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GERMANA DUCA RUGGERI: Hanno scritto su Ex ore
 

Caterina Camporesi  Fabio Ciceroni  Francesco De Napoli  Marco Ferri  Vincenzo Guarracino
 Anna T. Ossani  Sergio Pretelli Fabio Serpilli  Giovanni Tesio  Alberto Calavalle

 

Il respiro d’Urbino tra il familiare e l’ universale

di Caterina Camporesi

 

Un profondo e tenace amore per  le radici geografiche, affettive, culturali e simboliche permea i testi  dei due libri di poesia sino ad ora scritti da Germana Duca Ruggeri che  affianca all’attività di poeta, quella di critica letteraria, con  particolare riguardo agli scrittori del Novecento: Dolores Prato, Paolo Volponi, Elsa Morante, ad esempio. Il primo libro, “distanzainstanza”, con in copertina una tempera di Carlo Ceci: “La collina azzurra” è stato pubblicato nel 1999 dalle Edizioni Arti Grafiche della Torre (PU). I temi sono quelli della memoria,  della nostalgia, della perdita, della ripetizione e dell’inquietudine per il tempo che passa con gli inevitabili  dolorosi mutamenti da affrontare e vivere. Se però il seme del distacco  feconda il ricordo e il lavoro del lutto trasforma in parola poetica il dolore, allora  il passato si può recuperare e dare un  volto ai protagonisti  raccontandone la storia:

La casa è laggiù, vuota: morto

Lillo, morta Amelia – vana la testa

brillante e gli occhi di fiera

e il riso e l’affabile bocca -

dismesse le bestie, gli attrezzi;

sbarrata la strada… Adesso Berto

vive in città e coltiva il seme

della distanza irriducibile.

 

Non a caso  questa è la poesia che chiude “distanzainstanza”.

“Ex ore”, il libro del quale ci  stiamo occupando (Marsilio editore,  collana Elleffe , diretta da Cesare Ruffato, 2002, pagg. 108, euro 11,50) è in qualche modo il prolungamento di “distanzainstanza” ed è scritto nell’odierno dialetto urbinate. La versione italiana si  avvale dell’endecasillabo e il titolo, nella sua ambiguità semantica, allude sia,   alle ore già trascorse, sia  alla bocca da dove  le parole escono per essere deposte sul foglio. Il libro è  il frutto maturo scaturito dal lungo e fedele rapporto d’amore con Urbino, la città che ha accolto Germana, studentessa, poi  insegnante, moglie,  madre e infine poeta:

Viv ma ché da quand c’avev vent’ann,

ma ché so dventata madre per bona sort,

per un cas fortunat.

 

La poetessa sa  che il   rispetto e la libertà della propria voce sono conquiste da difendere con impegno costante, specie se si è donna, in quanto  in agguato c’è sempre  qualcosa da fare di più urgente della poesia, c’è sempre qualcuno che  tenta “di cucirti la bocca vera” o “tagliarti la lingua parlante”: l’assedio del quotidiano è potente. La resistenza all’assedio si legittima allora propria grazie alla generosa bellezza  di Urbino che trionfante  rinforza. Guido Garufi afferma  che  la poesia marchigiana ha il suo punto di forza nella residenzialità e nella  marginalità, a differenza del  racconto e del  romanzo, che si alimentano invece con il  viaggio, l’avventura, il  trasloco e i il succedersi di sempre nuovi  paesaggi esteriori che allargano la visione e la complessità del mondo esterno favorendo anche la ristrutturazione di quello interno. Lo  stare fermo e appartato porta invece  il poeta ad affinare la sensibilità, a guardarsi sempre più  a fondo, a cogliere anche il più piccolo dettaglio e ad osservare ogni  sfumatura del paesaggio “infinito” nel quale è immerso:

Sa ’l pes de tut quel ch’ è pasat,

legera de tut quel ch’ha da nì, artrov

vicin e lontan, sto de casa tun tut

i post del mond e sent

el radicament. Ma ché è sempre bel.

