Germana Duca Ruggeri - Tutto compreso - 19/06/2023 - Pequod - 92 pp. brossura - Quaderni del peQuod
peQuod
vicolo del Solitario, 11 - 60121 Ancona
Presentazione
Presentazione 12/12/2023
Presentazione 12/12/2023
Posatora, parola arcana, da fiaba popolare. Luogo mitico più che reale. Il suono contiene già la sua essenza: punto di sosta, spazio dove il tempo rallenta. Riparo e frontiera, gente di passaggio, dolce fermata. Capolinea del tre, Piazza Padella. Con perimetro di case, casette, palazzi, scanditi a piano terra da piccoli negozi: il bar, l’alimentari, la parrucchiera, il calzolaio, la latteria. Al centro dello schieramento curvilineo, la chiesa rotonda di Santa Maria Liberatrice. Simbolo di un altro vivere, essa mantiene ancora l’aspetto dalmatico, l’intonaco bianco e San Giorgio con il drago sopra l’entrata. Chiusa da anni, senza più vicinato, sta lì come una rotatoria. A diramare il traffico. A sinistra si va nei quartieri nuovi o al Fornetto, a destra verso le Grotte, in bilico fra il mare e le terre mezzadrili. Menomate prima dal cemento, poi dal terremoto del 1972 e, dieci anni, dopo dalla frana scesa giù dal Ghettarello. Avanzata di erbacce e rovi, sul finire del secolo scorso, tra caseggiati deserti, orti, vigne, frutteti, campi soleggiati. Poi grandi lavori di demolizione, interramento macerie; movimento terra e suo consolidamento, lungo il fianco della collina. Ed ecco piantumazioni, panchine, aree attrezzate, arene. A comporre il Parco Belvedere, intestato a Eraclio Fiorani, pioniere dell’agricoltura biologica. Da lì la vista abbraccia la curva a gomito dell’Adriatico, con sopra Ancona, incoronata di luce levantina. Posatora trasformata, ma in fondo molto simile a quella che, intorno al Duecento, era tutta verdeggiante. Sembra che gli angeli, incaricati del trasporto della Santa Casa, vi si posarono, dopo l’impegno della traversata, scambiandola per il Lauretum, loro mèta finale. La sosta aiutò i trasvolatori, temprati dalle burrasche, ad affrontare con lena rinnovata l’ultimo tratto della traslazione. Metafora di civiltà nuove, con le ali. E con il trasloco tutto compreso. Forse il sogno di ogni migrante.
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Gualtiero De Santi – FERMENTI n°. 257 (2024) pagg.243-244 Prose lirico-narrative di una scrittrice di versi
Tutto compreso - impresso per i tipi di peQuod nel 2023 - è in piccolo prezioso libro di racconti elaborati da una poetessa, Germana Duca, che si muove sì su una linea lirica, specie nel rapporto con la natura, però mai rinunciando a una verve che dal personaggio centrale e da quelli che lo contornano si espande all’ambiente circostante e alle creature che lo abitano, gli animali domestici e una fauna non comune, persino un’aquila. “Tutto compreso”, o tutto comprendendo come ricorda il titolo, se lo si può interpretare in questo modo. Ma trattandosi di narrazioni lievi e quasi sempre identificabili con una vicenda personale, ha insieme peso una dimensione cronologica che muove dagli anni ’60 del secolo scorso per approdare ai nostri giorni. Un percorso attraversato da interferenze memoriali ed emotive che prospettano un’immagine pulsante e variegata, persino metamorfica, di una realtà che riposa sul raddoppio dell’esistenza - dell’io nel rapporto con gli altri, con una certa forma di famiglia e società - e di una personale ed intima interiorità. L’autrice, Germana