 1986 NE "i QUATTRE VENT"  Vol.. 5  del 1986

 

Questo racconto rispetta la realtà storica dei luoghi, dei personaggi, dei principali avvenimenti della guerra di Ferrara, quando il duca Federico da Montefeltro, a capo di una Lega di quattro stati, combatteva contro la Repubblica di Venezia e il Papato

(Rif. Bibl.:Walter Tomassoli: Federico da Montefeltro, Argalia Editore, Urbino 1978).

 

Federico si svegliò dopo un breve sonno tutto sudato, la febbre l'aveva avuta tutta la mattina con forti brividi; ora finalmente riposava ma si sentiva molto debole e stanco. Si guardò intorno. Era solo nella grande tenda dove la viva luce dell'esterno entrando formava curiosi chiaroscuri.

E gli tornò in mente quel pensiero che da qualche giorno lo  sgomentava: di lasciare il comando delle operazioni militari per riparare a Urbino, nella sua città. L'impresa l'aveva giudicata subito incredibile e pazzesca. Come avrebbe potuto lui, il grande condottiero, che aveva decisamente respinto ogni invito dei suoi più nobili amici di lasciare il combattimento per riparare in una corte fidata e vicina, come avrebbe potuto adesso lasciare il campo e fuggire a casa sua?

Era la malizia del diavolo quel pensiero, un incantesimo del demonio che lo sapeva devoto delle Cinque Piaghe! Però di un fatto era certo: non sarebbe morto lì, nella bassa pianura di Ferrara, in quell'estate stagnante e afosa, sotto un cielo reso opaco dalla grande quantità di vapore! In quella stagione Urbino svettava in un cielo senza nube, di un luminoso azzurro. Quei colli ricoperti di boscaglie, tagliati dalla terra arata di fresco, con i lunghi filari delle viti e dei gelsi; quel cielo limpido che avvolgeva i campanili e le torri per specchiarsi sui tetti delle case; quell'aria fresca che il   mare portava di lontano e che giungeva puntuale verso le tre del pomeriggio a sollevare il respiro, erano immagini che non si potevano dimenticare. In quelle poche volte che si trovava a casa, proprio a quell'ora, in quella stagione, era solito lasciare il suo appartamento esposto al sole, per recarsi nel salone del palazzo. Si sedeva vicino ad una delle grandi finestre che i servi lasciavano aperta, per leggere. Da lì entrava quell'arietta che saliva dai tetti degradanti delle case, dai vicoli già in ombra, dai cortili e dagli orti. Era un'aria che rinfrescava tutto l'ambiente e che passando tra le pieghe del vestito gli carezzava la pelle.

Quella febbre noiosa e intermittente che durava da più di un mese non l'aveva davvero risparmiato e con quest'ultimo attacco sembrava aver vinto ogni sua resistenza. Solo quel pensiero di casa rimaneva vigoroso e lucido e lo faceva fantasticare indicandogli anche le tappe del lungo cammino, le soste, le precauzioni da prendere. Poteva mettersi in viaggio con il fido segretario Comandino, scortato da uno squadrone di balestrieri a cavallo. Partendo prima dell'alba e andando veloce, per arrivare a Bologna non ci voleva poi tanto; al piccolo trotto, con qualche fermata per riposarsi, a sera inoltrata arrivava a San Leo. A San Leo, roccaforte del suo ducato, passava poi la notte. Da qui a Urbino, tenuto pur conto dei ripidi sentieri, ci volevano meno di tre ore. Dunque, al mattino del giorno dopo poteva giungere a casa. Se la febbre fosse tornata, come avveniva puntualmente ogni due giorni, e se in ogni caso non si fosse sentito di riprendere il viaggio a cavallo da San Leo, avrebbe dato ordine ai suoi di portarlo in lettiga fino a Urbino.

Il primo attacco di febbre e gli altri che erano seguiti a distanza di settimane e poi di giorni erano stati scrupolosamente tenuti segreti dal Comandino nel timore che la notizia arrivasse in campo nemico. Ma Ficarolo era caduta lo stesso nelle mani dei veneziani il 29 giugno. La caduta di Ficarolo, fortezza della Lega, era stato un duro colpo. Presa Ficarolo, i veneziani erano giunti alle porte di Ferrara. Lui, signore del Montefeltro, capo indiscusso dei soldati e capitani della Lega, stava lì per difendere Ferrara. Ci sarebbe riuscito? Ma la guerra non l'aveva voluta, c'era andato per tenere fede ai patti, per frenare le ambizioni del Papa e di Venezia. Non aveva colpa se la situazione si era presentata subito difficile e adesso si era ulteriormente complicata a causa della febbre. Una febbre implacabile, che prima di colpire anche lui, aveva diradato le fila della sua Compagnia e mieteva vittime ancora.

