Maria Grazia Maiorino: romanzo,
RACCONTARE L'ALZHEIMER |
Affinità Elettive Edizioni, 2018 |
Da risvolto di prima copertina
Chiara sta dimenticando il suo passato. Dove sono le chiavi di casa, dove gli occhiali? A mandare nell'oblio gesti abituali, luoghi e nomi è l'Alzheimer. Ma un nome lo ricorderà sempre: quello di Tiziana, sua figlia, la quale registra tutto nei suoi diari. Per lei la scrittura diventa una necessità e un conforto. L'arrivo delle badanti polacche, la decisione sofferta del ricovero in una casa di riposo, il presente che si sgretola, le ore regolate dai rigidi schemi imposti dalle istituzioni, le gioie e i dolori di una vita intera; ma anche incontri casuali, richiami della natura, libri, coincidenze e sogni... Esiste in questa storia un'aria lieve tra le parole, stranamente leggere, che raggiungono una pienezza singolare, un volo pieno di grazia e discrezione verso il mondo altrui: Tiziana si pone in ascolto, senza altri confini che la fiducia in una serena corrispondenza. L'azzurro dei giorni scuri è una lunga lettera d'amore alla madre ritrovata; un'esperienza intensa, umanissima, continuamente sfiorata dal mistero. Consigliato da: Federazione Alzheimer Italia, Associazione Goffredo De Banfield, Biblioteche della Provincia di Reggio Emilia. È inserito nella bibliografia di medicinanarrativa.eu e in P. Taccani, M. Giorgetti (a cura di), Lavoro di cura e automutuo aiuto. Gruppi per caregiver di anziani non autosufficienti, Franco Angeli, 2010.
Quarta di copertina «Più che la storia del decorso fatale di una malattia devastante e inesorabile, il libro finisce per essere il diario di una esperienza di ascolto, la registrazione misurata e profonda dell'incontro di una coscienza con il mistero di ogni alterità e l'assunzione di responsabilità che ne deriva». Antonio Luccarini, Il Messaggero «Scritti come il suo, oltre ai meriti della scrittura (agile, intensa, asciutta), contribuiscono a sfatare i molti pregiudizi che avvolgono il tempo ultimo della vita». Duccio Demetrio «L'Autrice cerca di difendere strenuamente sua madre e se stessa quando la malattia e l'incomprensione la minacciano. La sua via d'uscita, la ricerca di una salvezza personale, passa attraverso la cura affettuosa alla madre, la riconoscenza a chi le sta vicino e, non ultimo, il ricorso alla scrittura». Pietro Vigorelli «Messaggio in filigrana di umanesimo cristiano, lettura importante che coinvolge e commuove perché le protagoniste, con autentica presenza di spirito, insieme a chi le aiuta, animano quella "società stretta", avrebbe detto Leopardi, dove l'attenzione accogliente di sé e dell'altro, la confidenza, l'amicizia, esistono davvero». Germana Duca Ruggeri, l'immaginazione «E così è, noi tutti lettori amiamo Chiara. La sentiamo vicina. Come Isabel Attende è vicina alla sua Paula morente così Tiziana è vicina a Chiara. (...) È la stessa sorte a legare la Attende e Maria Grazia. Sono questi due romanzi fortemente autobiografici e pieni d'amore. Dove possiamo trovare una via crucis che le due donne vivono. Una per la figlia, una per la madre». Serena Dal Borgo
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Presentazione del Dott. Pietro Vigorelli www.formalzheimer.it/il-presidente/ “Questo libro è un’opera d’invenzione”. Dietro questo pudico paravento si svela un libro autobiografico in cui l’Autrice, figlia di una malata Alzheimer, ripercorre fedelmente la propria vita e quella della mamma, Chiara, durante i suoi quattro anni di malattia. Vengono descritti gli accadimenti, ma soprattutto i sentimenti che li accompagnano. La Maiorino è un’osservatrice attenta e profonda e sa descrivere ogni evento riuscendo a farcelo partecipare. Scrive in modo personale e insieme avvincente, con un suo stile essenziale in cui il discorso diretto si integra con quello del ricordo, senza punteggiatura, in modo da rendere le parole più penetranti. Anche se sono tante le persone-personaggi incontrate nel corso degli anni e tratteggiate nello svolgersi del racconto, quello che emerge è un senso di solitudine della figlia di fronte alla fatica dell’assistenza alla madre. La sensibilità dell’Autrice è spesso ferita dall’indifferenza e dall’inefficienza dei medici e del personale curante. Solo qualcuno si salva: il dottor De Luca, Marisa che l’assisterà fino alla fine, l’educatrice Francesca, il dottore della rianimazione con gli occhi di chirghiso. L’Autrice cerca di difendere strenuamente sua madre e se stessa quando la malattia e l’incomprensione la minacciano. La sua via d’uscita, la ricerca di una salvezza personale, passa attraverso la cura affettuosa alla madre, la riconoscenza a chi le sta vicino e, non ultimo, il ricorso alla scrittura: “Ti prometto, Chiaretta, che racconterò la tua storia, che tu vivrai nel nostro ricordo, che altre persone ti conosceranno e ti vorranno bene”. “Continuerò a riempire pagine bianche. Saranno loro a farmi
compagnia. Oggi penso che non si dovrebbero lasciare le persone in
mezzo a un vuoto così grande, non è giusto, però non ho voglia di
chiedere aiuto”. Dott. Pietro Vigorelli |
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Presentazione Dott. Pietro Vigorelli |
Testi scelti |
TESTI SCELTI
PRELUDIO
Il preludio dell’album è un coro. Il coro è la famiglia patriarcale del “Signor da Losego”. Così era chiamato Vittorio, il nonno di Chiara. Egli abitò per tutta la vita nella casa che si trova al centro del paese, dove la fece costruire suo padre Giacinto. Un edificio di due piani, l’intonaco color giallo spento ravvivato dai profili candidi, freschi di restauro, delle finestre, della fila di oblò sottotetto, delle lesene ai lati del portone sormontato da una mensola che porta inciso il nome Giacinto. Uno spazio silenzioso, quando non è tempo di villeggiatura e le imposte rimangono chiuse, separa l’edificio principale dalle costruzioni aggiunte: le stalle sul retro, il cortile davanti delimitato dai muretti di sasso e dall’unico forno del paese, dove i contadini portavano a cuocere il pane, lasciando come obolo un “panét”. Di fianco, sul lato opposto alla strada, si apre l’arco d’ingresso della “tiéda”, il ricovero del biroccio, che nonno e bisnonno usavano per andare a Belluno. Nonno Vittorio e nonna Marietta avevano tredici figli. La foto è stata scattata in occasione delle nozze d’oro. Venticinque novembre 1939.1 bambini formano la prima fila, seduti a terra, chi vergognoso, chi spavaldo, calzettoni, cappotti, mani che si appoggiano alle gambe unite o incrociate. I più grandi accennano un sorriso. Gli adulti, tutti in piedi, seri, con le spalle ben diritte, i cappelli, gli abiti della festa, formano la seconda fila; la terza fila si fa largo tra le teste, spuntano timidamente volti femminili e spicca fra le donne la sagoma imponente della mamma di Chiara. Né Chiara né la cugina Lina sono nella foto. La coppia dei vecchi è in mezzo a due sacerdoti. Solo loro quattro sono seduti, al centro del gruppo. Nonno Vittorio ha i baffi bianchi e tiene in mano la bagolina di canna. Nonna Marietta ha il fazzoletto nero in testa, legato sulla nuca secondo l’usanza delle contadine; l’espressione energica, grave, è resa più accigliata dalle rughe. Chiara mi raccontava orgogliosa che il nonno Vittorio era per tutti un’autorità: ci si rivolgeva a lui perfino per raccomandare le anime quando il prete non poteva recarsi al capezzale dei malati. La fotografia è un monumento dell’Italia contadina. Ha la stessa compostezza del paesaggio che aleggia invisibile sullo sfondo. Punto d’arrivo di quasi mezzo secolo di storia, una guerra mondiale, le campagne coloniali, il fascismo, le malattie, la miseria, l’emigrazione quando la terra non bastava. Fissa un traguardo e un bilico, prima dello sfaldamento. Palco- scenico al quale gli attori si affacciano tutti quanti insieme e, dopo, lo spettacolo non sarà mai più lo stesso.
