Alfredo Zampolini: L'uovo del gallo |
Bibliografia Zampolini |
Redazione: Mario Cottini Francesco Piergiovanni |
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Il dialetto e il folclore del territorio di Urbino non sono stati oggetto intenso di studio e di ricerca. Si può' dire che solo di recente, con Na mulicca de dialett a cura della Luminati, col Vocabolario dialettale del contado urbinate dell'Aurati (e successive mie aggiunte), con le diverse pubblicazioni di Tiberi, in primo luogo II sillabario di Badò, ed ora con questa raccolta dello Zampolini (di cui non va dimenticata la rivista I quattre veni), ci si è incamminati verso una ricognizione sempre più documentata. Sarà forse la lunga presenza dell'Università che ha privilegiato le attenzioni degli studiosi verso ricerche meno localistiche, ed in ogni caso più' letterarie. Del resto l'istituzione della cattedra di Storia delle tradizioni popolari risale alla fine degli Anni Sessanta. Tutti i settori della vita urbinate sono da lungo tempo (ma soprattutto negli ultimi cinquant'anni) fortemente influenzati dall'Università, e cioè dalle centinaia e migliaia di professori e studenti che circolano per le aule, le vie, e il territorio portando con sé una lingua e una concezione della vita che non possono non aver modificato le usanze, una volta comuni all'entroterra pesarese. Si veda l'italianizzazione del dialetto che è molto più accentuata di quella di altre città e di altri paesi della nostra provincia; valga il caso della /a/ libera accentata nei verbi, con l'infinito in /è/, e le restanti forme in /à/ con il modello italiano: fè 'fare', fam 'facciamo', fat 'fate', fàven 'facevano', dè 'dare', dam 'diamo', cantè 'cantare', cantava 'cantava', en fè el brav! 'non fare il bravo, il gradasso, il pieno di te stesso !'. Non si tratta solo degli infiniti di prima coniugazione, ma anche delle seconde persone sing. indie, presente di fè, stè, dè 'fare, stare, dare', e di ave 'avere': l'he fati 'l'hai fatto?', cu fè? 'cosa fai?' (ma: csa fai? 'cosa fai?'): e cioè /à/ può diventare /è/ solo quando è l'ultimo suono di parola. Detto in termini storici (o diacronici): del passaggio /à/ libera in /è/, comune alla parte centro-settentrionale di questa provincia, Urbino oggi conserva solo la /è/ degli infiniti (e poco più). Altri influssi dell'italiano sul dialetto cittadino li abbiamo ad esempio in du ugna 'due unghie', stòmmach 'stomaco', lingua, schiena, gòmit 'gomito', mentre la campagna presenta dò ògna, stòmche, lèngua, schina, gòmte, forme molto più vecchie e più simili ai dialetti metaurensi e pesaresi.
La ricerca dello Zampolini, che poi ha arricchito tanti
proverbi, modi di dire e usanze con frasi e contesti narrativi,
giunge ad allargare la conoscenza di questo immenso patrimonio
urbinate di tradizione orale affrontandolo, si potrebbe dire per
la prima volta, dal lato della città, che è poi il luogo
privilegiato dell'innovazione e dove la tradizione più
facilmente che in ogni altro luogo viene colpita al cuore.
Perché, infatti, tutte le raccolte precedenti si basano in gran
parte sulle testimonianze tratte dalle frazioni e dalle campagne
di Urbino. Dei ragazzi liberi e sporchi in tempi estivi si diceva che fossero di colore nér zinz {con le /z/ equivalenti a /s/ sonore) 'nero intenso'. In altre località della provincia nér zinzè il colore corvino dei capelli delle donne more. L'oscurità che precede l'alba era dipinta come scur limb 'scuro o nero pesto' : forse limb è l'oscurità senza orizzonti con cui si immagina il Limbo di chi da vivo non è stato battezzato, mentre zinz si dovrà collegare alla pianta aromatica zénzero che possiede anche una varietà detta zénzero nero.
Di un uomo 'trasandato, con capigliatura arruffata' si dice che è
uno zavardon (anche qui /z/ è /s/ sonora): l'italiano inzafarda- re
e l'abruzzese nzavardà significano 'impiastricciare, imbrodolare,
insudiciare d'untume': il suffisso germanico - ardo in
italiano ha quasi sempre una connotazione peggiorativa.