 

E’ Urbino con la nobiltà del passato e la sapienza rinascimentale a   fare  da sfondo allo svolgersi della vita di ogni  giorno ed è proprio il suo dialetto che come acqua  fluisce da un punto all’altro lambendo terre ed acque:

Come goccia spèssa e rimbalsa

tla pietra la lingua d’Urbin…

... e dop risona dentra i fium

che lambisc’ e tel mar se riversa.

 

Il testo descrive l’intero arco di una giornata, (l’equinozio di primavera dell’anno 2000) suddivisa nelle ore diurne  e notturne, da quando il movimento della vita avvia il dispiegarsi del giorno nelle case, nelle strade, nelle piazze, nei palazzi, nei corpi e  nelle anime, sotto lo sguardo di Urbino che, con la sua saggezza, bellezza, armonia, sostiene, nutre e rincuora le visioni, i sogni e le riflessioni di  tutti. Così:

L’ora vien da l’ora e la boca,

contand e racontand, apre ma ’l cor.

 

Quadri viventi si sussegguono di ora in ora, ripetendosi e rinnovandosi al contempo, portando dentro il respiro universale che  si mescola con quello personale e famigliare in un unico abbraccio. Come dice Octavio Paz,  l’istante ha un solo modo per essere salvato e non essere dissolto  negli altri istanti ed è quello di essere  convertito in ritmo. Aleggia nella poesia  di Germana Duca Ruggeri il sentimento dello struggimento per il trascorrere indifferente del tempo  che “sfigura tutti e per sempre”. Tuttavia la consapevolezza dell’ineluttabilità del suo fluire   contiene,  accanto al dolore, anche il forte   richiamo a vivere fino in fondo le “briciole”  che di esso ci sono concesse.

                                                                                                                               Caterina Camporesi  

 

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Operazione coraggiosa e rara

di Fabio Ciceroni

 

Il tempo nella sua sottile irriducibilità, nella sua tragica irreversibilità, nella sua imprendibile nullità, è l’oggetto della lotta, privata e cosmica insieme, che questo testo conduce senza tregua. Con la voracità d’interrogazione che è delle scritture vere. Eppure, per questo suo “Ex ore” – che già nel titolo conchiude l’ambiguità di parola e di  tempo – Germana Duca Ruggeri ha adottato lo stile umile, e strumento utile, del dialetto. Tra i dialettali appartiene al gruppo di quelli che ne hanno scoperto la forza dopo l’attraversamento di precedenti esperienze in lingua: il più convincente. Non appartiene cioè ai dialettali sedicenti spontanei che considerano il dialetto un altro codice da aggiungere ai propri esperimenti. Ma dialettale per conquista di una vocazione rivelata. Tanto più, in questo caso quasi eccezionale, che l’approdo accade sul non proprio dialetto. Originaria di Ancona ha osato scrivere il suo “Ex ore”nella lingua di Urbino. Ci troviamo di fronte ad una vera costruzione, che nella struttura rimanda  alla compattezza necessitante di certi poemetti medievali, ove il particolare (verso, verbo, immagine, suono) consegna la propria essenza alla geometria dell’intelaiatura che la contiene, per conquistarsi in tal modo un respiro più dilatato rispetto al frammento cui ci ha obbligati la modernità. Operazione coraggiosa e rara.

Fabio Ciceroni

 

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Un ricco campionario di visioni e immagini

di Francesco De Napoli

 

 

La “lingua d’Urbin” della raccolta – un corposo poemetto – risuona come una sinfonia celeste che riluce e riflette l’inimitabile magia della città di Raffaello. Un fascinoso gioiello poetico, una creazione tangibile e tattile questo piccolo capolavoro di Germana Duca Ruggeri. Un ricco campionario di visioni e immagini che sintetizzano per intero la vocazione umanistica di Urbino, attraverso svariate e ardite citazioni che alternano Sant’Agostino ad Aldo Palazzeschi, San Benedetto al film “American Beauty”.

