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DON AMATO CINI

FERMIGNANO 1919 - Urbino 1987

 

 

 

PRESENTAZIONE DI CARLO BO

 

Tanti anni fa esisteva in Urbino una minuscola scuola peripatetica che teneva le sue liberissime sedute sotto i portici di via Garibaldi o nella piazza: una scuola fatta soltanto di docenti e nessun discente, a meno che non si volessero considerare tali i passanti, fra i quali mi trovavo spesso con grande curiosità e stupore (soprattutto per la puntualità scrupolosa dei maestri, incuranti della stagione). I maestri peripatetici erano tre: un professore di filosofia che sarebbe diventato uno dei nuovi maestri dell'Università italiana, Antimo Negri, un professore di storia troppo presto mancato, Tenella, e infine un prete che allora andava ancora vestito da prete ed era anche lui professore di lettere nei licei, don Amato Cini. Tutt'e tre avevano, dunque, una loro connotazione precisa, soltanto uno aveva qualcosa in più o di diverso, don Cini infatti era un poeta e credo che se glielo chiedessimo è proprio questa l'immagine cui tiene di più. Poeta ormai consacrato dalla critica e che può vantare una consistente serie di volumi, a testimonianza della sua fedeltà e della sua originalità. Più di vent'anni di esercizio poetico sono molti e di solito comportano un pedaggio, nel senso che c'è il pericolo della ripetizione o dell'amplificazione. Ora questo non è avvenuto e va detto subito per uscire dagli equivoci e nello stesso tempo per mettere in luce un'altra delle qualità del Cini che lo ha salvato, il bisogno del dialogo costante, la necessità di leggere i suoi giorni con il metro della poesia che però non è mai abusiva nè dilettantesca. Chi legga questo nuovo libro resterà sorpreso, felicemente sorpreso, della novità del suo discorso, diciamo pure della sua freschezza. Quando don Cini scruta il giorno dalla sua finestra non obbedisce a un rito e nemmeno fa la sua preghiera mattutina in nome della poesia o di Dio (che per certi aspetti è la stessa cosa), no, si presenta ogni volta come uno scolaro che ignori il senso della lezione che gli verrà impartita dal maestro che poi è soltanto l'idea della vita pura, della vita da accettare senza riserve nè altri pre testi. Sta davanti alle cose, le guarda, poi se le riporta dentro e così il suo bisogno di poesia gli si traduce imme diatamente in discorso, quel secondo discorso che dove va fare fra sé quando tutte le notti si accompagnava a Negri e a Tenella. Perchè questa è la vera nota che distin gue il poeta dagli altri, dai suoi compagni di vita e dai suoi interlocutori: guardare oltre, rivolgersi a altri perso naggi immaginari, colloquiare con le ombre mentre in apparenza tutto si svolge dentro il teatro della norma. Se poi allarghiamo un po' il senso dell'immagine possiamo dire qualcosa d'altro, per esempio domandarci quanti sa ranno stati fra gli spettatori di quelle passeggiate animose e tutte di corsa, fra i discepoli involontari di quella scuola a indovinare che nel gruppetto c'era un poeta, un vero poeta. La cosa non è nuova: è il destino del poeta nella cit tà, vivere con questo segnale nascosto, spesso gelosamen te protetto e confondersi con la folla ma nel caso di Urbi no la questione assume un ulteriore rilievo perchè Urbino ha un suo cielo, ha una sua famiglia poetica e il saper tro varsi un segno particolare vorrà pur dire qualcosa. Si po trebbe sin d'ora mettere insieme una bella antologia di questi poeti, a cominciare dal Volponi, e allora si vedreb be che nel liberissimo concerto la parte tenuta dal Cini ha un suo peso specifico, è qualcosa di più di una conve nienza naturale ma un modo di partecipare con una sa piente misura di costanza alla ruota del tempo, alla mi steriosa lotteria dell'ispirazione. Un poeta, dunque, non letterato e tanto meno un poeta-prete o un prete-poeta (di quelli così tenuti in sospetto e in dispregio dal Carduc ci) ma un uomo che non riesce a difendersi da queste mi steriose tentazioni, da questo modo di vedere lievitare il senso primo dell'esistenza a cui don Cini ha socchiuso la sua porta di casa. C'è una sua poesia in questa raccolta dedicata alla madre dove si parla della 'passerella' che porta dalla vita alla morte, dalla casa della nostra passio ne a quella del silenzio e per molti del nulla, non mi sento colpevole se strappo dal contesto quest'immagine che mi sembra racchiuda molto bene il significato dell'operazio ne poetica di don Cini. E mi spiego, scrivere, parlare in poesia per lui è proprio questo, gettare dei ponti ideali fra le cose, le pietre, i dolori del mondo e la sua anima ma non per strappare delle conclusioni sospette, per inse gnare o fare della morale, no, solo per rispondere nel ve ro del cuore alle voci che gli vengono dal di fuori. La sua è un'economia poetica generosa perchè non si pone dei li miti e neppure esige dal suo attore principale, dal suo protagonista uno schema abile, una tattica di giuoco. Ul tima notazione, tutto ciò non lo induce a essere trasanda to per apparire spontaneo e genuino, al contrario Cini è un poeta dotto (e forse a volte non riesce a liberarsi dalle grandi memorie) ma di questa sua sapienza (che potrebbe essere l'equivalente del pudore) intende rendere un ulti mo omaggio a quella che comunemente viene detta la funzione della poesia.