Il Comandino diceva che dipendeva dalla qualità dell'aria, resa soffocante dai vapori della palude, ma il medico mandato dall'Estense rispondeva che era causata dall'acqua del Po, gialla e puzzolente. Il fiume era in gran magra, gli argini venivano allo scoperto formando muri di sabbia, la poca acqua stagnava in mezzo a formare grosse pozzanghere.

Da due mesi aveva visto morire molti uomini d'arme, capitani coraggiosi, giovani soldati e veterani. Erano morti dopo una settimana o due di febbre altissima, nello spasimo dell'agonia. Ma il male non risparmiava nemmeno il nemico. Già alcune notizie erano filtrate attraverso le linee che anche i veneziani avevano i loro morti. La conferma venne un giorno quando fu trovato il corpo di un soldato nemico in decomposizione. Il corpo, buttato dal lento fluire della corrente sul dosso del fiume, era stato scoperto dove teneva il campo il signore di Montevecchio. Era stato subito arpionato, cosparso di pece e bruciato. Ma l'impressione tra gli uomini era stata grande. Invece di provare sollievo pensando alla mala sorte che colpiva anche il nemico, gli animi si erano incupiti vedendo che il contagio dilagava.

Uno squillo di tromba si udì da lontano e poco dopo altri ne seguirono. Quegli squilli volevano dire che la siesta nel campo era finita e che i capitani chiamavano gli uomini alle esercitazioni. Un po' per il gran caldo ma specialmente a causa delle febbri persistenti, gli scontri col nemico che stava al di là del fiume, non avvenivano più. Ma i capitani del duca volevano che gli uomini non si infiacchissero e ogni pomeriggio li adunavano in una grande radura per affrontarsi in finte battaglie. Federico capì che dovevano essere circa le cinque del pomeriggio. Osservò che quel giorno, 31 agosto del 1482, era stato uno dei più caldi di quella tribolata estate. Il sole fin dal mattino aveva bruciata la pianura, gli alberi e le tende e ancora adesso scottava.

Fra poco sarebbe tornato Comandino a offrirgli acqua fresca filtrata tra due panni, per togliere il pericolo, come diceva il medico. Gli si sarebbe avvicinato premuroso, gli avrebbe toccato la fronte e dopo aver chiesto licenza messo la mano sotto l'ascella per annusare il sudore. E sarebbe uscito con la solita sentenza che occorreva cambiare aria. Quanti glielo avevano detto! Per primi i grandi capitani: l'Orsini, il Farnese, il Baglioni e l'Oddi, consigliandolo di riparare a Bologna dove non c'era pericolo. A Bologna, dicevano, avrebbe ricevuto notizie giornaliere dal fronte, tramite corriere; all'occorrenza avrebbe impartito le opportune disposizioni. Aveva risposto fermamente di no. Rimaneva al suo posto perchè era molta la responsabilità che aveva nella guerra e troppo alta la stima che di lui avevano i potenti signori della Lega.

Inviti a lasciare il campo erano venuti anche da Ferrara, dallo stesso duca Ercole d'Este. La città, diceva il duca, era al riparo dalle malsane arie, abbondava d'acqua e di valenti medici. Gli metteva il palazzo e la sua corte a disposizione. Lo pregava di badare a se stesso, la sua vita era indispensabile per le buone sorti della guerra. Anche questa volta aveva risposto di no, e poteva ben dire di aver fatto bene. Se infatti avesse acconsentito, si sarebbe trovato ora nel giardino del duca a godersi il fresco, ma la caduta di Ficarolo l'avrebbe ricoperto di vergogna.

Inviti ancor pù pressanti erano venuti da Federico Gonzaga, marchese di Mantova. Egli si rammaricava di non poterlo ospitare nel suo palazzo a causa della lontananza, ma se la guerra tra Venezia e la Lega si fossa spostata in Lombardia, egli era pronto a riceverlo in casa come un fratello. Intanto, che si togliesse di lì, da quelle cattive arie e riparasse sulle colline dell'Appennino, presso amici fidati. Al quale, Federico, aveva risposto che ringraziava per la premura ma dopo la caduta di Ficarolo stesse attento il marchese a fortificare Ostiglia.