Ciò che consente di armonizzare e fondere i testi è, a mio avviso, la volontà/voluttà di inventariare qualsiasi immagine/archetipo emerga dalle profondità dell’io, seguendo l’insegnamento non soltanto di Jung, come nota la Lenti nell’introduzione, ma in sostanza l’esempio di gran parte della poesia nordamericana ed europea del secondo Novecento.

“Distanzainstanza” (e di scena in scena) l’occhio svagato dell’autrice indugia su volti e ricordi che dipanano il filo d’una campionatura ‘pubblico/ privato da ritorcere, riavvolgere “con molta cura”. Un intreccio doloroso fra gli ultimi fuochi dello sperimentalismo d’un secolo che voleva cancellare il sentimento.

Francesco De Napoli

 

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Germana Duca Ruggeri, Ex ore (Marsilio, 2002)

di Marco Ferri

 

Il libro di Germana Duca Ruggeri Ex ore, pubblicato da Marsilio nel 2002, è interessante sotto diversi aspetti. In primo luogo, c’è questa immediata sensazione di entrare all’interno di una architettura in versi, cioè dentro uno spazio meditato e costruito, un meccanismo che l’autrice deve avere congegnato con sapienza svizzera, se questo aggettivo può descrivere la precisione del discorso poetico e tutta una serie di sotterranei rimandi intertestuali che è curioso trovare in una poesia in dialetto.

 Non sto parlando della partizione in ore diurne e notturne, del susseguirsi cronologico diviso appunto in ore, che pure esiste ma è solo un primo strato di questo libro ad orologeria. Si potrebbe aggiungere infatti (e subito) un’altra annotazione: le poesie si accampano sulle pagine raggruppate in dodici più dodici versi, seguite da due code di due versi.

Insomma, c’è una misura precisa, un’andatura palese, evidente, di ventiquattro versi per ogni ora con due clausole di due versi ciascuna, che in genere sentenziano, esortano, riflettono sull’ora appena trascorsa; sembra un gioco speculare, dove il giorno si riflette nell’ora e viceversa, ma questa misura, questa andatura, nasconde un ritmo classico della storia della poesia, cioè il sonetto. E’ come se ad ogni ora corrispondessero due sonetti. E’ un sonetto raddoppiato, frammentato, scomposto, ma c’è ed è ripetuto sotto traccia fino alla fine del libro.

 Non vorrei farmi prendere da vertigini numerologiche, ma come ho già detto ogni ora è appunto di 24 versi, come sono le ore del giorno, le quali dunque si specchierebbero in ognuna delle ore e delle poesie di questo libro. Quindi a quella scansione appena sopra evidenziata bisogna aggiungere una idea di specularità, un’idea del doppio che informa tutta l’opera orchestrata – a questo punto direi progettata – da Germana Duca Ruggeri. Non credo infatti che tutto questo sia casuale, anzi immagino che l’andatura sia stata scrupolosamente ponderata, fino al punto di indurre il lettore ad avvertire un messaggio complementare e opposto, cioè l’artificiosità della partitura stessa. L’autrice scandisce il tempo, decide il ritmo e il numero, ma insinua contemporaneamente il sospetto che tutto questo sia soltanto un’illusione umana, niente più di una sintassi. Le poesie dedicate a American Beauty sono emblematiche in questo senso e per il fatto che evidenziano il contrasto tra apparenza e realtà diventano una chiave di volta del libro.

 Fatte queste osservazioni, tuttavia, più che American Beauty, uno si sente un po’ come in un quadro di Escher, dove apparentemente tutto è chiaro ma se si guarda meglio c’è come un gorgo che attrae l’occhio dell’osservatore, un punto dove avviene qualcosa di strano e soprattutto di inquietante. Nei quadri di Escher l’assurdo è sviluppato nelle geometrie e negli spazi, qui l’assurdo – come aveva acutamente descritto sant’Agostino nell’undicesimo libro delle Confessioni – è il tempo, che possiamo misurare ma non comprendere.