ORECCHINI AZZURRI
Una foto di donne che mi fa pensare agli studi leonardeschi della Madonna con Sant’Anna. Chiara è in piedi, appoggiata al tronco di un albero, una mano alla tracolla, elegante nel tailleur verde militare, i capelli biondi ondulati, lo sguardo distante. Le altre, sedute sull’erba, fanno gruppo a sé. La nonna vestita di scuro, le gambe allungate, il viso serio, l’atteggiamento protettivo verso la bambinetta seduta vicino a lei, tutta presa a scrutare un fiorellino tenuto fra le mani, il ciuffo di capelli neri fuori della cuffia, i pantaloncini corti. La bambola di pannolenci vestita di rosa, la Tina, è lì seduta anche lei, a completare questa maternità senza abbracci. La figlia è nel cuore della scena, ma è la madre ad attirare su di sé gli occhi di chi guarda: alta e svettante in un suo cielo, come l’albero dalla chioma nascosta. Questa fotografia Chiara la teneva in camera sua. Ora è diventata la foto più cara, dove riconoscere ogni volta qualcuno come fosse sempre la prima volta. Guarda – mi dice – la mamma! Il suo punto fisso, la figura più importante, inconfondibile. Nell’immagine di se stessa certe volte vede me, che ho l’età di sua madre allora. Tu eri così piccola… Dal gesto che fa con il pollice e l’indice Chiara sembra credere di aver avuto realmente una figlia piccola come quella della foto. Desiderio? Incapacità ormai di distinguere la realtà dalla sua rappresentazione?
8 maggio 1994 L’album delle fotografie. La memoria trova appigli antichi, sicuri: ai visi vengono associati nomi che non si pronunciavano da tempo, i luoghi sono riconosciuti, familiari anche se l’ultimo ritorno risale a diversi anni fa. Nomi e luoghi ancora capaci di dare vita a frammenti di storie, che formano la trama della propria. Non è l’anamnesi chiesta dai medici, nudo susseguirsi di morti e malattie che la memoria non è più in grado di sostenere, e cancella, dando l’impressione di cancellare ogni cosa. Sono i tasselli dei quali ha bisogno il sentimento di sé, per consolarsi di essere stato diverso, per ricordare giovinezza, maternità, bellezza, genitori, amori, città. Quando completo una frase, un proverbio, aggiungendo la parte mancante, con la stessa intonazione, con un vezzeggiativo, una parola in dialetto, mi sembra di dare l’imbeccata a un uccellino; divento una parte insostituibile della sua lotta per esserci, nonostante tutto. Il lessico familiare come pagina. La pagina rimasta vuota in ospedale. Non ti sentire abbandonata. Quando ti senti abbandonata pensa che ci sono io ad aiutarti. Ma quando non mi ricordo più niente come faccio a non sentirmi abbandonata? È possibile dimenticare di poter contare su un figlio, perdersi completamente andando alla deriva anche dagli affetti. Tocco che cosa significa lo smarrimento. In chiesa. Non ci ero mai stata insieme a lei. La messa è una cosa certa: i punti fermi delle preghiere, dei canti, delle risposte, la scansione regolare dei vari momenti. Sentirsi uguali agli altri. La voce esce sicura, le parole sono dette insieme, ma con la prontezza di chi le sa e non si limita a seguire. La mano cerca le monete nel borsellino per l’offerta. La mano stringe quella del vicino nel gesto della pace. L’ospedale può far impazzire di dolore con la sua indifferenza verso l’individuo. La prima difesa è dimenticare. Fuggire. Ritrovare la casa. Le strade. La chiesa.
12 maggio 1994 In ospedale. La novità del luogo cancellata. Intravisti appena i vicini di letto o additati come nemici: le hanno rubato qualcosa di suo, la stringono d’assedio, durante la notte fanno cose terribili. Accuse. Stupore. Rabbia. La casa invocata come ritorno alla normalità. Come il cibo, i piccoli riti quotidiani, le facce della gente conosciuta, il proprio nome sentito pronunciare in un saluto. Dolcemente. C’è una vecchia, di fronte a lei, consumata. Non mangia quasi più, quando le spostano l’orario della cena a causa delle trasfusioni, protesta vivacemente non per il cibo, ma per il disguido. Gli animali non amano i cambiamenti. Gli animali vanno a nascondersi per morire. Nella stanza d’ospedale ci sono occhi dappertutto, ti scrutano, non ti lasciano in pace. Aghi ti pungono. Cannule e tubicini ti imprigionano. La tua identità cambia appena entri. O sei il malato o sei il parente. Comunque un 14 15 subordinato, uno che deve agire con cautela, adattarsi al ritmo di leggi sconosciute. Nemmeno l’aria che respiri assomiglia più alla solita aria. È malata, prigioniera come ogni altra cosa lì dentro. sasét giaz gusèla ciodo cavéi tola cesa tosàt tosatèl campedèl pare mare mazaról pan picenìn sántol parón cótola ciácola caréga morósa géscol pèrsego osèi prà… Ho cominciato a scrivere file di parole in dialetto bellunese, ho riascoltato scrivendole il suono, le ho trasformate nei loro diminutivi, vezzeggiativi. Madre si dice mare. È come se lo scoprissi oggi. Mi sono “staccata” di nuovo da lei e solo da questa posizione mi accorgo di quanto sia stata coinvolgente questa brevissima malattia. Il suo corpo così lontano, sempre coperto da strati di lane. Irraggiungibile. Sfuggito. La malattia rimescola le carte, costringe a fare gesti di solito rimandati: spalmare la crema sulla pelle inaridita delle gambe, pulire le unghie con il limone, ungere con il Reparil i lividi lasciati dagli aghi della flebo sulle mani e sulle braccia, toccare il rilievo delle vene. Ricordare, afferrare ancora le forme di un corpo che non ha dimenticato la sua bellezza. Quali sono oggi le cure date a quel corpo? Luccicanti orecchini a clip di bigiotteria, grandi, rotondi, acquamarina e metallo dorato. Piccole ancore alle quali attaccarsi per uscire. Lo stesso azzurrino dell’ombretto dato sulle palpebre, sfumato o sbavato intorno agli occhi, con tocco non più esperto. Ma rimangono il gesto e l’azzurro, il colore che ha sempre accompagnato il biondo dei capelli e il chiaro degli occhi. Il suo colore. Il vestito d’angora pervinca. Gliel’ho lavato e restituito un po’ malvolentieri perché è ormai sciupato e da smettere. Lei l’ha preso come un bambino stringe a sé il suo péluche ritrovato. Nessun abito nuovo avrà il potere del vestito-péluche. Esso appartiene alla vita, quella di prima. Ha una storia, l’abbiamo comprato a… ti ricordi? La storia a volte la completo io, le spese venivano fatte quasi sempre insieme, non abbiamo mai avuto così tante cose da dimenticarne la provenienza. Una sciarpetta di viscosa a fiori, un fiocco stretto intorno al collo, un basco di morbido feltro celeste, il cappotto bianco. Siamo arrivati alle porte dell’estate e lei non osa togliersi il suo guscio. Mi chiedo se ce la farà ancora una volta. Il suo corpo di nuovo lontano, incapace di farsi accarezzare dal sole. Io sto bene con la gente! L’uscita del mattino, da sola, per andare a fare la spesa. È la guerra quotidiana per le poche cose indispensabili, il cui acquisto scandisce il ritmo di ogni giornata. Eliminati a poco a poco cibi da cucinare, fiori a cui cambiare l’acqua, panni da lavare e stirare, vetri da far tornare trasparenti, tendine da rinfrescare. Perduto l’interesse, neanche l’occhio sembra più vedere. La vista è perfetta ma non si posa, come l’udito. Ci sente benissimo, ma ascolta sempre meno. Parlare parlare. Ciacole. Continuerebbe a farlo, giorno e notte. La fatica più grande nello starle vicino è questo filo continuo: ti avvolge, ti avvolge e non ti lascerebbe più spazio se non ti sottraessi a lei. Mi chiedo se ci sia un legame con Belluno, con un mondo di donne soprattutto, fatto di un continuo ciacolare insieme. Ripenso a mia madre e alla zia Lina, quando io ero piccola e trascorrevo la mia infanzia con le loro ciacole come sottofondo. L’incontro casuale con una persona raccontato con il massimo di gioia e di durata possibile. Quasi ne sono gelosa. Io rappresento l’abitudine. L’estraneo è il “di più”. L’ incontro può riempire la giornata, essere raccontato tante volte, moltiplicandolo. È l’illusione della normalità, per cui affronta il rischio quotidiano di vivere sola.