Ma l'invito che aveva più gradito e che l'aveva commosso era venuto da Urbino. Ottaviano Ubaldini, suo caro nipote, scriveva tenerissime parole di compassione e di augurio. E continuava dicendo di riconoscergli, come sempre, grande forza d'animo e grande senso di responsabilità, ma la sua vita era preziosa per il ducato, del quale era sostentamento e guida. Si curasse dunque per sè, per il figlioletto Guidobaldo e per i sudditi e riparasse da qualche parte, abbandonando i luoghi di guerra. A questo invito l'Ubaldini aveva unito una letterina di Guidubaldo. Il figlio gli scriveva con grafia ancora stentata per l'età ma con sentimento traboccante, gli diceva di ricordarlo ogni giorno, al mattino e alla sera, nelle sue preghiere perchè Gesù dal cielo lo tenesse sotto la sua amorosa protezione.

Antonio gli comparve davanti con la corazza e l'elmo sotto il braccio, pronto a recarsi alle esercitazioni. Era entrato senza che lui se ne accorgesse e ora gli stava di fronte, piantato sui cosciali, in tutta la sua alta figura. Era bello Antonio, con la testa ricciuta e la barbetta bionda, lo fissava con i suoi lucenti occhi celesti.

-Signor padre!

A lui quel figlio piaceva per il parlare franco e conciso, per quelle sue parole che andavano sempre a segno. Antonio non gli aveva chiesto come stava, se la febbre era tornata, se poteva ancora reggere il comando, domande che gli altri gli rivolgevano per obbligo o per devozione al condottiero. Antonio aveva soltanto pronunciato il suo nome, ma in quello aveva messo tanta premura.

Doveva riconoscere che di tutti i suoi figli, questo gli era il più vicino. Coraggioso e audace, pronto a lanciarsi nella mischia quando c'era bisogno, Antonio aveva un cuore grande e generoso. Una volta per sottrarre un soldato ferito a una pattuglia nemica aveva rischiato di essere fatto prigioniero e un'altra volta durante un saccheggio aveva difeso a oltranza due giovinette dalle brame di alcuni soldati ubriachi. L'aveva preso con sè al compimento dei sedici anni, l'aveva formato e temprato nelle sue imprese in luoghi diversi, contro nemici terribili. Adesso, a trentadue anni, Antonio comandava venti "lance", un giorno non lontano avrebbe potuto prendere il suo posto.

-Signor padre- riprese Antonio senza esitazione - per la vostra vita in pericolo dovete lasciare il comando e riparare altrove!

Federico fuggì lo sguardo del figlio e rimase esitante.

-Subito, signor padre!- incalzò Antonio.

Il duca girò il discorso, volle sapere quali erano le novità nel campo dopo le disposizioni impartite contro le intenzioni dei veneziani di attraversare il fiume, visto il livello molto basso delle acque. Antonio riferì che se il nemico avesse tentato una simile avventura avrebbe avuto una pronta risposta. Almeno 200 arcieri erano stati dislocati in diversi punti del fiume, dove era facile il guado; nascosti dai cespugli e dal fogliame stavano in guardia.

Federico lodò allora l'accortezza di messer Brancaleoni della Rocca, capitano dello squadrone ed ebbe parole di elogio anche per i soldati che provenivano da Urbino, Casteldurante, S. Angelo e Sassocorvaro. Essi avevano dimostrato completa dedizione alla causa dei Montefeltro. Spesso quei soldati con le loro frecce avevano deciso di una battaglia. Aggiunse di aver comandato agli artiglieri di avvicinare le bombarde al fiume per spezzare sul nascere ogni tentativo di infiltrazione nemica. Poi chiese notizia sui colpiti dalle febbri e Antonio riferì che erano parecchi.

-Il cielo ci protegga!- disse rivolto al figlio.

-Ma voi, signor padre, perchè non avete preso nessuna precauzione?

Federico ammise di non aver pensato all'estendersi del male. In precedenti campagne si erano verificate febbri violente, ma rimanevano casi isolati e subito un acquazzone si era potato via il malanno. La causa di tutto doveva essere, come sempre, la siccità che questa volta aveva asciugato il fiume e resa l'acqua nera. E lui purtroppo quell'acqua del fiume, anche se filtrata, l'aveva bevuta per l'abitudine di servirsi soltanto di acqua durante i pasti.

-Io mangio frutta e bevo vino!- disse orgoglioso Antonio.

-Deve essere il modo migliore per sfuggire alle febbri !- concluse il duca.

Per un momento tacquero. Si udiva lontano il passo rumoroso dei soldati che si avviavano ai luoghi di adunata. Alcuni cavalli passarono di trotto davanti la tenda e subito si udirono gli ordini secchi dei capisquadra. Il trombettiere suonò per la seconda volta.