Torniamo a quella scuola lontana che ora fa parte dell'album dell'Urbino che lascia gli abiti delle tradizioni municipali e cerchiamo di interpretare meglio il posto che occupava don Cini in quella cattedra particolare. Non penso che parlasse della sua poesia, sin da allora doveva essere per lui un esercizio segreto: penso invece che men tre seguiva le discussioni appassionate degli altri due suoi amici, ogni tanto levando lo sguardo verso i Torricini o, passato il teatro, verso i Cappuccini si preparasse per l'indomani a guardare il mondo, quando aprendo la fine stra la vita gli sarebbe venuta incontro con il semplice se guito dell'essenziale e del vero.

Carlo Bo

Urbino, 5 marzo 1983

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INDICE

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5  

  Presentazione di Carlo Bo

            ANALOGIE

11 

 Sullo specchio

12 

 Lentamente smuore gennaio

13 

 E non vedevo nel cielo invernale

14 

Non angeli per questa notte

15 

Non so se il vento

16 

Immobile notte di neve

18 

Lacera un dèmone antico la trama

19 

Banderuole impazzite

20  

 Non puoi trattenere l'arena

21  

La sera si consuma

22  

II tarlo dei giorni

23  

 Le foglie sgrondano al sole

24  

 Potessi, fiumre

25  

 I fiori quando l'estate declina

26 

 Alle speranze comete impigliate

27  

 Il solleone a picco denuda la terra

28  

 Per me che ho nel cuore

29  

 Straniere talvolta le cose

30 

 Purissima eterea idea

31 

 La neve liliale di marzo

            OGGI

35

 Oggi

38 

 Oracolo sulle città

39  

 Incubo

40  

 Fonte Avellana

41  

 Protesta

42  

 Al posto di guardia

45  

 Dopo Sabra e Chatila

46  

 Canzone dell'esilio

47  

  Fuori dell'arca

51

  Il giardino del saggio (mito)

            LA PASSERELLA

55 

 Presso le piramidi

56 

 Acqua sorella

57 

 La casa del vento (mito

58 

 Naufragio di voci

59 

 Dentro il cerchio

60  

 Senza cintura e mantello

62  

 Commiato          video

63  

 Xenion

64  

 De profundis per Leda

65  

 Ancora e qui sempre

66  

 Accadrà

67  

 Dopo la diaspora

68  

 Oltre la cifra

70  

 Divina presenza

71  

 La Parola

72  

 Lode della terra

73  

 Risorse d'allegria

74  

 La passerella      video

77  

 I ritorno di Ulisse

78  

 Sfraghis

 

LENTAMENTE SMUORE GENNAIO

 

Lentamente smuore gennaio, lungo
i fossi e le siepi
al sole che appare e dispare brilla
la brina tra nuvole in fuga.

Di queste mattine sui tetti la passera
timida pigola ma
irrequieta è la merla,
l'odi per poca luce dovunque fischiare,
la vedi svolare d'ellera in ellera
beccando le bacche,
occhieggiare
se mai una gemma sugli alberi spunti
quasi prevenga un nido nel cuore veloce.

Io invece più nulla ricerco,
non ho che memorie d'erranti profumi,
percorso da brividi come di antiche
paure e di porte serrate,
eppure l'anima al vento resiste
e alle nubi maligne
 

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Il solleone a picco denuda la terra
 

Il solleone a picco denuda la terra

S'accovaccia inerte
lungo una linea d'ombra la chioccia

Trema di cicale implacabili l'aria


E tu, al cielo rovente,
allucinato cuore
nel nulla,
una gleba riarsa
 

 

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DOPO SABRA E CHATILA

Non te, fratello ebreo sparso nel mondo,
che porti nel cuore il deserto e la tenda,
l'esodo mai consumato e l'antico
suono del corno
onde consegni a Jahvè il lamento dei morti,
contamina il sangue di Sabra e Chatila.