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% Prefazione Chi ha le mani arrossate dal freddo, con chiazze bianche ha i ras ma le man 'ha gli uccelli nelle mani'. Solo nell'urbinate e in paesi poco più al settentrione, si usa ras 'razzo' per 'uccello' ed è una bella testimonianza di razza al maschile, come si trova nell'italiano antico razzo collegato dal Contini al francese haraz 'allevamento di cavalli, deposito di stalloni': il passaggio semantico mi sembra evidente (v. razza in Cortelazzo-Zolli). Nell'espressione gì a garavèl 'andare alle vigne altrui a raccogliere i grappolini d'uva rimasti casualmente sui tralci dopo la vendemmia' (così come in altre località del Metauro dove significa 'spigolare' col beneplacito del contadino o del padrone del terreno) possiamo individuare un derivato di garbello 'setaccio, crivello' (v. DEI garbello, dall'arabo volgare garbai 'setaccio'; ma il REW richiama anche le forme lat. CRIBELLUM e *GARBELLUM 'crivello'). In fin dei conti si tratta di dare un'ultima setacciata dopo la mietitura e la vendemmia! Altro modo di dire interessante è se metteva in c 'rigina, detto di chi 'in primavera indossava vestiti leggeri', che fa il pari con le testimonianze metaurensi gì in scirisciòla 'andare scamiciato'. L'etimologia da cerasa 'ciliegia' proposta dallo Zampolini sembra corretta: il DEI riporta l'aquilano cerasaro col significato di 'mese di giugno', e segnala poi il marchigiano meridionale ncerescià, l'irpino ceresale e il rumeno ciresar tutti quanti col significato di 'il mese delle ciliegie', il mese quindi in cui si va vestiti leggeri. Ma non conviene proseguire oltre, anche se le occasioni di riflessione linguistica suggerite dallo Zampolini sono tante. Mi è piaciuto il modo di dire laute ben eh 'en te va via el Batésimì 'lavati bene...', detto ai bambini che non amano lavarsi, e che non avevo mai sentito; così vale per tante altre attestazioni. Il lavoro è ben fatto, con materiale raccolto di prima mano, e non mancherà di piacere agli urbinati e a tutti gli studiosi del folclore. Sanzio Balducci |
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Si è detto che la gran massa di gente contadina e paesana viveva, nel passato, in mezzo agli stenti. Crediamo di poter aggiungere che questa situazione di miseria sia giunta fino agli anni '50 di questo secolo, ossia fino al secondo dopoguerra. Con gli anni '60 incomincia lo spopolamento della campagna e il problema del sostentamento passa dai campi alle fabbriche. Dunque nel passato la gente, obbligata a dimorare e a vivere lontano dai grandi centri, se la passava male. Ma tra i tanti c'erano alcuni fortunati. Quando a uno le cose si erano messe proprio bene e nessuna mai gli andava storta, la gente, con un pizzico di invidia, diceva che ma quell 'i fa l'òv anca el gall. Si sa che questo fatto è impossibile, che il gallo non fa l'uovo, ma qui è stato coniato un modo di dire con un preciso riferimento a cosa concreta, il pollaio, e significa che a quella persona tutto va magnificamente. Negli anni tra il '30 e '40 poteva avvenire che qualcuno del paese, fedele al partito fascista, allora dominante, riuscisse a mettersi bene trasferendosi in città per un incarico al Comune. Cosa dire di uno che lascia sul posto gli altri poveretti per sistemarsi a casa del padrone? È git tla greppia. E infatti la greppia, che è la mangiatoia degli animali domestici, voleva indicare pancia piena e forse illeciti guadagni. Nel paese si trovava sempre qualcuno che possedeva casa e terreno e per questo viveva meglio degli altri. Questo vivere meglio la gente lo vedeva soprattutto nella mangiata. Costui andava a tavola tre volte al giorno ordinando cibi sostanziosi che la serva gli preparava e gli serviva. Vale dunque il dire che questo è un che quand ha magnat ha bsògn de beva. E il vino generoso non gli mancava in cantina, un sangiovese che faceva schioccare la bocca.
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