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DON AMATO CINI

FERMIGNANO 1919 - Urbino 1987

 

 

 

Nota del webmaster

Questa raccolta di poesie comprende una selezione dalla precedenti cinque raccolte pubblicate in precedenza, come è palese dalle voci dell'INDICE sotto riportato. 

Quelle ripubblicate senza modifiche non hanno nell'Indice alcuna nota in rosso.

 Le modifiche possono essere di varia consistenza: il solo titolo, gli a capo nei versi, da poche a molte parole; si è cercato di interpretare queste modifiche con i termini:" poco modificata", "modificata" e "molto modificata".

Infine figurano 9 poesie inedite, ma scritte e destinate per essere pubblicate nella precedente raccolta,  il libro d'arte "Un difficile Dio" con quattro incisione di Walter Piacesi, dove non trovarono spazio per motivi editoriali.

 

PRESENTAZIONE

di GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI
 

Vent’anni di poesia sono lunghi, ancora, poi, in un tempo, quale è l’attuale, in cui le idee di poesia e i modi di farla e le funzioni che le sono affidate tanto spesso sono anche radicalmente mutate, fra gli ultimi echi realisti e populisti, la neoavanguardia, lo sperimentalismo, il rifiuto da parte del sessantotto, le più recenti restaurazioni della parola « innamorata » (più o meno rivendicata alla propria autonomia). Ma ciò che colpisce immediatamente nel libro di Amato Cini è la continuità rigorosa del discorso, che attraversa tante esperienze, tanti tentativi, tante proposte opposte o, comunque, in concorrenza, senza subirne per nulla i contraccolpi, fedele alla sua linea ferma di meditazione e di confessione esistenziale, compiuta al cospetto di un Dio difficile, con il quale il colloquio sembra molto spesso ridotto al grido di pena, solitudine, dolore. Si dovrà, però, subito dire che proprio il fondo disperatamente (non consolatoriamente né innografìcamente) religioso della poesia di Amato Cini ne stabilisce la durata e la coerenza lungo gli anni. Voglio dire che l’idea di poesia che l’intero lavoro di Amato Cini esplica è sempre uguale nel tempo, proprio perché nasce da una esigenza e da problemi che non mutano per mutare di mode o di sperimentazioni o di eventi: ed è la decisione di rivelare, all’unico interlocutore per il quale ciò possa avere un senso, la condizione esistenziale dell’uomo gettato in un mondo di pietra e di deserto, con un’anima rotta, frantumata, divisa, ferita a fondo, e con troppo rari barbagli di speranza che tutto il dolore e le difficoltà della vita abbiano, alla fine, un non precario e non vano significato.

Il mondo di fuori è petroso, notturno, percorso da venti brucianti. È, cioè, un luogo di esilio, dal quale non può venire conforto, ma nel quale neppure è possibile dire parole di luce e di gioia, e il discorso, se mai viene, pur tanto a fatica, pronunciato, è quello di una totale disperazione della realtà e della storia, che soltanto in un’ipotesi vertiginosamente lontana e improbabile può gettare una immagine di speranza, che non è nelle cose, ma al di là delle cose, non nei poteri dell’anima, ma al di fuori di essa, nel Dio remotissimo, che è presente ma più come ansia, trepidazione, sospensione dell’anima, timore e tremore interiori, che come nome effettivamente rivelato.

Il fatto è che una poesia fondamentalmente religiosa, come è quella di Amato Cini, appare, all’esterno, del tutto aliena da ogni forma di innografia ovvero di invocazione. La presenza religiosa vi si dispone, infatti, come un hasard che è sempre un poco al di là della parola, che la presuppone o, meglio, finisce a rinviare a essa le ragioni stesse della propria presenza sulla pagina, della propria disposizione come poesia.