1 giugno 1994 La fantasia della sua morte ogni volta che c’è un disguido, ogni volta che non risponde al telefono o lo lascia fuori posto. Noi due non abbiamo mai parlato seriamente della morte. Qualche battuta scherzosa, mettetemi a Pietralacroce perché a Tavernelle c’è troppa gente, anche il dottor De Luca dice così! Un proverbio bellunese, di quelli che rispuntano puntuali nelle varie occasioni: un conto l’è parlar de morte e un conto morir. La morte è stata sempre rimossa, come la vita nei suoi aspetti più “forti”, non so, la sessualità, la nascita, il dolore fisico. Penso al racconto sul parto in casa della zia, a Potenza, che nel mio ricordo infantile ha al centro lo svenimento di Chiara e il suo bisogno di cure da parte della levatrice. O alla reazione avuta quando, nella casa di campagna dove ero andata a vivere con Giulio dopo la separazione, le mostrai i dieci cuccioli appena nati del pastore tedesco Cina, e lei disse che le facevano impressione, mentre per me erano la cosa più bella del mondo. Eppure mia madre, a differenza di me, ha fatto nascere e visto morire… Non sopporto il pensiero che possa morire da sola, senza ricevere aiuto né da me né da nessun altro. Questa notte ho sognato che vedevo insieme al mio compagno (era poi Giulio?) una vecchia foto, grande come una diapositiva proiettata sull’intera parete, con l’effetto di una scena vera, dove io abbracciavo e baciavo ardentemente mia madre al mare, in mezzo all’acqua. Lui era colpito, incredulo, io scherzando ho pronunciato la parola incestuoso e l’ho abbracciato per rassicurarlo che ero tutta per lui. La foto sprizzava gioia, passione, estate, acqua, calore, insolite cose nelle mie scene familiari. Infatti subito dopo lei era a letto malata in casa di una zia e io cercavo rose da portare a tutte e due. Ricordo di aver vissuto la sua prima grave malattia, dieci anni fa, come lo spezzarsi di un ritmo dentro di me. Il dolore aumentava al momento di addormentarmi, diventando insopportabile. Mia madre dormiva da noi, che abitavamo in un appartamento ammobiliato dopo la stagione felice della campagna. Giulio la sera suonava la chitarra e ci cantava Buonanotte fiorellino. Quella canzone è per sempre legata alla sua capacità di lenire, come se raccogliesse in sé antiche ninnananne dimenticate. Il canto oggi è uno dei pochi momenti di serenità insieme. Mia madre ritrova uno sprazzo della sua vivacità di un tempo, soprattutto quando canta la Canzone del Piave: ogni volta le fa rivivere un’emozione che la rianima tutta, e si trasmette a chi è con lei. La sua è un’interpretazione accorata, assomiglia a un ritorno. Anche la memoria ritorna, le parole, la melodia, l’espressione del viso, e un lampo negli occhi come quando riusciva ancora a raccontarmi: da noi a Belun Al Piave se ’l cantea in césa. Ora il canto riesce ad arrivare dove non arrivano le semplici parole. Il mio repertorio alla tastiera è limitato, ma sono soddisfatta di strimpellare qualche canzone.Chiara continua a ripetere che sono stonata come lei e parteggia apertamente per Giulio. Se non ci sono le “sue” canzoni, se non c’è lei al centro, si distrae, prende un giornale, lo sfoglia, torna alla carica con le solite domande, insomma finisce il momento magico, il nostro tentativo di musicoterapia.
DALLA PARTE DEL MARE
Un angelo biondo in tailleur nero attillato passa per le vie del paese. È il giorno della visita di De Gasperi. Primi anni cinquanta. Non so chi le scattò quella foto, da cui si dipana con fatica il filo dei ricordi. Il sud continuamente rimosso, come una sconfitta. Una mancanza. Lei ci arrivò la prima volta attraversando con mezzi di fortuna l’Italia distrutta dalla guerra. Macchia rossofiamma e biondochiaro nel nero del sud. Subito fuori luogo, troppo diversa dalle donne del paese per essere accettata. Subito forestiera. Cerco di immaginare come potevano apparire ai suoi occhi le strade dove passavano maiali legati da una cordicella, asini carichi di ceste, i cavalli con i pennacchi delle carrozzelle non ancora sostituite dall’unico autobus, che faceva servizio dalla stazione al centro del paese. Dove donne dai lunghi scialli scuri camminavano diritte tenendo in testa sul cercine giare di terracotta e grandi panelle fatte in casa e portate a cuocere al forno. Trecce puntate intorno alla testa, unte d’olio, rifatte di tanto in tanto fra comari del vicinato. Madri che spidocchiavano i figli sulla soglia di casa. Pomodori stesi al sole sui marciapiedi, fichi aperti a seccare, nugoli di mosche dappertutto. Il nonno grande invalido di guerra, il palazzo rivestito di pietra, gli scalpellini che battevano, la rivincita sulla miseria dei bassi, dove uomini e bestie dormivano insieme. I nostri mobili accatastati nella camera da letto, i vasi di gerani subito rubati, il pane bianco, la luce troppo fioca, mio padre che faceva il pendolare e tornava il pomeriggio da Potenza, il circolo, gli amici, le nostre ore vuote. La casa-rifugio era quella di zia Dina, la moglie veronese di un fratello di mio nonno, anche lui ritornato invalido dal fronte. Camminava aiutandosi con due bastoni e portava un cappello con il paraorecchie estate e inverno. Si scendeva dal corso, la grande cucina si affacciava direttamente sulla scalinata, c’era sempre qualcuno in visita. La zia aveva mantenuto l’accento veneto, la vedevo accudire il marito, sempre premurosa e servizievole come una brava infermiera. Una specie di santa. Senza età.
Gruppo di donne in primo piano sedute intorno a un tavolino rotondo, metallico, come le sedie con finta impagliatura di plastica. Di mio padre e mio zio, sullo sfondo, si vedono solo le teste, e di un altro uomo, lateralmente, una mano che tiene una sigaretta. Anche tre delle donne stanno fumando, la sigaretta fra le dita o le labbra, lo sguardo rivolto verso l’obiettivo. Si assomigliano. Sono nella sala del circolo cittadino, indossano gonne longuette abbinate a maglie appena scollate o abiti interi guarniti con larghe sciarpe di lana, lavorate all’uncinetto, appoggiate sulle spalle. Le bocche disegnate dal rossetto, qualche accenno di sorriso, gambe accavallate, scarpe nere con il tacco alto. Scruto il viso di Chiara, cerco i suoi colori nel bianco e nero della fotografia: la sua espressione mi sembra triste, forse tutte sono prigioniere di un loro mondo separato, ritagliato in interni, cure domestiche, visite con bambini al seguito, chiacchiere, complicità, segreti, e in mezzo silenzio, come qui, sospeso, immobile. Quali erano i pensieri di mia madre quella sera di carnevale, quando aveva trentaquattro anni e io otto, e tutto assomigliava così poco a quello che avevamo lasciato? I caffè in piazza, i tavolini all’aperto, e la musica d’estate, le sale da tè rivestite di legno con caminetti e quadri, ma soprattutto gli appuntamenti quotidiani all’ora dell’aperitivo e a metà pomeriggio. A Belluno amici e amiche, conoscenti, magari era solo una battuta scherzosa, un saluto, un darsi appuntamento per un’altra occasione, ma nel mio ricordo c’è allegria nella piazza, ci siamo noi bambini che ci rincorriamo, che ci nascondiamo sotto i portici e giochiamo a “sassetti” o a “campanòn” vicino alla grande fontana rotonda dei giardini. La piazza di Melfi, dove si affaccia il circolo, non ha tavolini all’aperto, i bar sono riservati agli uomini, che se ne stanno in piedi, dentro o fuori, a capannelli, soprattutto la sera e la domenica mattina. C’è la carrozzella ferma, e la spavalderia di fare lo “struscio” con il primo corteggiatore. Mio padre sapeva cantare. Quando intonava una canzone la sua profonda voce baritonale improvvisamente si addolciva stemperandosi nella melodia di Signorinella pallida o Piccola santa, come si sintonizzasse a sua insaputa su una stazione diversa del cuore. Se potessi riascoltarla anche solo per un attimo potrei afferrare un sicuro frammento del mio padre sconosciuto. Mi limito a registrare la sorpresa, oppure no, era lo stesso padre capace di gesti affettuosi, di una tenerezza che i genitori non avevano potuto avere per lui; di lettere d’amore spedite a Belluno, che Chiara leggeva e rileggeva commossa e grata alla lontananza. Una volta che ero a letto malata mi regalò un’enciclopedia degli animali in due grossi volumi rilegati. Non so se fu un caso, una di quelle offerte fatte negli uffici, o se era un implicito messaggio di attenzione. Ci ha messo molto tempo, ma è arrivato. Il mondo animale mi ha conquistata e mi piace pensare che sia stato anche merito suo.