 Queste prime impressioni mi inducono a immaginare altre regole nascoste nei testi e soprattutto nella struttura dell’opera ma non voglio andare oltre con osservazioni di questo tipo: ogni lettore proseguirà da solo, se troverà il sentiero giusto.

 A me premeva descrivere una sorta di ossessione del tempo, che non è semplicemente quella relativa al numero delle ore, al computo delle azioni e dei sentimenti, in una sorta di economia domestica ed esistenziale, alla suddivisione e alla somma, ma è una ossessione che emerge dallo strato linguistico, dal racconto, dalla parlata scelta, una parlata che è obiettivamente in contrasto (mi sembra) con la scelta strutturale: quando si sceglie un dialetto (o si è scelti da un dialetto) in qualche modo si finisce per ritagliare un mondo a parte, che ha un gusto e una mentalità, una sonorità, una ricchezza di modi verbali, di espressioni gergali che hanno valori geograficamente circoscritti. Indossare una lingua di questo tipo può andare bene per rammentare i gesti della quotidianità, le azioni semplici e secondarie, magari anche quando nella stessa quotidianità si aprono voragini sull’infinito, ma come inseguire passo dopo passo, ora dopo ora, con questa lingua e dentro questa lingua una riflessione stringente e ossessiva?

 Il linguaggio dell’oralità viene lanciato in questa missione fuori del suo spazio abituale. E il gioco degli specchi tra le ore del giorno e della notte e l’oralità, la lingua che in altri dialettali potrebbe essere una lingua materna mentre qui è una lingua degli affetti, una lingua adottata come una figlia, insomma questo rapporto tra la voce e il tempo, tra ciò che esce dalla bocca (Ex ore) in quanto voce dell’anima e ciò che trascorre e scompare e lascia una traccia di sé nei corpi, ecco, qui sta l’ossessione, e non ha risposte ma solo interrogazioni, come ci aveva insegnato Agostino.

 

Nel fondo della notte, poi, e verso la fine del libro, c’è questa inattesa deviazione verso un finale apocalittico, più che apocalittico come rivelazione è apocalittico nel senso di un presentimento della catastrofe collettiva e naturale, che è un finale possibile per questo confronto serrato tra ordine e disordine, altro tema che attraversa tutto il libro.

Mi sembra infatti che il nucleo germinale di queste poesie sia proprio nell’alternarsi di visioni di ordine e di disordine, come se dicesse una prima volta che l’ordine è solo apparente, in realtà c’è il caos, e subito dopo l’inverso, che il caos è apparente, perché ci sono queste luci siderali disposte a regola d’arte: come nell’immagine finale che fa riferimento alla pala di Piero della Francesca detta di Brera: ma così ritorniamo al discorso iniziale, ai messaggi che l’autrice assegna alla struttura, e dunque c’è come una circolarità più che la solita certezza del trascorrere comunque del tempo. Del resto la Hora prima citava ugualmente Piero, uno dei suoi quadri più domestici e inquietanti, “tel nom del Spirit e del Temp”.

Marco Ferri

 

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Un sogno inscritto nei battiti del tempo

di Vincenzo Guarracino

 

“Fiori e libri da sfogliare”, in una lingua di miele e cuore, quale è la parlata di Urbino, così autentica e ariosa nella sua pronuncia e misura, ut venit in buccam, senza fantasmi e colori di marchigianità, se non quelli di una che nella ‘sua’ terra ci vive e opera con il suo carico di speranze e pensieri.  Come sottrarsi al fascino  di tanto callida iunctura, così ambiguamente esposta nell’ingredior di un ‘libro d’ore’(horae diurnae e nocturnae, amorevolmente catalogate e interrogate) di grande suggestione? Un sogno inscritto nei battiti del tempo, nella vertigine implacabile di un prodigio, quello dell’ex-sistere, dell’essere attimo dopo attimo passo dopo passo identici e diversi, in un progetto in cui i desideri si avverano o tramontano per forza di scrittura.