È, quella di Cini, una poesia presso che, infatti, priva di oggetti, tutta tenuta sul registro delle passioni e delle tensioni dell’anima, che, se mai, intorno a sé ritrova non cose ma segni, allegorie, da tenacemente interrogare e rendere utili al chiarimento della storia interiore. È una poesia fitta di parole come balenanti da una cupa notte, che è dell’anima e del mondo. Nella dura e aspra terra dell’esilio, non è possibile il canto (se non in sogno: ed è quello di un usignolo perduto per sempre nelle realtà, ma salvato nella trepidazione dell’anima). Di qui deriva un discorso poetico che non ha, intorno a sé, aria aperta, spazio, luce, ma si dissecca continuamente, a ogni battuta, nella sua nuda e strenua fermezza di denuncia e di confessione della « landa di sassi » che « si abbatte sul sangue » e nel supremo dubbio « se tutto fosse un mio sogno, / un gioco crudele / a fingere erbe ed abissi ». La nudità della dizione, che è pure indefinitamente allusiva alla miriade dei sensi che, in un’ottica d’anima, hanno le parole come correlativi sensibili della difficile e dolorosa avventura dell’uomo, gettato sulle rocce e fra la sabbia del luogo d’esilio che è il mondo, e dove non si possono cantare i canti di Sion, ma, al massimo, dire di sé, dell’angoscia, delle pene, delle fatiche di esistere e di resistere, perché, forse c’è una meta di liberazione al fondo, non ha, quindi, nulla a che vedere con i modi ermetici, e fa pensare piuttosto a Tuan de la Cruz e ai grandi mistici della notte dell’anima e dell’esilio della vita terrena. « Che volete da me? / Io non posso promettervi pace. / Sono un albero strano / che ad altro vento stormisce. / Non posso promettervi pace / se di ferite brucio / quasi di lebbra, / se mi sono ammalato / pel gaudio di potere guarire »: ecco il centro di questa poesia, che è quella di chi ha deciso di dire tutta l’angoscia dell’anima proprio perché il passaggio, attraverso la « malattia » del dolore, del dubbio, dell’oscurità interiore, la « lebbra », cioè, dell’inquietudine, dell’ansia, del silenzio mortale dell’anima, è necessario onde arrivare alla guarigione, e soltanto chi lo compie fino in fondo può immaginare la gioia della guarigione miracolosa di Dio.

Il vento che suscita le parole della poesia di Amato Cini è « altro »: è, appunto, quello che viene da altri spazi, da cieli lontani, e ne stormiscono le frondi del salice che si identifica con il poeta stesso, nel suo luogo di esilio. Non è poesia di pace, non di consolazione: ma piuttosto è poesia di rivelazione e, soprattutto, è quella di un supremo itinerarium in Deum, che non può avvenire che passando attraverso la petrosità e il deserto che è non soltanto il mondo, ma l’anima stessa, nella sua condizione perpetua, mai pacificata, di tormento, di divisione, di malattia, di dolore, di dubbio. Poesia e approdo all’uscita de Aegypto, in ultima analisi, si identificano. Il fare poesia, questa poesia, è, per Amato Cini, la stessa cosa che percorrere le vie della pena e dell’orrore, descrivendole fino in fondo, perché soltanto così, dopo, potrà esserci salvezza. Poesia e viaggio verso il riscatto in Dio finiscono, allora, con il comporsi in uno stesso atto: e la poesia appare, allora, come una metapoesia, un’operazione che tende ad altro ed è ben altro dal comune esercizio espressivo o estetico.

 

GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI

 

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QUESTE CADENZE

La poesia nella precedente raccolta "Le rive del tempo" era senza titolo
con la dedica:
 "In memoria di mio padre e di mia madre"

Queste cadenze,
melico Alcmane,
non hanno imitato
il canto delle tue pernici.
Le ho raccolte alle rive del tempo
tra pietre spaccate
e cori di foglie secche
turbinanti nell’aria.
Hanno dei cieli sconvolti
l’ansito freddo,
paure di passi sordi
ed echi smarriti.
Tragico senso
delle cose le invade.
Parole difficili,
compiti aspri
per albe lontane,
queste cadenze.
 

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IRRIPETIBILE UOMO

Non m'importano lontananze
di stelle e il loro mistero.
Sono a me stesso illimite altezza,
abissale vertigine.

Affondo in un fiume ignoto,
ricerco l'enigma,
l'irresistibile forza
che mi sospinse,
irripetibile uomo,
nel tempo.
(Il vento
non porterà un altro a me simile).
E così tra le stelle invano aggredite,
non sono che gaudio e tremore
della mia indicibile origine.
 


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Il grappolo

(idem "Sigillo" in "Un difficile DIO")
 

Tu non sei l’immota onnipotenza,

sei la storia e la ferita aperta.