6 febbraio 1996 Ora il viaggio è lungo la costa. Andando a Senigallia posso vedere il mare ogni volta, le case delle vacanze tutte chiuse, giardinetti coperti da teli di plastica, la ferrovia a ridosso della riva. La sera della vigilia, prima di addormentarmi, un’associazione mi ha attraversato la mente: il mare del sogno, fatto prima che mia madre entrasse a Villa Negri, e il mare ritrovato a Senigallia. Non lo so se è una forzatura, ma ho trovato un po’ di conforto. E le immagini di quel bellissimo sogno continuano a tornare e a sovrapporsi a quelle reali, cercando punti in cui combaciare… Questo complesso di edifici, che ha la solidità armoniosa delle costruzioni ottocentesche, si trova in mezzo alla città. Non ho più l’impressione dell’isolamento. Le strade corrono diritte, intersecandosi, fino al mare, che è vicino e si sente nell’aria. I gabbiani volano sopra le case. Camminavo lungo una passerella, un ciglio, nel sogno: mare quieto, di porto. Rose. Le suore indiane hanno pelle e capelli scuri che contrastano con l’abito bianco, semplicissimo, e grandi sorrisi. Sono giovani, sembrano aprire con la sola presenza spazi più grandi. Vorrei che Chiara riuscisse a ricevere un po’ della loro dolcezza. Anch’io vorrei riuscire a metterla fiduciosamente nelle loro mani e a sognarla in sogni tranquilli. Faccio fatica ad accettare la sua agitazione perpetua, vorrei scuoterla, vorrei spiegare, spiegare, la sgrido, mi pento. Chiara violenta che scalcia e dà schiaffi alle operatrici. Il progredire della malattia o una reazione dovuta allo spaesamento? Vieni a dormire con me? Come era lucida mentre pronunciava queste semplici parole, esplicite nella loro richiesta d’affetto, di sicurezza. Il sonno come un abisso profondo, il terrore di precipitarvi da sola. Il sonno come morire ogni notte, lontana. La fuga dal letto, unica possibilità di salvezza. Chiara nella carrozzella-seggiolone, quando sono arrivata, il secondo giorno. Il mio viso che si rabbuiava. La fretta di toglierla da lì, di portarla con me in passeggiata, “nella normalità”. Non è facile l’impatto con questa nuova casa di riposo. Il rituale dei pasti a Osimo era meno sbrigativo, l’ambiente più familiare, la cameretta di Chiara simile a una stanza di casa… Se potessimo portare ovunque la nostra casa-guscio con noi! Chissà se Chiara ce la farà, o se questo cambiamento sarà solo un ultimo trauma. Il dottore ha detto che ci vuole un mese di tempo. Un mese mi sembra un’eternità. Oggi ritornerò con Marisa. Spero la riconosca. Spero le porti un po’ d’aria di casa. Spero di non essere mai dura con mia madre. Questo diario è una lunga lettera d’amore per lei.
7 febbraio 1996 Il reparto di fronte a quello di Chiara è riservato ai semiautosufficienti. Ci siamo entrate lunedì pomeriggio, insieme alla signora Marisa, che voleva salutare una conoscente. Le finestre dell’ingresso e di uno dei corridoi si affacciano sulla cappella sottostante, come la galleria di un matroneo: la Madonna dell’altare maggiore, illuminata, è stata una visione inattesa che mi ha subito richiamato alla mente il mio sogno. Come in un processo rovesciato, un altro tassello di realtà torna indietro a comporre l’enigma? O siamo noi alla continua ricerca di simboli, di ancoraggi? A far durare la luce dorata dei nostri sogni, a scavarvi piccole nicchie, a farvi sbocciare fiori di irreale bellezza? Chiara calma, senza lamento. Lo sguardo di Suor Ammu: può stare tranquilla adesso! Mia madre è a letto, le do il bacio della buonanotte e lei sembra abbia proprio voglia di dormire. La fotografia con me e Luna sbuca da sotto il plaid, sul divano, la bambola di pezza, il cuore di cotone rosso, fatto all’uncinetto, che viene dalla Norvegia, regalo di Donatella. Nella camerata c’è silenzio. Mi allontano senza ansia. Il viaggio in corriera e i racconti di Tondelli mi aspettano. Una settimana domani. Ritorno su di mattina, venerdì, il giorno della visita dello psichiatra, che qui passa ogni quindici giorni. Finalmente. Lo aspettiamo senza allontanarci dal reparto per la passeggiata lungo i corridoi del pianterreno. È passata già l’ora in cui dovrei essere fuori per prendere la corriera delle dodici e trenta, quando esce dall’ambulatorio e si avvicina a noi insieme all’assistente sociale e alla suora. Saluta Chiara dandole la mano; le chiede come si trova e se sa dov’è. Lei inizia uno dei suoi discorsi confusi, viene fuori la parola Belluno… Io guardo Chiara, guardo lui, sono sulle spine. Vorrei dire tante cose, stabilire un contatto. Quando è stata ricoverata a Osimo, mi chiede, era rigida? Rispondo di sì, rigida in tutto il corpo e senza conoscenza. Le prende un braccio, faccia vedere. Ha mai preso il Valium? Rispondo di no. Aggiungo che a casa prendeva il Lantanon. (Volevo fargli capire che non aveva sperimentato altri psicofarmaci oltre al Lantanon e al malefico cocktail di Villa Negri, ma mi pare che lui fraintenda, infatti sottolinea che il Lantanon non serve). Il Talofen è efficace, ha detto, aggiusterò la terapia. Non è un neurolettico? credo di aver chiesto timidamente, ma non ne sono nemmeno sicura. I miei dubbi sugli effetti collaterali, compresa l’invenzione delle parole, me li tengo per me, la visita è finita, lui se ne è andato. Lascio Chiara con l’assistente sociale, che mi dice: se gli vuole parlare… Mi pare che non sia il caso, rispondo. Schizzo via per prendere la corriera delle dodici e quarantacinque. Delusione? Sì, inutile negarlo. Inutile addolcire il solito bollettino del dopopranzo a Donatella. La conclusione è che sono di nuovo alle prese con l’istituzione, sarà sempre così. Lascio Chiara in un ingranaggio, che da una parte ci permette di continuare la nostra vita prendendosi cura di lei, e dall’altra tende a fare di lei una rotella uguale alle altre. Quando torno a casa mia mi sembra di entrare in una fortezza, dove mi sento protetta: mi tengo la mia bella solitudine, il silenzio, smaltisco gradualmente ansia e fatica. Ho riletto il finale de Il grande Gatsby, mi sono lasciata commuovere da un passo sul quale i miei occhi e la mia mente avevano sorvolato, chissà perché, e ora lo sento che punge, che tocca una specie di ferita, un senso di emarginazione, che ritorna fuori più forte in questi ultimi anni, insieme alla delusione, alla paura che il futuro si accorci, non abbia braccia abbastanza lunghe per i nostri sogni e ci respinga invece verso il passato, come barche controcorrente. Ultima, tragica immagine del libro.