Vincenzo Guarracino

 

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Una musica familiare e quotidiana
di Anna Teresa Ossani

 

 Dalle limpide tramature, dalla elaborata semplicità del tessuto poetico, Urbino, città d’adozione, città dell’anima, della famiglia, della vita, sbalzata come un cammeo, affiora con le luci e le ombre di una incisione discreta raffinata e preziosa, alla Ceci, vista e sentita nella sua realtà di teatro spogliato di maschere e di sicurezza, colta nella sua dolorosa sonnolenza, nella sua decadenza, nella sua magia. Un paesaggio sfumato e silenzioso dove sogno e simbolo si intrecciano, il suono sa farsi immagine e l’immagine suono, a testimoniare anche una memoria poetica dove affiorano parole antiche e dove, nella melodia del dialetto, pulsa il respiro di un’anima bella. Una musica familiare e quotidiana risuona nel ritmo pacato di questo impasto linguistico dove l’uso del dialetto non è mimetico o consolatorio, crepuscolare o sentimentale, ma piuttosto e insieme conversevole e letterario, in un mondo che spesso non ritrova più un senso al suo esistere e che qui l’autrice guarda, dolorosamente serena, da un nido che ancora la salva e la protegge

Anna Teresa Ossani

 

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Germana innamorata di Urbino

di Sergio Pretelli

  

Germana Duca Ruggeri appartiene alla categoria degli innamorati di Urbino. Tanto da assimilarne il dialetto nella sua portata più immediata e genuina. Tanto da azzardare a scrivere poesie nel dialetto acquisito, accompagnate dalla versione in lingua italiana. Confondendo il lettore,  perché in entrambi i casi  i testi  mantengono il loro lirismo. Un identico, immutato valore che non è sfuggito a Cesare Ruffato, curatore della Collana Elleffe per una prestigiosa casa editrice come la Marsilio.

Sergio Pretelli

 

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Il tempo e la parola

 di Fabio M. Serpilli

 

Germana nasce ad Ancona e risiede in Urbino per avere sposato un urbinate e il suo dialetto, io ho sposato una urbinate e sono di Ancona. Questo chiasmo anagrafico potrebbe significar poco se non che entrambi conosciamo gli opposti alfabeti e dunque una certa intriganza combinatoria fa sì che ci si incroci nella poesia.

E c’è un’altra gemellarità poiché ambedue scriviamo sia in lingua che in neo-dialetto.

Cominciamo da Ex ore, èdito nell’agosto 2002 dalla Marsilio Editore in Venezia. Come lessi il testo della Germana (che già Fabio Ciceroni aveva segnalato) subito consonai con la sua opera e pensai che solo così si fa poesia dialettale.

«Quando parli di poesia e di poeti fàllo da poeta» mi diceva Valerio Volpini. Così diserto le categorie del critico, dello storico letterario e mi lascio scorrere dalle parole di Germana Duca per vedere quali pullulii provocano in me. Le parole mi indicano, se non il significato, più facilmente il senso. Il poeta non ha che le parole con cui velarsi e svelarsi. E subito le parole annunciano la quotidianità più colma dell’essere donna, intenta alle “facend” di casa accompagnate dalla ritualità dei gesti (“tel nom del Spirit e del Temp”) ma antichi e nuovi sono i cominciamenti orali: «Buongiorno, amore!».

Tutta l’opera della Duca si inquadra in queste categorie temporo-spirituali dove gli oggetti-soggetti sono se stessi ma anche altri, come vogliono i piani della denotazione e della connotazione. Nella progressione litanica Urbino è “madre” e già “ex ore” nasce la “HORA PRIMA”. Nella coscienza umana il tempo viene scandito dalla parola.

Ogni strofa ha anche un suo rintocco antifonale bilingue. Già nella chiusa della HORA PRIMA la parola carambola nella città ducale le cui mura fanno da  sponda: “…rimbalsa / tla pietra la lingua d’Urbin”.