E sei anche la pioggia estiva

spesso tardiva

sull’erba riarsa,

il grappolo

che uno uomo distratto non colse,

ch’io intravidi

(la speranza era muta)

occhieggiare tra pampini rossi.

 

 

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SIGILLO

(inedita)

 

Non mi appartengono queste cadenze.

Vi dissi che le avevo raccolte

nel vento tra pietre spaccate.

Non cercate, dunque, il mio volto

né al vento domandate il suo nome

perché ne ha molti, ed è uno solo.

Chi è sapiente lo ascolta

e ne impara il difficile canto.

 


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INDICE

N.B. Cliccare sulle voci sottolineate

In rosso note e fra virgolette,
il titolo nella precedente pubblicazione
 

Presentazione

pag.

5

Le rive del tempo

Queste cadenze
   ("In memoria di mio padre e di mia madre", modificata)

 

10

Giorni di pietra
    ("L'urlo delle metropoli")

 

11

Radici assetate

 

12

Tutto parve tremare
    
(modificata)

 

13

Vento
    
(modificata)

 

14

Anche per me un calice

 

15

Sorda conchiglia

 

16

Dai vortici ansanti
   
(modificata)

 

17

Angoscia necessaria
    (modificata)

 

18

Fantasia invernale
   
("Ora hanno rifugio", modificata)

 

19

Ho raccolto la mia vita
     (modificata)

 

20

Come gioco di nubi

 

21

Altare cosciente

 

22

Non è giorno ancora

Lividi scogli
    (modificata)

 

25

Lapidi antiche

 

26

Accidia
   
("Franare di cose")

 

27

La pianta di Giuda
   
("Non è giorno ancora", modificata)

 

28

Come arena
 
("Lamento nella notte oscura", modificata)

 

29

Afa estiva

 

30

Le bisce al sole
  
("Sequenza delle ore incerte - IV", modificata)

 

31

Forse una danza di cervi
    ("Tu brucerai sangue e parole", modificata)

 

32

Vento e rocce

Sul greto

 

35

Che volete da me?
   
(molto modificata)

 

36

Ansia e stupore
   
(modificata)

 

38

Notte deserta 
   
("Febbre del vuoto", modificata)

 

39

Paesaggio del dopoguerra
    ("Desolazione", modificata)

 

40

Nel cerchio  (modificata)
    ("Il cerchio e lo specchio")

 

41

Per un brano di cielo
    (molto modificata; "Sabbie e ritmi")

 

42

Sono un fanciullo

 

43

Lamento di tortora
   
(molto modificata)

 

44

Pagina bianca
   
(modificata)

 

45

L’impossibile sogno
   
(molto modificata)

 

46

Sacra corona di giorni
   
(modificata)

 

47

Orto pensile
  
 (poco modificata)

 

48

Stelle da stelle
    ("Mihil novum")

 

49

Amore che sanguini
   
 (molto modificata

 

50

Di roccia in roccia 
    
(poco modificata)

 

53


Cadenze del tempo penultimo

Giudizio sulle nazioni
    (molto modificata, estratta da "La veglia del mandorlo IV")

 

57

Luna maligna 
   
(estratta fedelmente da "Sentieri di Satana II", presente anche in "Un difficile Dio"))

 

59

Ghiaie e vischio
   
(molto modificata estratta da "Sentieri di Satana VI")

 

60

Sentieri sepolti
    (molto modificata estratta da "La veglia del mandorlo V")

 

61

Scarse colombe
    (estratta quasi fedelmente da "La veglia del mandorlo VI", presente anche in Un difficile Dio")

 

62

Città morta 
    (estratta fedelmente da "Canto delle dodici lune XI")

 

63

Alla morte
   
(molto modificata estratta da "Sentieri di Satana X")

 

64

Invocazione 
   
(modificata estratta da "La veglia del mandorlo VIII")

 

66

Tra il tempo e l’eterno
   
(molto modificata estratta da "La veglia del mandorlo IX")

 

67

Dicembre: pienezza del tempo 

    (estratta fedelmente da "Il canto delle dodici lune XII")

 

69


Un difficile Dio

Niente di nuovo

 

73

A Te che parli dietro la nube
     
(inedita)

 

74

Notturno 

 

75

Sassi 

    (poco modificata)

 

76

Come albero solo

 

77

Ci rapirà fra poco il vento

 

78

Già pende la sera
   
(inedita)

 

79

Cerchio di ambigui silenzi

 

80

Assenza

 

81

Agonia

 

82

L’ape in fondo alla bottiglia
   
(inedita)

 

83

Adolescenza
   
(inedita)

 

84

Sosta

 

86

Al di là dell'abisso
    
(poco modificata)

 

87

Al vento del dubbio
  
(inedita)

 

88

Fino a quando?