14 febbraio 1996 Ritorno da Chiara lunedì pomeriggio e la trovo in uno stato di grande agitazione: le spalle non sono più curve, cammina diritta e con il collo rigido, sembra indemoniata. Continua a dirmi andiamo via, si lamenta, qualcosa che è più forte di lei le impedisce di fermarsi, di posare lo sguardo, di rendersi conto di quello che le succede intorno. Non vuole mangiare, si alza dalla sedia, sono costretta a imboccarla quasi a forza, alzandomi anch’io, e cercando di difendere il suo piatto da Clara, veloce come un gatto nell’afferrare il cibo ovunque le capiti a tiro, come se fosse perennemente affamata. È molto faticoso stare vicino a Chiara in queste condizioni. L’agitazione è contagiosa. Mi informo sulla terapia prescritta dallo psichiatra: la dose degli psicofarmaci è stata aumentata e ritorna l’incubo del ricovero in ospedale di settembre. Ho paura che abbia una nuova crisi. La suora ci preannuncia la necessità di trasferirla nella stanza dove ci sono le ospiti che di notte non “stanno tranquille”. Mi sembra di aver sbagliato tutto. Invece quando ritorno a Senigallia trovo Chiara tranquilla, insieme a una signora bionda, che ha la madre con il sondino. Chiara tiene in mano la dentiera, gliela lavo e le dico di mettersela da sola. E lei lo fa. Non ci riusciva più da tanto tempo, quasi non credo ai miei occhi. Ha parole dolci per me, mi segue docilmente, si siede sul letto mangiando con piacere i pavesini che le ho portato. La suora mi dice: ha dormito, oggi va bene. Come si spiegano queste differenze di comportamento, di stati d’animo? Forse la terapia sta funzionando dopo una crisi di rigetto? O sono semplicemente gli sbalzi d’umore legati alla malattia? Anche a cena siede tranquilla, mangia volentieri, mentre Argia inventa canzoni spalancando la bocca, dove le sono rimasti solo due denti. Chiara guarda il marito di Ginevra, che si lascia mordere le mani e cerca di frenare affettuosamente i dispetti della moglie, in silenzio. Un dialogo fra loro due fatto di mani che stringono, di sguardi, parole sussurrate, gli occhi di lei persi e un po’ spaventati, quelli di lui sorridenti, comprensivi, come se dicessero: ma che cosa mi combini? Stasera posso fermarmi più a lungo, ci sediamo in sala da pranzo, dopo la cena. La televisione trasmette Okay, il prezzo è giusto, e Chiara sembra guardare, cogliendo qualcosa, mentre sbocconcella la merendina che le ho dato come dessert. Continua a essere diritta, quasi austera, Mi sembra un donchisciotte, con gli zigomi sporgenti, gli incavi delle tempie, il naso affilato. Gli occhi guardano dritti davanti a lei, non lasciandomi intuire pensieri. Scuri specchi di ciò che le accade intorno, captano e subito perdono, forse cercano il filo che si è rotto tra le percezioni e la mente. Ora è proprio immobile, seria, come tesa su un bordo sconosciuto. Mi fa venire in mente la vecchia che domina la festa di compleanno nel più bel racconto di Clarice Lispector: lei è al di là, altrove. Vorrei sciogliere mia madre, scaldarla, cantarle una ninnananna per farla dormire tranquilla. I cartelloni di carnevale appesi alle pareti del corridoio, i festoni che pendono allegri dal soffitto: domani ci saranno musica e balli.
15 febbraio 1996 Ora vado da Chiara di pomeriggio e le mattine sono tutte per me. Trascrivo i sogni appena sveglia, rileggo qualche rigo di appunti sul sogno del Mandala, raccontato da Jung nella sua autobiografia: si trovava a Liverpool e saliva dalla città buia e fuligginosa alla luce di una magnolia fiorita nell’isoletta al centro di un piccolo lago. In quella visione, della quale nessuno dei suoi compagni si accorgeva, la rappresentazione del sé. Per la prima volta mi chiedo che cosa può significare il mio sogno riferito alla totalità del sé. Rileggo… C’è il mare calmo di un porto, ci sono le rose, c’è la luce del tramonto sulle scalinate di una chiesa. C’è questo passaggio obbligato da attraversare insieme a un gruppo di anziani per uscire di nuovo nello spazio aperto, verso un autobus in partenza per Parigi. Il mio sé è l’interno di una chiesa antica, riscaldata dalla cerimonia sacra, dalle luci, dalla presenza di cibi e di suppellettili confortevoli. C’è accoglienza in questo interno. Un’accoglienza così rassicurante è raro incontrarla nella realtà. C’è anche uno strano miscuglio di sacro e profano, di compagnia e solitudine. Il mio sé come passaggio, e forse come ritorno… Quando si apre il cancello ed esco nel buio, lasciando il Santa Maria Goretti, tiro un sospiro di sollievo, come se uscissi di prigione. Sono contenta che non ci sia subito l’impatto con il traffico della città. L’isola pedonale del centro di Senigallia è un luogo ancora da esplorare, soprattutto in questa stagione. Il selciato non è liscio, obbliga a rallentare un po’, a rendersi conto dei propri passi, irregolari come i ciottoli. Comincio a riconoscere i negozi, così illuminati sembrano diversi. Non guardo in alto, ma la città mi appare tagliata a misura, in armonia con le vie strette, i palazzi, il silenzio, le persone che ti passano vicino e le noti. I lampioni lungo il corso, il bisbigliare di un passeggio discreto che ti lasci alle spalle, attraversandolo in un attimo. Ti rimane la vaga sensazione di una scia, dalla quale ti faresti portare. Poi quelle voci di gabbiani sopra la tua testa. Volano senza farsi vedere nella notte. Sono capaci di allargare infinitamente lo spazio, evocando la presenza del mare fra le case, non fanno lo stesso effetto sulla riva o in mezzo all’acqua. Vado, tenendomi stretto il mio sogno. Cammino svelta tra gli occhi delle vetrine. Ti porterò, te lo prometto, a camminare per queste strade. Resisti, Chiara, ti prego, resisti. Aiutami a partire. Aspettami qui, vicino al mare. Gocciolano le immagini del sogno in quelle reali come cera di candela calda che si rapprende in forme strane, modellate dalla fiamma. La rocca è un castelletto a guardia di questa città piatta, indifesa, ne attraversa i giardini. Oltre il muretto si arriva a prendere contatto con la realtà, passano camion, treni, proprio qui davanti alla fermata dei bus c’è la stazione. Quando i treni passano senza fermarsi la scuotono tutta come un terremoto. Sulla corriera di Bucci sono disegnate due ali bianche.
20 febbraio 1996 Chiara è nel salone, mi viene incontro, riconoscendomi, contenta come sempre, anche se subito mi parla come se avesse da raccontarmi chissà quali sevizie (dopo mi dicono che le hanno fatto il bagno e che le hanno anche tagliato un po’ i capelli). Facciamo due passi fuori, con Maria Pia, la sua assistente privata. Chiara non andava per una strada da giugno, e la cosa non sembra sconvolgerla: è tranquilla, appena un po’ intimorita dall’aria frizzante. Le spiego che siamo a Senigallia, che lei ci veniva in auto, che non lontano c’è il mare e la famosa spiaggia di velluto. In giardino salutiamo Lorenzina, che prende il sole nella sua carrozzella, accompagnata dal fratello. E un gattone bianco e nero. Risaliamo per il pranzo. Chiara adesso mangia da sola. Maria Pia l’aiuta mettendole i bocconi nel cucchiaio, e lei lo porta alla bocca con gesto sicuro. I suoi occhi guardano intorno curiosi: è attratta dal fratello di Vera, accanto a lei, continua a dire quanto è bravo. Sembra infastidita, invece, dalle maschere, e forse dall’attivismo delle animatrici. Continua a ripetere che vuole venire con me. Poi accenna al letto, forse vorrebbe riposare ma da sola non è capace di trovare un angolo tranquillo dove stendersi. Mi aiuta Francesca. La sistemiamo nell’unica poltrona allungabile, in salone, e piano piano lei si addormenta sicura della mia vicinanza. Vi ho guardato dal corridoio, appena arrivate, voi due sole con il borsone delle cose da sistemare nei cassetti, eravate di spalle, quante scene simili a questa mi hanno fatto stringere il cuore nel corso del tempo. Francesca me lo dice adesso ed è come rivedermi in una scena mancata, attraverso una pena che rimbalza da lei a me: un’estranea si stava già prendendo il mio dolore, conosceva i nostri nomi, Chiara e Tiziana. Francesca è un’educatrice del progetto Alzheimer, ha la mia età e un modo di fare aperto, vivace. La ringrazio dentro di me per i suoi braccialetti d’argento, per i pendenti con le pietre dure o le perle e i golfini allegri sotto il camice bianco. Per il tono di voce con cui pronuncia “la Chiara” con l’accento senigalliese, che rende più tonde e luminose le a e più sonante il nome di mia madre. Unisce sempre al nome un gesto affettuoso, adatto a lei, e una sospensione d’attesa per lasciare che arrivi e riceverne conferma. Qualche volta l’ho vista scrivere nel quadernone delle relazioni, a fine mattina, attaccare delle foto in bacheca, discutere con un altro animatore. Ma la maggior parte del suo lavoro, come quello degli altri, si svolge all’esclusiva presenza degli ospiti e posso solo immaginare la pazienza nel guidare le loro mani a dipingere, tagliare, ripiegare, intrecciare. Pazienza e capacità di sognare, certo, di immaginare, colmando mancanze e rispettando blocchi forse definitivi. Immaginare ugualmente colori per ogni mese del calendario da parete, con le castagne o l’albero natalizio, la maschera di carnevale, e lo scorrere delle stagioni che deve essere visto anche qui. L’odore di una stagione trasmesso da una carezza? Nessun miracolo è impossibile finché l’affettività resiste, Francesca ci crede, ognuno di loro mantiene fino alla fine la propria affettività, ognuno secondo il suo carattere. È su quella che bisogna far leva. Quando esco sono passate le due, ci sono già i bambini mascherati per il corso, che si tirano la schiuma in attesa dei carri. Prendo una brioche e un cappuccino al Caffè centrale. Cammino svelta lungo il fiume per raggiungere il capolinea delle corriere. Incrociamo una piccola banda improvvisata, la corriera si ferma per farla passare: svoltano dalla parte del mare suonando una marcetta. Qualcuno tra i viaggiatori commenta: solo loro? no, laggiù ce ne sono altri… Carnevale dappertutto e in tanti modi, carnevale in questa minibanda paesana, con i passanti che si uniscono ad essa come se andassero in processione, la voglia di ridere insieme, di radunarsi, di portare i bambini, di organizzare la festa per gli anziani, forse anche Chiara riderà. Buonanotte carnevale.