La diarietà principia ad ogni Hora, ai gesti seguono le parole e l’astrazione concettuale per cui Urbin diventa “sorella” e poi “Urbin perfesion”, seguendo una classica iconografia ideale. Alla fine della HORA TERTIA l’ambiguità della lingua taglia l’armonia postulata.

Nell’HORA QUARTA la Duca avverte l’edificio ducale come un sogno “tirat so / dai gran tesitor del Palass”. Lei stessa tesse in brevi e agili tratti “i turicin”, frenando l’ispirazione (come raccomandava Scataglini) per evitare il fegatismo paesaggistico di tanti vernacolari. Non c’è di che poiché quasi in tautologia “ma la belessa corrisponda belessa”, che raccoglie la precedente rima di “gentilessa”.

Nella ciclicità schematica Germana Ruggeri  trova spazio e tempo per le considerazioni di leopardiana fattura distinguendo l’infinitezza di Dio e la  nostra sconfinatezza, il nostro esilio esistenziale che si riassume nell’emistichio “È fond l’isolament”. Persino la “duità” sbrecca la tanto consacrata armonia rinascimentale di Urbin. Diaframmano in chiusa dell’HORA QUINTA persino le coordinate spazio-temporali.

Le antinomie si riformulano nel binomio “legeressa e pesantessa, perfesion (in absentia) e “imperfesion”. E il canto dell’usignolo  viene screziato dal volgare suono del telefono che richiama la aereità del poeta alla prosa della realtà: si avvicina l’ora del pranzo con le esigenze del “sal, l’oli’, el pan fresc / el vin bianc ma la mi’ mensa”. Il quotidiano opera il salvataggio dalla puntura dell’eterno assillo  pascoliano. A proposito Giovanni vide da questi cieli alzarsi aquiloni.

Ma neppure alla fine dell’HORA SEPTIMA giova alla comprensione della verità l’ora-parola.

Non c’è tempo per la mestizia e la sconsolazione poiché i piccoli oggetti  riportano alla realtà e fanno “’na meraviglia / de normalità”. Macché distrazione dalla domanda se anche nell’HORA OCTAVA la Duca verga un’altra verità: “Nessun / ha mai avut la mej sul destin…”

La rassegnazione pronunciata nella strofa viene curata dalla leopardiana solidarietà proclamata all’ombra dello “sterminator Vesevo”, riproposta dalla poetessa di Ancona-Urbino: “Procuram de fè sempre el ben…”.   E “Urbin” sarà investito dell’incarico di sollevare il mondo dall’ingiustizia che opprime gli indigenti. Ciò avverrà puntualmente all’HORA NONA, l’ora più incline alla pietà.

Ma altre e nuove empietà minacciano l’umanità come la mania di tutto consumare ‘hic et nunc”

Per cui la bocca non annuncia solo la parola e i tempi dello spirito, ma è spalancata verso altre onnivorie inquietanti. Consumeremo d’una ferina fame anche il Tempo.

E per tutto il succedersi delle ore, si riproporrà la doppia corrente d’acqua pensieri e parole ormai senza una salvezza che non sia la cantabilità filastroccheggiante che può evadere extra cor ex ore. 

C’è un risentimento del vano leopardiano sin dall’HORA SECUNDA nocturna. Appena il tempo di prendere (in)coscienza annoiata e sbigottita che “sém en po’ de gnent”.

Nel trascorrere lento (mica tanto poi) del tempo si comincia a vivere di ricordi. Il restante tempo viene consumato per l’elogio della ipocrita normalità.

E la vita è senza senso per cui gli uomini appaiono come tanti manichini in continuo movimento senza direzione: “È la combinasion / de quel che cappita”, urbinizzando il dantesco “Democritos ch’el mondo a caso pone”.

Per non morire di anoressia spirituale, è nell’HORA OCTAVA che la bugia (quella metafisica e mitica?) può ancora recuperare quel sogno che cova in ogni piega del pensiero e del cuore.

Intanto in tutte le ore imperterrita (dis)corre la parola capace di riformulare il cartesiano “cogito ergo sum” in “parlo dunque sono”.

