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GERMANA DUCA RUGGERI: Tessere

 

Praga, primavera 1996

 

 

Il pullman granturismo fila su un'Austria pettinata e tirata a lucido: spicca la fioritura madreperla di albicocchi, susini, cerasi, a guardia di ogni singola casa e stalla e fienile e villaggio e città. Tutto è esteticamente impeccabile. Il colore dei denti di leone, sui pascoli, si intona al giallo profuso dei coltivi di colza; le strade stanno, come nastri di avorio incalpestato, tra incalpestati tappeti di erbette appena tosate; le acque -ora ruscelli, ora fiumi, ora laghi o laghetti- lambiscono rive di pioppi e betulle; tra i rami coperti di piccole gemme convivono vischio e nidi. Rare presenze sullo sfondo, insieme alle ali sfrangiate di un corvo in volo: un fagiano becchetta sul limitare di un bosco, una giovane con bebé in carrozzina indugia nell'orto, dei contadini solcano calmi la terra.

Lavori in corso alla frontiera con la Repubblica Ceca. Si cambia moneta, lingua e bandiera.

Appare il primo messaggio: "Egon Schiele e la sua opera"; il secondo propone un'arte diversa: "Sandra, erotic center"; e pure il terzo, il quarto, il quinto propagandano la stessa mercanzia. Diversi solo i nomi -Regine, Franziska, Chantal- e gli indirizzi. A completare la scenografia frontaliera, lastre di cristallo un po' polverose, ad altezza d'uomo, con figure e decori evocanti il Paese: il boccale di birra, la carpa, l'uovo. Poco lontano, in fondo a uno slargo, lo spaccio "Devil", con l'inconfondibile icona, replicata tutt'intorno al parcheggio, dove il rosso demonietto, con barbetta e cornacchini, pare di casa, come l'amore a pagamento.

Lungo la strada che porta a Praga, giovani mondane sorridono e salutano: una bruna, capelli corti, alla moda, è vestita di succinto turchese. Nessuna volgarità. Lo stesso si può dire della bionda che sbandiera il vestito color ciclamino. Al confronto, altre persone -intraviste dentro e fuori dalle auto, alle fermate delle corriere, davanti a case, negozi- sono così sbiadite e prevedibili da apparire oltraggiose. Nel paesaggio, che parrebbe il frutto di un guasto nel cervello creatore, nulla è seducente. Colture indeterminate, rare cascine, opifici precari, colori terrosi, palustri, sfumano sotto cieli rettilinei, piatti e grigi come asfalti intensamente percorsi.

Ecco Praga. La periferia, per cominciare: inalbera palazzoni, alcuni proprio orribili, sovietici, muffiti, corrugati; altri, più recenti, concedono qualcosa di meglio all'occhio ma, nella sostanza, rivelano la diffusa necessità di incasellare più gente possibile nella selva nascente dei centri commerciali, dei grandi alberghi da poco, senza indulgere a nessun altro tipo di vegetazione.

Quasi a demarcare lo spartiacque fra costruito e incostruito, il verde pare sia andato tutto ad addensarsi a ridosso della Praga storica, oltre la Moldava, sulle colline.

In cima a una di queste, si scorge la sagoma di una statua equestre. Sembra sospesa, tono su tono, tra cielo e terra. Nel suo genere, il più grande monumento del mondo, spiega la guida dopo averla mostrata. Ma chi è? Un re, un santo, un eroe?

A contrasto, sulla sommità di una vicina altura, svetta un'antenna colossale a fasce biancorosse, simile a un gigantesco ombrellone chiuso, a un avveniristico mostro fungiforme che potrebbe spalancarsi da un momento all'altro sopra la città... Che dire, poi, della mini-tour Eiffel che si erge un po' tozza, tra grandi alberature, a sinistra del Castello, oltre la Chiesa di Loreto?

L'artificio evocante Parigi risulterebbe più credibile se la facciata della cattedrale di San Vito, simil-Notre Dame, svettasse, non oscurata da cinta muraria ed edifici al suo interno. O se i bateaux-mouche, lungo la Moldava, non fossero propriamente mosche in bottiglia: su e giù, da un ponte a quello vicino, poi si gira; tutto in mezz'ora. Ma -come sulla Senna-avessero più lungo respiro.

Comunque sia, il fiume celebra la sua primavera e una luce di oro fino inonda Praga. Non c'è abbondanza di fiori. Sotto un cielo così pacifico, però, bastano i lillà ai margini di alcune vie, o le chiome bianco-rosate dei meli, accanto a quelle candide dei susini, in Mala Strana (Città Piccola), a mettere di buon umore, a strappare un inchino.

Sono piene di grazia le frasche di olmo e betulla, con lievi fiocchetti dalle tinte brillanti, in evidenza nei negozi di Nerudova, o Karlova, come alberelli beneauguranti. Alcuni, di grandi dimensioni, portano sospese anche uova dipinte e si trovano nelle piazze.

Il più imponente è in Piazza Municipio, fra bancarelle fitte, ingombre di ogni genere di piccole mercanzie, e mandrie umane multicolori, pronte a sparpagliarsi intorno al monumento a Jan Hus.

Il Riformatore sembra lieto di non confondersi fra coloro che tappezzano la gradinata di jeans e scarpette griffate, zainetti, occhialetti, cappellini, cappelloni.