Duca Ruggeri, come spesso si è firmata utilizzando anche il cognome del consorte, è un io narrante che oscilla tra una forma speciale di confessione e gli ulteriori incominciamenti narrativi. Con uno sguardo limpido e colorato che va a oscillare tra il reale e l’immaginario, tendendo a una frammentazione che è anche la moltiplicazione dei punti di vista (chiaramente esemplati nella ripartizione in capitoli), ma anche a una complessità volta a introdurre una nota di mistero nella percezione e nell’esposizione dei fenomeni naturali. Qui importa dire che Germana Duca è una poetessa che ha praticato, oltre che la scrittura in lingua, anche quella in dialetto, che non costituisce però l’elemento di congiunzione con il proprio passato pur restando uno strumento di identità. Originaria del capoluogo marchigiano, per altro citato nell’ispirato primo capitoletto (Posatora: «parola arcana, da fiaba popolare. Luogo mitico più che reale. Il suono contiene già la sua essenza: punto di sosta, spazio dove il tempo rallenta») e venuta in appresso a vivere ad Urbino per ragioni familiari, si è confermata indisconoscibilmente nel legame tra la lingua locale e quella nazionale, non considerando la prima un viaggio nell’esilio e la seconda una sorta di spirale puramente prospettica per quanto sorretta su un fondamento letterario. Viceversa, con la costanza di un’espressione quanto più misurata e accurata, ha attraversato in lungo e in largo i diversi confini, fissando anche una congiunzione tra espressione poetica e una conoscenza perfezionata nel lavoro critico (che anche i lettori di “Fermenti” hanno a suo tempo avuto modo di conoscere). Adesso, questo libro in prosa situa nel riverbero dell’autrice di versi una serie di questioni che diremmo appartenenti alla persona ma anche alla natura e al respiro della poesia. Fatto sta che Tutto compreso è sicuramente una sorta di journal ma insieme un testo che aiuta l’espansione delle idee e della riflessione: dove il quotidiano bracciantato della comunicazione per versi apre una finestra importante in una sorta di orizzonte vivace e multiplo. Ma poi, la cosa che più colpisce nel volumetto di Germana Duca è una figurabilità della natura che nel suo espandersi ricorda anche autori del centro Europa (penso ad esempio a un Ernst Jünger, quello di Gärten und Strassen). Con però una ben diversa letizia e senza mai annullare il sottofondo personale e biografico. Il tutto infine si traduce in una dimensione concertante, musicale, in cui come è scritto in copertina si fondono eventi e fantasie, visibile e invisibile, sogno e coscienza, (g. d. s.)
Dal 1° risvolto di copertina Sprazzi di esistenze in tempi e luoghi diversi animano questi racconti di Germana Duca, lascito — anche linguistico — di piccoli o grandi eventi legati alla sua biografia. Per come sono scritti e per la loro esemplarità, essi arrivano dritti al cuore. Chi legge si può riconoscere in ciascuna vicenda e nell'insieme dell'opera - simile per natura, un giro di giostra fra "nomi scagliati ra, verso l'infinito" e continui mutamenti. A renderli accettabili la fiducia nella bellezza della vita. Quell'onda che, come ogni amore e ogni narrazione, non si sa da dove venga, ma sempre dona speranza. Il realismo magico di molte pagine, popolate di alberi, animali, persone, contribuisce a connettere fatti e fantasia, visibile e invisibile, sogno e coscienza.