28 febbraio 1996 L’atrio è impregnato di odore di fumo e perfino il fumo, entrando, mi sembra rassicurante: un odore diverso da quello dell’abbandono… Domenica scorsa sono ritornata a Villa Negri con Giulio per prendere le ultime cose di Chiara. Siamo entrati dal cancello nuovo, abbiamo lasciato la macchina fuori, nel parcheggio, e una sensazione di isolamento mi ha gelato. Erano quei riquadri d’erba verde, perfetti, squadrati, limitati dal bianco dei bordi; era la fontana rotonda, nuova, senz’acqua, davanti alle vetrate buie dell’ingresso di una volta; era il silenzio e l’assenza di persone e di macchine all’interno, solo le luci forti di alcune file di finestre. Era, forse più di tutto, la sedimentazione di sensazioni d’abbandono provate nel tempo, ogni volta che venivo via lasciando Chiara sola nel nuovo reparto, dove stava dal mese di ottobre. E il luogo che d’estate mi era sembrato così accogliente, così diverso da come avevo immaginato fosse una casa di riposo, ora voltava faccia. Me l’aveva voltata da quando c’era stata la ristrutturazione e l’apertura della nuova ala, da quando i vecchi erano scomparsi dalla circolazione all’esterno. Da quando avevo cominciato a notare la sfasatura tra le energie e i soldi investiti in questo maquillage esteriore e la miseria all’interno, la scarsità del personale, la superficialità della direzione e dei medici. Invece qui a Senigallia c’è sempre qualcuno di guardia: l’atrio, non assomiglia alla hall asettica di un albergo, non è così bello, non ci sono piante, però ci sono loro, calmi, seduti, salutano, ognuno ha il suo posto fisso. C’è un telefono a gettoni, una grande specchiera di legno scuro, dove mi guardo, dandomi una ravviata, prima di salire. La maniglia alta, la porta a vetri pesante, il corridoio da una parte e dall’altra, soffitto a volta, scalinata di marmo quasi di fronte, ascensore a sinistra. Nel reparto di Chiara si arriva solo con l’ascensore perché le porte sono chiuse a chiave. Spesso il viaggio si fa in compagnia, ci sono sedie a rotelle o carrelli e altro, c’è sempre qualcuno da salutare. Appena si apre la portiera dell’ascensore tendo le orecchie, sperando di non sentire subito il lamento di Chiara e la cerco con gli occhi, chiedendomi come la vedrò, sarà calma o agitata, come l’avranno vestita, sarà pettinata, avrà la dentiera, mi riconoscerà?
1 marzo 1996 La signora che ha la madre con il sondino è vicino alla porta della camerata delle donne, alla quale mi affaccio con Chiara per farle vedere il posto dove mangiava prima. È bastata una domanda, quanti anni ha sua madre? È ancora giovane. Ed è seguito un torrente di parole. Scorrevano senza interruzione, io guardavo il suo viso truccato, i capelli biondi ricci e lunghi, la rivedevo vestita da principe azzurro il giorno di giovedì grasso, sembrava una ragazzina con la parrucca. La avevo immaginata molto brava a ritagliarsi nell’organizzazione familiare il tempo di tanta assiduità vicino a sua madre, perfino quello di mascherarsi, e invece stavo scoprendo il buco senza fondo di solitudine, che può lasciare l’assenza materna in una figlia di quarantatré anni incapace di una vita autonoma. Quando l’ho portata qui, una mattina di giugno, volevo andare a buttarmi sotto un treno. Una tentazione quei treni che passano velocissimi senza fermarsi, squassando la piccola stazione di Senigallia, li vedo la sera mentre aspetto la corriera, penso che il treno può diventare una specie di calamita, come il vuoto, non amo le stazioni. Nel torrente di parole vedevo una donna vacillante, spaesata, che ritrovava un mondo estraneo fuori della casa di riposo. Il suo appartamento troppo grande, poi venduto. Un’amica che la incoraggia a cercarsi una piccola pensione dove andare a vivere finché non avrà una nuova casa. L’accoglienza affettuosa nella pensione, dove si prendono cura di lei, la chiamano per mangiare, si preoccupano quando non arriva. Mia madre ha cominciato con le cadute: si è rotta prima i polsi, poi un braccio, poi una tibia. Ha cominciato a non sentirsi più sicura, a non uscire più da sola. Io ero sempre vicino a lei, la notte invece di dormire fumavo. L’ultima volta dalla parrucchiera per la tinta – lei aveva i capelli rossi quando è entrata qui – eravamo in tre: l’assistente, io e la parrucchiera a starle dietro, non ne potevo proprio più. Se non la portavo qui me la toglievano, l’assistente sociale, il giudice, stavano per fare le pratiche… Lei mi ha detto: se mi porti nella casa di riposo io non parlo e non mangio più. E così ha fatto. Hanno dovuto metterle subito il sondino per nutrirla, ma nessuno è più riuscito a farla parlare.