Questi ultimi -da mago, da jolly, da diavolo, da gran ciambellano- inondano tutti i negozi di souvenirs. Con i loro colori chiassosi, a contrasto, (disposti a spicchi, strisce, riquadri) abbondano in testa alla maggior parte dei teen-agers.

I più ne risultano peggiorati, imbruttiti; ma deve essere trendy, un oggetto di culto, se in tanti, pur di averlo, spendono volentieri intorno a trecento corone.

Era primavera a Praga quando, in momenti diversi, nel 1969, Jan Palach e Jan Zaijc, giovani, si diedero fuoco in Piazza San Venceslao. Stanno vicini, ora, i loro volti belli - fototessera in bianco e nero ingrandita, fotocopiata, incellofanata - ai piedi di una piccola croce di betulla, i quattro bracci legati da un cerchio di filo spinato, tra cui passa e svolazza un nastrino tricolore (blu, rosso, bianco) della Repubblica Ceca.

Al centro della croce due date, su una targhetta: 1948 -1989. Su una lastra di porfido poggiata per terra, una scritta trilingue (ceco, tedesco, inglese) in lettere d'oro: "In memoria delle vittime del comunismo". Tutt'intorno sassi e, sopra, un paio di rose appassite insieme a garofani deposti da pietosi passanti; un'azalea sfiorita patisce in un vasetto di plastica; un cespuglio di ginepro orizzontale si protende verso una viola del pensiero.

Altro stile e vigore hanno le insegne colorate, i fantasiosi simboli dipinti su portoni e facciate di molti edifici, tra i sette ponti che legano Praga. Sembra di passeggiare dentro un libro illustrato, tra titoli di fiabe o poesie: Al cigno bianco, Ai tre violini, Al calice d'oro, Al leone rosso, Ai due orsi... Praga è un caleidoscopio di acque incantate dove schegge di musica e letteratura si contendono palazzi e birrerie: da Smetana, tra i salici, nella piazzetta lambita dalla Moldava, a Rilke, a Kundera, al presidente-scrittore Vaclav Havel, a Kafka.

La sua casetta natale, oggi mutata in libreria, non lontana dal Castello, da lui trasformato in romanzo, emoziona più del palazzo neoclassico U minuty (Al minuto) -cavalli e figure perlacee affrescate sull'intonaco grigio- dove lo scrittore, già grande, abitò per diversi anni.

Praga è un orologio astronomico dai magnifici quadranti, con statue di apostoli semoventi e sfilanti a ogni scoccare di ora. Tra i custodi fissi dell'eccelso marchingegno si distingue, maligna, la Morte: inganna il Tempo scuotendo con una mano un campanino d'oro e girando, con l'altra, l'urna che contiene i famosi bussolotti.

Praga è più città in una: Città Nuova, Città Piccola, Città Vecchia; c'è anche la Città Ebraica. Vi si accede da una strada molto trafficata, Parizska, fulcro di architetture liberty.

Lo scenario, però, in breve muta e, nel ghetto, si avverte 'qualcosa'. Come un soffio che, dai comignoli, scivoli sul selciato; e poi risalga, avvolgendo, insieme ai passanti, il Municipio, la Sala delle cerimonie, il Museo, il Cimitero, le sei sinagoghe.

Le pareti interne di una di queste, la Pinkas, sono interamente ricoperte con i nomi degli ebrei assassinati dai nazisti in Boemia e Moravia. Le fittissime righe nere, a migliaia, intercalate da caratteri rossi che dicono date e comunità di provenienza, sembrano lo spartito musicale di una sterminata sinfonia, specchio di un secolo più di altri tremendo. Nelle bacheche del vicino Museo, stanno esposti i disegni dei bambini deportati nel campo di Terezin. Furono capaci, quegli angeli, di immaginare nuvole rosa e fiori.

Il cimitero è selva di pietre e tronchi, terra e lapidi multi-stratificate, che ora si addossano, ora dirupano; ossame e calcinate radici; campo di cenere disseminato di dolmen ridotti ai minimi termini, simili ad arcaici, giganteschi denti di morti: in poco, pochissimo spazio, dodicimila tombe. La più antica è di un poeta, Avigdor Kara, 1439. Le ultime risalgono alla fine del Settecento.

Esse però -quasi il terreno fosse entrato in ebollizione, rialzando agli strati superficiali antiche lastre tombali- si trovano mescolate con sepolture di epoche anche molto remote.

Il personaggio più importante tra coloro che riposano (si fa per dire) tra queste mura è Rabbi Low, erudito e maestro, morto nel 1609. A lui è legata la leggenda della creazione del Golem (embrione, in ebraico), un automa di argilla in forma di figura umana, cui era possibile infondere la vita, quasi fosse un moderno robot.

La fama della sapienza e dell'energia posseduta dal Rabbino è ancora così diffusa che, ogni giorno, molte persone lasciano sulla sua tomba lettere e biglietti, con espressioni di gratitudine per i favori ricevuti, oppure con richieste di aiuto, conforto, consiglio.

Su una lastra di arenaria -sotto la quale si vedono foglietti piegati e chiusi con cura- qualcuno oggi ha attaccato un post-it giallo. Con grafia infantile, in stampatello, a lettere grandi, c'è scritta una sola parola: PACE, in italiano.

 

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