Te, inconsciamente respinto dall'uomo
di questo stanco Occidente
che, diverso, sembri incrinare
le sue orgogliose certezze,
te, randagio figlio d'Abramo fors'anche
se stabile vivi fra tutte le genti,
misteriosa conturbante presenza,
sopravvissuto ai flutti e al fuoco orribili
dell'umana vicenda,
fratello d'uguali rischi e paure,
te inseguo dentro silenzi di landa,
ma sopravvestito di luce apollinea,
contaminato d'orgoglio latino,
anch'io ti nego qualora mi fai
vacillare lo scoglio al quale m'aggrappo
per esorcizzare invano l'ignoto,
o il dolce-terribile Dio che scende
inatteso a incenerire i miei idoli.

Fratello ebreo,
coscienza mia e caverna
ove ricerco spirituale semita
le mie arcane radici,
ove indico un comune dolente Kippur's,

a te che morto più volte
mi rinasci sempre nel sangue,
innalzo il mio canto cristiano
in perpetuo cammino con te, in perpetua
speranza a cercare altrove un paese.

Alleluia, fratello
 

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LODE DELLA TERRA

Oggi dirò la mia lode alla terra,
a lei canterò un poema che adorna
di chiara luce, discioglie il suo grembo
materno e m'avvolge l'anima triste
di odori vari indicibili come
le nascite, lievi come le mitiche
dee dell'acqua e dei boschi, struggenti
come parole segrete,
freschi come anemoni e allori
rugiadosi d'aurora e giovani
come le stelle d'Ariete,
inebrianti come i vini del sud;
grevi come d'uve frante nel torchio
amari come di assenzio
acri come d'arida gleba che s'apre
alla pioggia d'estate,
mucidi come di foglie rimorte,
fuggitivi come le ore serene.

Cosi in lei che mi porta nel giro antico
del cielo mi fingo
forme supreme,
epifanie della Parola che era
prima del sole e del mare,
e onda-non onda
m'appare la vita che ha mille nomi,
e nessuno,
nessuno che mai le convenga.
 

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LA SERA SI CONSUMA LENTISSIMA

 

La sera si consuma lentissima
su una bianca parete, si spegne
l'ultima rondine e cede alla nottola,
che traccia nell'aria
sghembe lugubri danze.

Con mani vuote e parole interrotte,
sono il vascello che ondeggia intristito
al limite torvo del mare.
 

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INCUBO

E non era nel sonno più il rombo dei tuoni
durato ossessivo nel giorno,
non vento non pioggia nè schianti
di querce corrusche di fulmini,
erano urli d'antichi giganti azzuffati,
rantoli di lacere bocche e gridare
d'aquile a picco
sull'immondo carnaio.
Poi era ovunque un silenzio di pietra
quando impotente alla fuga
con tutta la morte nel cuore
riemersi col grido in gola strozzato
da mucchi d'ossami
colmo d'orrori primevi,
che m'opprimono ancora
se un cielo di turbini
ascolto
sopra il mare che infuria
 

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COMMIATO

Nelle acacie che incontro fiorite
di bianchi corimbi
salendo dal mare ai colli di Urbino,
nei grani già biondi misti a papaveri
rossi, nell'erba di tenero verde
ravviso i vostri colori fugaci,
ragazze in cui già matura la donna,
rugiadosi ragazzi cresciuti in blu-jeans.

Vi ho salutati stamani un po' lieti
un po' tristi nell'aula dell'ultimo
corso ch'aveva l'odore di tenda
disfatta o di casa quando si lascia
per altre dimore.

Già sento fluttuare nell'aria non so
che profumo di favola ora che il mare
vi chiama,
il gran mare acceso di porpora ambigua
colmo di vele che prendono il largo
ognuna col proprio segreto destino.

A voi benigne siano l'onde
adesso che viene per me una sera
d'ali sempre più rare
nel cielo trepido di cirri labili.
Addio
 

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NAUFRAGIO DI VOCI


Per questi colli non vedo che forme
scavate dal tempo metamorfosi eterne,
tracce di strade visibili appena,
non so che svolare d'uccelli randagi
a qualche strano rumore o presagio di morte;
mucchi di tronchi coperti di muschio
sassi deserti sui cigli, viluppi
di rovi e pozze stregate di verdi
fermenti e frantumi
d'anfore e case grottesche di crepe
e di macchie ove si spensero i padri;
cortili grevi di muffe e solai
vaporanti fracidi odori,
ossami di torri e castelli, lapidi
rotte e nomi consunti,
archivi di stente memorie d'umane
tragedie di domande senza risposta,
di eterne utopie.

E io qui a dire con balbe parole
sotto antichissima luce di globi
che furono, mentre il mare sospinge
morte conchiglie
ai lidi che l'onda muta e rimuta,
queste solitudini esangui,
questo naufragio di voci nel nulla
d'un rapinoso deserto.

 

 

 

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