-Devo andare- disse Antonio. E continuò: - Signor padre, per il bene vostro e della famiglia ritiratevi in qualche luogo e lasciate il comando all'Orsini.

- Il mio posto è qui!- rispose Federico alzandosi e con tono fermo.

Antonio se ne andò richiudendo la tenda.

Rimasto solo il duca ripensò a quel perentorio invito del figlio. Dunque anche Antonio, così coraggioso, si metteva dalla parte dei prudenti capitani e dei nobili principi, senza capire che l'unico rimedio contro il male, per Federico da Montefeltro, era di farsi animo, cacciando via i brutti pensieri.

Scostò la tenda e uscì al sole. L'aria era ferma e scottava, ma in fondo al campo le foglie dei pioppi tremolavano. Guardò da quella parte. Sulla sinistra i cavalieri avevano incominciato i finti combattimenti, e già risuonavano le grida di incitamento e i colpi metallici delle lame; sulla destra vide i balestrieri scoccare le frecce contro i bersagli. Dall'altra parte del campo, nascosti in parte dalle tende e dal terreno che scendeva, i soldati stavano provando i percorsi di guerra. No, non avrebbe mai lasciato i suoi uomini! Se era destino sarebbe morto con loro! Alzò lo sguardo e fissò il cielo che si era liberato dalle foschie e mostrava l'azzurro. Raramente era così quel cielo. Gli ricordò ancora una volta il suo: un cielo senza veli, di un colore intenso.

Arrivò di corsa Comandino agitando una grossa borraccia.

-Signor duca, ecco l'acqua che vi farà guarire!

Si accostò al pallido signore e continuò: "Viene dal monastero dei Cappuccini di Rovigo e ha guarito tutti quelli che l'hanno bevuta. Guarirà anche voi! Il monastero è in terra nemica ma un vostro soldato, Fausto di Schieti, ha attraversato le linee ed è riuscito a prenderla".

Federico si commosse pensando al soldato e ai tanti pericoli corsi per portargli una borraccia d'acqua, ma più ancora si compiacque della fedeltà e della semplicità del suo segretario.

-Questo lo darai a Fausto- disse Federico aprendo la borsa e prendendo un ducato.

-Signore- rispose Comandino - Fausto vi è devoto, non vuole compensi!

-Ho sempre riconosciuto il coraggio dei miei soldati! - rispose solenne il duca.

-Bevete un sorso di quest'acqua!- pregò il segretario.

Federico bevve, il volto di Comandino si rischiarò.

Il duca vide venire verso la sua tenda, dalla sinistra, un drappello di soldati a cavallo. Antonio era alla testa di quel drappello affiancato dal conte Oliva di Piandimeleto. I cavalieri, fasciati da belle uniformi, e preceduti dagli stendardi delle due casate, avanzavano di passo verso di lui. Giunti a una trentina di metri dalla tenda si fermarono. Antonio mise piede a terra e si avvicinò al padre.

-Signor padre, questi uomini sono pronti a farvi da scorta fino a Ferrara!

Federico si sentì ribollire.

-Chi vi ha dato questo incarico?

-Accettate l'invito dell'eccellentissimo duca Ercole e riparate in quella città!

-Non ho intenzione di lasciare il campo!- ribattè duramente il duca.

-Ritiratevi, per il vostro bene e per quello dei vostri soldati! - disse ad alta voce Antonio.

Il duca non rispose. Si avvicinò ai soldati che stavano in due file dietro il conte Oliva. Stavano eretti sulla sella, in attesa di ordini. Erano giovani dal corpo agile e dal volto fiero. Erano soldati scelti, pronti a sacrificare la vita per lui. Si rivide a diciott'anni, come uno di loro, quando militava al soldo di Filippo Maria Visconti. Sentì allora la collera svanire. Guardò quegli uomini e il volto impassibile del conte Oliva.

-Vi ringrazio - disse calmo - non ho bisogno di voi!

Il conte salutò, poi girò il cavallo. Gli uomini in silenzio gli andarono dietro. Antonio fu l'ultimo a salire in sella. Fulminò suo padre con lo sguardo e partì al galoppo.

Passarono altri due giorni. Federico ebbe un altro attacco di febbre.

...(ai primi) de settembre (egli) ordina di essere portato a Bologna per andare a Urbino et, essendo in via agravato del male, se fece riportare indietro a Ferara, a lo quale opresso la febre, sopragiunto el fluxo, in pochi giorni morì...

Così scrive l'Anonimo Veronese, contemporaneo del duca, nella sua "Cronica" sulla morte di Federico da Montefeltro. Era il 10 settembre 148

 

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