1-18 marzo 1996 Ospedale di Senigallia (perché gridi? ti fa male qualcosa?) Vivere mi fa male guarda che io non ho niente in mano io la sera penso alla luce non mi ricordavo se ero una persona mi pare difficile fare la persona, adesso non so se stando a letto io non mi ricordo più niente, si vede che adesso è questa la mia malattia vorrei mangiare qualcosa di buono io sono morta dammi un figlio dobbiamo andare dove tutto è intero (perché fai così?) perché sono vecchia (la signora qui accanto ha 80 anni, tu solo 75) a me bastano questi il grano andiamo a casa bisogna abituarsi ai propri lavori la mia casa è come il sole vince sempre in cuore mio la mia casa è come un fiore è rimasta a primavera non so capire cosa ti piace di me fammi vedere fammi vedere voglio andare vicino alla terra mi dice ti aspetto adesso vado a letto e il Signore mi porterà su ma non mi sembra l’incubo di capire che brutto tempo che viene Tiziana chiudiamo tutto e sentiamo la musica marcito il paese dove sta il Pollino mamma vieni le mie gioie forse vengono da Potenza ho sempre paura delle mie fiamme io ero contenta sapevo che avrei incontrato il primo amore ma non ho saputo essere diversa prendilo non farlo venire qua dimmi che cosa si dice (il tono della voce di Chiara sembra diverso solenne definitivo cadenzato) preparami la valigia se dobbiamo andare fuori se dobbiamo stare senza è pure un difetto anche quello non lo so se posso studiare la Fenice il bel sole e allora scrivimi quello che dobbiamo fare oggi (che cosa vedi?) vedo niente ma vedo tutto
figurati se con un etto di sangue si risolvono le cose (Chiara sta tranquilla per tre ore. Si addormenta. Quando si sveglia sembra un’altra, urla spaventata, vede cose. Pronuncia frasi “profetiche”, chiama mamma) grazie dell’onore dove andiamo a prendere chi? Grazie dell’onore ho navigato ho paura io sono qua per te anche cerca di aiutarmi c’è un signore con l’armonica dimmi che cosa viene avanti mi piovono addosso (dopo l’iniezione e la visita del dottore cambia completamente, è confusa, un momento prima aveva parlato tranquilla con il prete, ora appare molto angosciata. Chiedo aiuto all’infermiera, mi risponde che è sola… Non so che cosa fare, aumenta anche la mia angoscia: poi Chiara si calma un po’ e comincia a parlare con quel suo tono “complice”, che ha il ritmo della ciacola a due) cerchiamo di avere un po’ di pazienza quella che aveva perso la memoria come la signora qua ho bisogno delle gambe (chiede che ore sono, che giorno è domani, domande che in casa di riposo non aveva più fatto) perché si tengono gli occhi chiusi quando si sta male? (dorme da quando arrivo, a mezzogiorno, fino alle cinque del pomeriggio. Appena sveglia si mette a urlare) ancora! ancora! ti piacerebbe andare a visitare una come me? Tiziana aiutami io non c’entro niente sono nessuno lei che è nessuno dimmi la verità vedi che hanno ancora gli aghi in mano le punture potevo farle dove sta lui chi è che viene su per le scale? (si sentono dei passi) guarda fa presto alziamoci e fammi arrivare a casa senza fatica nevica ha nevicato (agitazione, quando parla in sogno parla meglio? Frasi compiute senza parole inventate?) io anche quando andavo in cerca di mio papà che non potevo incontrare mai e poi un altro signore lassù stasera vedrai che mi suona il campanello perché io li ho sempre aiutati mi hanno detto che tra il suicidio buongiorno s’accomodi (come stai?) la sta bene, ma siccome sta tanto lontano dove stavo io allora (e Tiziana?) son qua che guardo vedi? Ti sei fermata ancora dopo che si è fermato il tuo veggente hai mangiato una volta ho girato dappertutto perché non ti trovavo che mal ho pensato di comprarti stibia oggi (Urlo. Dopo, sta molto tempo nella stessa posizione, tranquilla, composta) aspetta tesoro non so se ho buttà via le scarpe che era nove nove ecco adesso vado meglio soldi ne hai te? Mettimi vicino al vento ancora! ancora! (quando la vicina tossisce lo fa anche Chiara, poi urla) fammi vedere come fa a parlare quando è ora di andare in chiesa Tiziana è andata via tanto stufa la penuria è serpente ora gesto la fontina sole dobbiamo andare da quel signore delle fotografie (a fare cosa?) a cagar ancora! ancora! (finalmente lo scopro: Ancora è il titolo di una canzone che Concetta le canta spesso e Chiara insieme a lei riesce a cantare il ritornello) chiamamela portamela qua non posso dire niente al dottore perché a quello non gli importa niente di me (impara la canzone così la cantiamo ai medici!) Che non vengano qua a fare i comandanti io non sono tanto padrona della mia voglia vorrei morire mi pare che bisogna volersi bene perché il mondo è questo qua come facciamo a andare lassù dobbiamo aspettare quelli che vanno a pitturare la casa il conte io ho detto ormai la mia vita è finita
31 marzo 1996 (Guardando la foto che ha sul comodino) Vedi, lei sta sempre sola. Vedi, sei tu. (dice di se stessa. Vuole stare in camera, seduta sul letto, la foto l’attira come una calamita). Lei mi fa l’esame.
14 aprile 1996 Sì, gli esami radiografici li facciamo sempre in questi casi, ma con i dementi cerchiamo di evitare. Sa, entrano in agitazione, e poi anche il radiologo dell’ospedale è nervoso. Quasi le testuali parole del dottore che ora segue Chiara al Santa Maria Goretti. L’ho rassicurato che penserò io ad accompagnarla e a farla stare tranquilla. Così mi sono conquistata quello che dovrebbe essere un controllo di routine per qualsiasi persona abbia avuto una polmonite. I medici dell’ospedale, dal canto loro, non hanno scritto nemmeno una riga sulla durata della terapia antibiotica e sui controlli per verificare l’avvenuta guarigione. Ma a loro che cosa importa di una demente? Basta cacciarla via prima possibile per lasciare il posto a un paziente “normale”. Chiara, mandata in ospedale per una sospetta polmonite, la seconda notte era stata ricoverata in chirurgia per un blocco intestinale, risolto fortunatamente senza bisogno di un intervento. Però il primario, vedendo scendere i valori ematici, mi aveva subito parlato di condizioni disperate! Chiara aveva reagito bene alle trasfusioni, riprendendosi, e a quel punto i dottori l’avevano dimessa, dicendo che purtroppo non potevano sottoporre a nessuno dei loro sofisticati esami “una paziente così”. Conclusione: non le avevano fatto nemmeno un’ecografia. Sono riuscita, controllando la rabbia, a strappare al dottore della casa di riposo anche l’impegnativa per l’ecografia addominale, assieme a quella per la radiografia ai polmoni.
21 aprile 1996 Avrei voluto festeggiare i miei cinquant’anni con un viaggio in Marocco, invece non prenderò il volo nemmeno questa volta. Giulio domenica andrà in regata, l’Italia andrà a votare (la repubblica ha cinquant’anni come me e forse l’Ulivo vincerà, ma non è più una sinistra vera), e io andrò da Chiara, che sia lei il regalo per il mio compleanno? Averla ancora, avere qualcuno che mi aiuta a curarla, Rosalia, Concetta, le suore e il personale della nuova casa di riposo. Certo non è facile barattare l’Africa con la vicinanza a mia madre, però ce la faccio, anche perché finalmente mi sembra di afferrare di lei qualcosa che prima non riuscivo ad afferrare. È una lotta quotidiana per veder vincere la vita. Niente altro che un soffio. Certe volte è come se non si trattasse della vita di Chiara, ma della vita e basta. Come quando si trova un uccellino che non riesce più a volare e si cerca di salvarlo e lui diventa il centro di ogni nostra attenzione. Chiara mi ispira questa tenerezza di uccellino ora che è così indifesa e ferita.
22 aprile 1996
Non vivo come dovrei. Non so perché mi sono
ridotta così. Frasi di Chiara raccolte nella penombra della camera, mentre cerco di farla addormentare, cantandole canzoni. Ho dato il cambio a Maria Pia, trovata accanto a lei sul letto con il foglio della Canzone del Piave in mano. Tante cose da dire nel quarto d’ora in cui ci siamo incrociate, tante piccole informazioni, incombenze, osservazioni. La caduta di un dente, l’unico al quale si agganciava la parte inferiore della protesi; il suo portare alla bocca qualsiasi cosa l’attiri per forma, colore, consistenza; il suo odio per le suore. Quando Maria Pia se ne va, Chiara riesce a riposare mezzora, girata su un fianco, con le braccia incrociate, tranquilla. Io proteggo il suo sonno e non è facile. Nella stanza ci sono solo altre due ospiti, una delle quali sta sempre a letto. Non ho mai sentito la sua voce. Ma rumori e persone fanno continuamente irruzione dal corridoio. La finestra è socchiusa, dall’apertura entra la luce di una giornata estiva e il rosa carico di un albero di Giuda in piena fioritura. Il giardino della casa di riposo comincia ad animarsi: c’è un cespuglio di iperico giallo oro, e un albero dai fiori piumosi color cipria. Sembra un frammento di giardino orientale. L’attenzione di Chiara è più che mai concentrata solo sulle persone, niente altro può consolarla. Un poco le canzoni. Il disorientamento dovuto alla malattia ha accentuato moltissimo la sua dipendenza dagli altri. Sola, va alla deriva, come un relitto. Così l’ho vista vagare nella grande camerata degli uomini venerdì scorso, il giorno dopo la caduta: scalza, diritta, con un’andatura di sonnambula, il collo rigido. Chissà che cosa le passa per la testa in quei momenti? chi può dirlo? Vedere me è trovare un appiglio, riconoscersi, fermarsi. La caduta non sembra avere avuto conseguenze, ma temo possa accadere di nuovo, non so il motivo, lei non riesce a ricordare. Ieri, improvvisamente, ha voluto suonare il campanello, le è venuto in mente da sola: chiamo con il campanello. Non eravamo mai riuscite a farglielo usare. Forse è stata l’unica volta. Il suo umore è cambiato quando è arrivata Concetta. L’ho vista ridere e fare una piroetta, imitando il suo modo di dimenarsi per scherzo: Chiara di una volta, con gli occhi furbi e il sorriso complice. Riflessa nell’allegra vitalità di una ragazza, che ieri chiamava “la mia bambina”. Mai sentita chiamare così un’altra persona diversa da me, io ne ero felice.