Nella vita è “Tutto compreso“ come racconta Germana Duca di Marcellina Zanchi link esterno all'articolo del Resto del Carlino (clicca) Sarà presentato martedì 12 alle 16,30, nella Biblioteca del Duca nel Palazzo Ducale di Urbino il volume di racconti "Tutto compreso" (peQuod, 2023) di Germana Duca Ruggeri, che dopo aver riscosso numerosi premi di poesia si dedica alla narrativa offrendoci pagine di rara delicatezza, come le immagini evocate in “Posatora“ con vista su Ancona, ritratto di un luogo "metafora di civiltà nuove, con le ali" passando poi dal tempo reale alla leggenda: la Santa Casa trasportata dagli angeli, come "il sogno di ogni migrante", avere un luogo amico dove fare una sosta, prima di ripartire, intrecciando rapporti umani nel tempo della civiltà contadina, raccontati in “Un arco di vita“. Descrizioni minuziose, parole scelte con cura come quelle della piccola Ada: la meraviglia per un mondo fiabesco, un viaggio pieno di scoperte in una casa di signori. Riflessioni sulla vita, la morte, gli affetti e su quello che resta quando "Il cuore è un pugno di terra che trema" con escursioni degli stessi occhi a confronto con la storia recente del paese in "Dodici giorni a Milano", quando dopo il 12 dicembre 1969 "nulla sarebbe stato più come prima" e l’urgenza di tornare alle colline del Montefeltro, al ragazzo che l’aveva baciata prima di partire, in luoghi dove la vita non conosce sussulti se non nel privato, in simbiosi con la campagna e i suoi animali. Aria di festa, sensazioni condivise, mentre si prepara assieme il pranzo di ferragosto con il vergaro e la vergara, affaccendati e felici, ascoltando racconti antichi davanti al buon cibo, discutendo del tempo che vola, come una celebrazione tra gli abitanti di ieri e quelli di oggi, uniti da "La stessa idea della vita" nel rispetto di chi, prima di noi, ha abitato la stessa casa a San Cipriano, nei dintorni di Urbino. Quadretti teneri sul legame affettivo tra animali e padroni, canti alla natura e alle sue meraviglie che danno forma e vita alla natura e alle persone, offrendo un’anima, ora sofferente, ora grata. Una musica della natura che si accompagna alla serie finale di storie simpatiche, in italiano e in dialetto urbinate. Infine la madre perduta, Gioia, pensata con nostalgia ricordando il suo messaggio finale, udito a Parigi: "Siamo nomi. Nomi scagliati verso l’infinito. Siamo solo questo...". A dialogare con l’autrice e il pubblico sarà il giornalista Tiziano Mancini, mentre il Gruppo di Lettura della Biblioteca San Girolamo leggerà alcuni brani tra una domanda e l’altra. Marcellina Zanchi
Gioia diceva di avere incontrato la madre, persa quando era bambina, non solo nei sogni ma anche dal vero. E se Daria, sua figlia, le chiedeva di raccontare lo faceva con grande trasporto: - La prima volta l’ho vista alla fiera. Era ferma davanti a una banca di fiori. La testa castana, pettinata come nella fotografia: ci siamo guardate, ha sorriso. - Poi? - Poi più niente. È svanita. - Alla festa dell’Albarice, invece? - Era in processione, a pochi passi da me. Ho riconosciuto la voce, cantava Mira il tuo popolo... Mi sono girata, ed eccola lì! - Ti ha detto qualcosa? - Macché! E’stato un momento. Una goccia su un vetro. Solo una forma. Daria sembrava perplessa: - Smettila, mamma. È la tua immaginazione.
-
È verità! - lei l’ammoniva:
- E può capitare sette volte nella vita. Ogni persona ha sette
sosia, non lo sai? Quella trovata materna dei sette sosia si riaffacciò al pensiero di Daria quando Gioia a sua volta scomparve. Perché non sperare di rivederla?
Se non intera almeno un soché, un dettaglio. Le
sarebbe bastato rintracciare la fronte, densa di opposti pensie- Ma la vita reale, nel giro delle strade di Ancona, lontana dalle moltitudini, con incontri prevedibili, non offriva granché. Così, spesso Daria ricorreva alla televisione. Viaggiava col telecomando di canale in canale, giorno e notte, per ore, non per capire o sapere, ma per guardare le facce infinite che lo schermo racchiude. Con la fermissima fede di scoprire prima o poi, se non sette, almeno una attendibile sosia di Gioia. Speranza regolarmente delusa: tra film e talk-show, soap-opera e spot, dirette, giochi a quiz, concerti, televendite, festival e tiggi, della madre neanche l’ombra, quasi si fosse estinta, con lei, un’intera specie di donna.