 

89

Adesso

 

90

Le ginestre
   
(inedita)

 

91

Agli uomini del mio tempo

 

92

Sei un difficile Dio

 

94

La notizia dei fiori
   
(inedita)

 

95

Irripetibile uomo

 

96

Il grappolo
  (idem "Sigillo" in "Un difficile Dio")

 

97

Exodus
   
(inedita)

 

98

Sigillo 
   
(inedita)

 

100

 

Che volete da me?
(molto modificata)

Che volete da me?
 Io non posso promettervi pace.
 Sono un albero strano
 che ad altro vento stormisce.
 Non posso promettervi pace
 se di ferite brucio
 quasi di lebbra,
 se mi sono ammalato
 pel gaudio di potere guarire.
 Come potrete, dunque, cantare
 la mia canzone
 di volontario lebbroso?
 Sappiate che io fui generato
 come uomo di lite e contesa.
 Volevo portare una musica nuova
 ma nessuno, neppure nel tempio,
 ha iniziato la danza, nessuno
 ha levato un lamento sui morti.
 Per questo ho respinto
 la vostra deplorevole pace,
 uomo d’amore che genera lite.
 Quando potrete cantare
 la mia canzone d’esilio,
 dire la lode del plenilunio deserto?
 Sappiate che non v’è canto più vasto
 di questo silenzio
 per me che ho sofferto la pena
 di tutte le cose.
 Che volete, dunque, da me?
 Vivo un mistero
 di oscuro splendore,
 ritmo parole non mie
 perché le ho imparate dal vento.
 Come le potrete ascoltare
 se resiste il fragore
 dei timpani vostri,
 se innalzate torri d’orgoglio,
 se devastate i paesi?
 Eppure basterebbe uno solo
 a iniziare
 una grande danza sui monti.
 

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LA Pianta di Giuda
("Non è giorno ancora", modificata)


Le campane, mio Dio,
hanno invaso la notte
del tuo risveglio,
tutti gli incensi, la notte,
sono stati bruciati,
tutte le pietre
diventarono fuoco,
hanno fumato tutte
le coppe di Sangue.
Ma dietro le soglie dell'alba
il gallo di Pietro ha cantato
un lugubre memore canto.
Dietro le soglie dell'alba
è cresciuta la pianta di Giuda.
Non mi dite, dunque, ch'è giorno.
Non siamo ancora
grani d'incenso,
fiumi di angeli,

coppe di sangue.

Non mi dite ch'è giorno.
I pipistrelli sbattono ai muri,

lo
sciacallo fiuta la preda.
Non può essere giorno.
 

 

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COME ARENA 

("Lamento della notte oscura", modificata)

 

Che mai è questa, mio Dio,

incomposta pena del cuore?

Ché solo ora mi giunge

da folte boscaglie

fiatare di gufi.

Vedi che incerto m'aggiro

tra aridi fusti di olivi,

muti ruotano i cieli

sul capo stordito,

e Tu non rispondi.

Fuoco non arde nè luna

ai miei occhi feriti

da freddo splendore di vetri,

Insorge una terra cupa di vento,

e non sono che arena.

 

 

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SCARSE COLOMBE

Scarse colombe
volarono per brevi stagioni,
rifulsero arcobaleni subito spenti
sul pane conteso,
sulla carne dei giusti
consegnata agli immondi.

È forse questa, mio Dio,
la furia dell'orrido verme,
o Tu stesso, fulvo, a sterminio
cavalchi non visto pel cielo
sopra le torri orgogliose?

Rispondimi,
perché sono stanco,
urtato dall’alto e dal mare,
d’urlare
a questi paesi deserti.