L’HORA DECIMA è l’ora della tentazione apocalittica, in un crollo verticale di stanchezza di esistere: “Fnirà la generasion umana”.

Alla apocalisse  inesorabile non può sfuggire nemmeno la parola. Spenta la quale torna in campo la vita con le sue ricorrenze di gioie e dolori, di nascite e di morti…

Res sic stantibus, alla caduta del tempo non servono più le parole e la bocca si chiude in un impassibile silenzio.

O in una pausa se Turoldo si lasciò sorprendere da questi versi:

«… ma non è il tuo silenzio

che più m’affligge,

è il mio non tacere

                                - O Silenzio!»

Fabio M. Serpilli

 

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Fra i migliori libri recenti di poesia

di Giovanni Tesio

 

Fra i libri recenti di poesia dialettale, preferisco quello dell’anconetana Germana Duca Ruggeri. Un po’ perché le Marche sono da sempre luogo asimmetrico, un po’ perché non mi risulta che vi sia per il dialetto urbinate una tradizione locale cospicua. Un libro delle ore diurne e notturne attraverso cui ha voce un dialogo discreto tra alterità e radicamento.

         Giovanni Tesio

 

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"Ex ore" di Germana Duca alla Biblioteca S. Giovanni
di Alberto Calavalle in "Finestre sulla Città e d'intorni"

Argalia Editore Urbino, 2009

 

Mentre gli urbinati lasciano la città storica, stabilendosi nelle abitazioni dei rioni di periferia e per le vie ed i vicoli antichi si sente sempre meno risuonare la dolce cadenza del dialetto urbinate, è davvero singolare che una poetessa di origine anconetana come Germana Duca, trasferita a Urbino da qualche decennio, dichiari la sua appartenenza alla città di adozione scrivendo: Come goccia se spessa e rimbalsa / tla pietra la lingua d'Urbin e dedicando versi di invocazione alla città chiamata madre: Urbin madre, ardamm el foc / e 'l ram secc... e sorella: Urbin sorella, logg de perla, / che pudessa trovè la mi colomba / un giust ripar tra le tu ' mura, e legando insieme versi su piccole cose e azioni di ogni giorno: "Lavapiat /da svoidé e lavatric piena / da mandé, cafélat da servì, affetti familiari: Ma sa te se alsata / a fè? e voli verso: Na Madonina de Piero, nascosta / tra i profil dle nostre colin e Urbin perfesion, Urbin ducal, cerca d'armanna / na capital, apartata e universal.

Tutto questo trova spazio in Ex ore, un libro di poesie scritto da Germana Duca in dialetto urbinate con testo italiano in calce ad ogni pagina, pubblicato da Marsilio, Venezia, 2002. Nell'arco di un giorno, tra l'ora prima delle diurnae e l'ora duodecima delle nocturnae, il cerchio del tempo si chiude e si conclude il libro.

Il titolo, per dichiarazione dell'autrice si richiama alle ore trascorse ed anche alle parole che dalla bocca passano sulla pagina e il libro è concepito, sempre per ammissione dell'autrice, nel passaggio dal secondo al terzo millennio, in un momento in cui si è portati a interrogarci sul tempo che vola oltre una pietra miliare per l'umanità, dividendo il passato dall'attimo del presente e proiettandosi verso il futuro.

Ex ore è stato presentato alla Biblioteca S. Giovanni di Pesaro, da Marco Ferri direttore della Biblioteca Federiciana di Fano davanti a un pubblico numeroso e preparato, a giudicare dalle osservazioni e dai quesiti che sono stati posti all'autrice.

I versi in dialetto urbinate sono stati letti da Iaia Lorenzoni, poetessa delle fate, nonché affermata lettrice che ha saputo valorizzare la parlata dialettale urbinate e produrre le giuste atmosfere create nel libro.

Ha concluso la serata Germana Duca offrendo opportune spiegazioni e anticipando per i presenti la lettura di alcune poesie che dovrebbero entrare in una prossima pubblicazione.

Alberto Calavalle

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