La figlia ormai dubitava di fare l’incontro
felice. Daria riprese a sperare in occasione di una breve vacanza, gli ultimi giorni di ottobre, a Parigi. Sui metrò, alle frequenti fermate, tra la gente a fiotti in entrata e in uscita, o forse lungo la Senna, in mezzo a barbone e clochards, ma meglio ancora al Louvre, al Museo d’Orsay, dinanzi a figure e volti ritratti da artisti famosi, chi lo sa, avrebbe potuto avere fortuna. Nelle sale dei musei parigini, Daria fu toccata in realtà da molte emozioni. Poteva benissimo appartenere alla madre la candida schiena della donna in turbante, nel Bagno turco di Ingres. Sua era senz’altro la fronte, e suoi i capelli e il sorriso della Gioconda, inconsapevole di lei e dei mille devoti che le si assiepavano intorno. A Gioia si era certamente ispirato Manet per il bianco nudo del Déjeuneursuri’herbe.
Daria indugiava su tali pensieri, implorando un
più tangibile segno. E la madre, finalmente toccata, glielo volle inviare, quel segno. Fu l’ultima notte di ottobre. Il pullman del tour Paris la nuit svoltava ora qua ora là, imboccando strade su strade, nel buio scintillante di luci, per restituire i diversi turisti, ormai vinti dal sonno, agli alberghi. Solo Daria, ostinata, invece di abbandonarsi sul sedile, continuava a inseguire dal finestrino i rari passanti e la sfilata delle insegne multicolori. Faceva il possibile per leggerle tutte, senza saltare una sillaba. Come accadeva da bambina quando la madre, rare volte, sospeso il lavoro dei campi, la conduceva in città. Poteva essere la tarda estate, ma anche un principio d’autunno. Con occhi svagati, Gioia diceva: “Ti porto al Passetto. Andiamo a vedere la bellezza del mare...” Col filobus numero tre, da Posatora, scendevano alla Stazione per prendere l’uno, che le portava in cima al Viale. Lasciato il Monumento alle spalle, si inoltravano fra pini e panchine, verso la scalinata dell'Ascensore. Salivano insieme sulla terrazza più alta, nell’aria celeste, ridendo se la brezza le spettinava, o alzava a ruota le loro sottane.
Lassù respiravano il salmastro, in silenzio,
finché non le distraeva un più largo suono di onde, un’acqua
intrisa di luce. Daria ancora indugiava sull’orizzonte adriatico, quando fu riscossa da una improvvisa frenata del pullman. L’autista, senza apparente spiegazione, si accostò al marciapiedi, spense il motore e rimase al suo posto, muto per diversi minuti, nel disappunto generale: nessuno capiva il motivo di quella sosta forzata. Nemmeno Daria, inizialmente. Poco dopo, però, fu proprio lei, guardando oltre il finestrino, a vedere la verità, la verità rivelata! Una scoperta abbagliante che la lasciò attonita, folgorata. A un palmo dagli occhi, lì fuori, - perché non poteva gridare? - c’era Gioia, sua madre. La tenera Gioia, intera. Estesa e distesa, campeggiava sulla facciata di un palazzo, sopra il verde oltremare di una saracinesca abbassata, con la sua forma italiana, in corsivo: Gioia, stampata in avorio, in caratteri fini. Daria bevve a piccoli sorsi l’iniziale maiuscola e ciascuna vocale, quasi fossero crome e biscrome di un canto, battere e levare in punta di cuore. - Che ci fa il suo nome a Parigi? Chi l’ha scritto per me? - Ora è qui che lei tiene negozio? - si chiedeva incredula. E continuava a contemplare le cinque lettere belle, il desiderio in parte appagato, ringraziando Dio nella notte di Francia. Sopra l’inquieto parlottare degli ignari viaggiatori, a Daria sembrò di udire la voce della madre: - Siamo nomi. Siamo solo questo. Nomi scagliati verso l’infinito... Voce cara, sillaba di rivelazione. Voce amata. Seme di compassione, labbro di umanità. Eco di un cosmo di parole: siamo nomi, siamo solo questo. L’autista intanto, riacceso il motore e imboccato l’ultimo boulevard, al microfono annunciava l’hotel MercureMontmartre. Il cuore di Daria, chissà perché, continuava a tintinnare come un calice vuoto contro il vetro del finestrino.
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