Perché ora gemono tutte le case,
e mi deludono gli arcobaleni
come acqua di estivi torrenti.
 

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AMORE CHE SANGUINI

1    (molto modificato)
Signore, abisso di sangue,
lanciato nel vuoto su in alto
lontano dal Padre, ognuno ti guarda
pronto a schernirti perché ti affacciasti
alle nostre caverne
d’amori e di cupe bestemmie.
Questo fu il tuo peccato sublime,
il nostro, invece, ucciderti sempre
quanto più ci ami.
Intenti l’un l’altro a roderci,
crescemmo duri come pruni.
Ora non c’è pietà che trattenga
i nostri piedi in cammino a tradirti,
ora sui volti selvaggi
si dissecca il tuo sangue.
Vedi, Signore,
che la tua luce solare ci folgora:
se non è stolta questa preghiera,
non ci amare così
per non perderci ancora.

(simile al precedente)
Gronda, gronda il tuo sangue,
grida la sete e il martirio
la tua lingua arida
più dell’arido coccio.
Ma come è inquietante il tuo ritmo,
come assurde le sillabe tue
in questa colpevole sera.
La falena si è bruciata le ali,
s’è bruciata indocile al fuoco,
la falena è caduta,
si è confusa
tra cose senza più nome,
senza più nome e pietà.

 (molto modificato)
Tentatore promesso,
spada della nostra contesa,
come faremo a invocarti!
Ti chiameremo amico e fratello
e sposo della nostra sventura,
ti chiameremo ortolano
che nella nostra porzione di terra
abbatti la selva,
spremi, vestito di porpora,
l’uva nel torchio per vini ebriosi,
e proclami sui monti
con voce di mare e numeri nuovi
uno scandalo di azioni inaudite
perché tu il santo, l’eletto del Padre,
sei tenebra e fuoco,
tra gridi d’inferno
sei la Ragione e l’Amore.

4   (molto simile)
Ora volano volano
colombe sul fulgido capo
che il Padre percuote
perché ti sei fatto delitto,
Amore, Amore che sanguini,
e sconti febbre non tua di vene
che s’intricano forti
come una selva di rovi,
mentre dall’alto ci chiami,
dal profondo ci invochi
a sanguinare con te
per crescerci fino alla tua statura.

5   (molto modificato)
Amore che sanguini e porti
il peso di tutte le stelle,
gli olivi stasera si sbattono
al vento della nostra tristezza,
si levano i nostri volti,
maschere informi, si levano
le nostre mani di pianto
che, forse, domani
strazieranno ancora il tuo corpo.
Ma tu più forte del nostro delirio
sempre a vegliare
tra pietre e pallidi olivi,
sempre a morire per noi,
figlio di Dio.
 

 

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DICEMBRE: PIENEZZA DEL TEMPO

Ora il tempo si compie:
ora si libra lo Spirito
sull’acqua e l’abisso,
ora più cara fra tutte a me torna
la luna dell’ultimo mese,
presagio del Verbo.

Ora si colmano il vuoto e l’attesa,
fiorisce il deserto,
e sui nostri sentieri
esplodono i canti
perché il cielo irrompe sul mondo
al passaggio del giovane Dio.

Ora tutto
è un altissimo vertice
che sale, luna,
oltre il tuo splendore.
 

 

 

A TE CHE PARLI DIETRO LA NUBE
(inedita)

Se mai l’effimero
ha potuto venire a contesa con Te,
se mai Tu chiaro scendesti
al nostro concetto,
a Te che parli dietro la nube
innalzo il mio grido:
non sono più saggi i mortali
che danno aquiloni ai bambini,
non l’arma che uccide,
di Te che ci lasci all’urto del sangue,
a questa libera scelta del rischio?
Rispondi: (se di alcuna risposta
sono degni i mortali)
non è sufficiente alla nostra salvezza
la pena di un germe che geme
battuto da una luce violenta?
O non è il delitto complice, forse,
della tua pietà insondabile?
Ma tu parli racchiuso dentro la nube,
e sono le nostre parole farfalle
cadute sui greti dei fiumi
che un’onda più lunga rapina.
Non resta, dunque, alla nostra speranza
che intendere il linguaggio del vento
tenebroso e violento,
luminoso e profondo
come Te come Te
che parli racchiuso dentro la nube.
 

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