16 maggio 1996 Andate nel salone, è pieno di bambini! L’invito viene dall’assistente Fabiola, una giovane signora, alta, truccata, con i capelli cortissimi. Saluta Chiara in modo molto espansivo. Una matita sembra calcare i contorni di parole e gesti per farli risaltare meglio: così la sua attenzione viene catturata, permettendole di reagire, di compiacersi del complimento ricevuto, rispondere con una battuta, ridere. Chiara si sta abituando alla confusione. Non sembra infastidita, anzi. Si siede volentieri a un tavolo, la tombola è in corso, ci sono le cartelle di plastica con i numeri che si possono “chiudere” senza bisogno dei fagioli. Ci sono bambini e parenti intorno agli anziani. I bambini hanno sette, otto anni, visi accaldati, guance tonde. Compresi nella loro parte, alla fine della tombola passano con un cesto pieno di caramelle, e poi sciamano dietro al prete. Mia madre è contenta di vedere i bambini. È contenta di vedere qualsiasi persona le sembri normale, mentre la presenza di quasi tutti “gli altri” la infastidisce. Dopo la tombola abbiamo fatto una passeggiata fuori, al sole. Il venticello le dava una sensazione di freddo, nonostante avesse basco e impermeabile. Cerco sempre di farle vedere gli alberi, i fiori, i pesci rossi, ma lei è attratta solo dalle persone e un po’ dai gatti. Si sente minacciata dagli altri vecchi, se vede che saluto qualcuno mi dice di non farlo, perché ruba. Andiamo a casa, a casa. Chissà che cosa intende per casa. Possibile che sia la sua stanza, quell’angolo con il letto, il comodino, l’armadio, i péluches, la sua fotografia sullo sfondo di Belluno? In camera, le chiedo quale sia il suo letto. Me lo indica, a Osimo mi sembrava non ritrovasse nemmeno la stanza. Forse perché il suo nome, nei quattro mesi di permanenza nel reparto non autosufficienti, non era mai comparso nell’apposita targhetta. Qui il nome c’era già quando è arrivata, sopra il letto e sull’armadio. Lei adesso, stando distesa, guarda il cartellino e legge: Viel Chiara. O mi chiede: che cosa c’è scritto lì? Si sta riabituando a fissare l’attenzione sulle scritte perché trova molti più stimoli a farlo. L’imitazione, l’atmosfera dei luoghi, il modo in cui gli altri si rivolgono a noi, contribuiscono a farci essere come siamo, e a maggior ragione per un vecchio. È importante, per esempio, la presenza maschile: giovani terapisti e assistenti per Chiara sono tutti dottori, le infondono sicurezza, con loro non si ribella mai, anzi ne cerca approvazione e appoggio.
22 maggio 1996 L’infermiera è giovane, carina, l’abbronzatura risalta contornata dal bianco del camice: con una lunga pinza sta medicando una piaga. La vecchia è girata su un fianco, ha il sondino e la flebo. È l’ultima arrivata nel letto in fondo, vicino agli armadi, finora rimasto libero. Sta molto male, ma non emette un lamento. Come sono lontane le mani dell’infermiera, penso, non ho mai visto una piaga da decubito. Quella deve essere grande, già profonda, e forse la vecchia, fortunatamente, non ha più nemmeno la forza di percepire il dolore. Faccio finta di non vedere, di non sentire, vado e vengo affaccendata, ma il mio malessere verrà fuori di notte. Mi sveglio prestissimo, senza riuscire più a riaddormentarmi. Nei sogni Chiara continua ad avere bisogno di me. Non sono riuscita a metterla a letto, perché la suora ci ha mandato fuori. Dovevano riapplicare il sondino alla vecchia. Entrando un attimo a prendere la borsa, ho sentito la sua voce strozzata. In camicia da notte e vestaglia lilla Chiara era ancora più fragile: a un certo punto le è venuto da piangere, voleva dirmi qualcosa, ma poi si è trattenuta. Lei era lucida in quel momento, capace di sentire tutta la sofferenza e la solitudine in cui la lasciavo. Non come quando ero arrivata e l’avevo trovata seduta vicino ai parenti di Clelia, felice e sorpresa di vedermi, come sempre. Ci ha detto che lei scrive, scrive delle cose molto belle, mi fa il fratello di Clelia. Chiara ha in mano un quadernone. Ma questa non è roba mia, dico. Lo prendo, pensando a Concetta e al quaderno delle sue canzoni, invece sfogliandolo mi accorgo che ci sono i verbali delle educatrici del progetto “Alzheimer”. Quando ha espresso il desiderio di muoversi ci siamo alzate e, prima della nostra passeggiata in corridoio, l’ho sistemata un po’. Lei è contenta di avere orecchini e collane, e di essere considerata, pettinata, di ricevere complimenti. Siamo state fortunate, perché Alberto stava facendo fotografie ed è arrivato sorridente, chiedendomi se poteva farne una a Chiara. Lì, contro il muro bianco, le abbiamo anche strappato un sorriso. Peccato quel dente spezzato, chissà se si noterà molto. Glielo dico, siamo state fortunate, ti eri appena fatta bella, con gli orecchini e tutto! E tornano l’infermiera e la piaga, e il sondino, e caccio via, caccio via. Stringo il mio uccellino vestito di azzurro: i capelli si sono allungati, le ho portato tre elastici nuovi per legarli. È già arrivata l’ora della cena. Chiara adesso mangia di nuovo da sola, lentamente, compunta, e si sforza di leggere nei calendari di cartone colorato che ha di fronte, uno per ogni mese, fatti dagli ospiti e rallegrati con vivaci disegni. Domenica sette, dice a voce alta. Cerco la data per vedere in quale calendario l’ha letta.
27 maggio 1996 L’odore di infermeria mi rimane incollato addosso quando ritorno a casa. Vorrei scrollarmelo via insieme ai cattivi pensieri, forse sono anche questi a trasformarsi in qualcosa di così fisico, benché impalpabile, come un odore. Particelle che non vedo e che mi porto addosso, senza osare parlarne con nessuno, nemmeno con Giulio. Rimpiango il bagno con due finestre della prima camera di mia madre a Villa Negri, lì mi aveva subito colpito l’aria delle stanze che sapeva di pulito, come a casa. Mi consolo pensando che Chiara non se ne accorge, che la malattia le concede una strana invulnerabilità, permettendole di concentrare la sua attenzione sulle persone, sui sentimenti, sulla paura. Meglio la paura della merda. Sono stupida. Me lo dice mentre le sto raccontando che ho vinto un premio di poesia. Anche ieri ha avuto momenti di lucidità, così in contrasto con altri, per esempio quando guardava le foglie a terra e diceva che erano persone. È più lucida se pensa a se stessa, come quando mi vede arrivare e sa perfettamente quanto la mia presenza sia un bene per lei. La cambio: calze trasparenti, camicetta, gonna nera, maglia verde. Le misuro il cappellino di paglia a forma di cloche, le appoggio sulle spalle la giacca a quadretti. Non riesco ad avere molte informazioni su che cosa combina nelle ore in cui rimane da sola. Non sapere mi aiuta a sopportare, a preoccuparmi di meno. La cena è stata molto triste, con Maria C. che continuava a urlare nel suo incomprensibile dialetto pugliese. Chiara si guardava intorno dicendo: come faccio a mangiare? Io cercavo di attirare su di me la sua attenzione, ma purtroppo non potevo cancellare quell’atmosfera pesante. Quando ci sono gli animatori è diverso, la loro presenza distrae Chiara, in particolare Alberto, che le piace molto. Lei quando mangia ha tutte le antenne alzate a seguire quello che le succede intorno. Per fortuna ieri ha scoperto Irma: la più giovane, la più normale. Le diceva che era bella. Con Irma siamo arrivate fino al corso, dove lei si è comprata le sigarette. Irma ha cinquantasei anni, è stata una ragazza madre, ora ha una nipote che fa le medie. Parlava con orgoglio della figlia e della nipote, diceva che ha sempre difeso la figlia contro tutti e l’ha allevata facendo ogni sacrificio per lei, prima il lavoro in ospedale, poi la serva. È all’Istituto Santa Maria Goretti da due anni. Dice che le vogliono bene e l’aiutano. Ricorda la sua bella casa, pagata con il mutuo, i dischi. Cento ne avevo, mi piaceva ascoltarli la mattina, mentre pulivo, ascoltare la radio… Non avevo nessuno che mi facesse uscire, solo questo dice, non 138 139 mi ha raccontato il motivo per cui la sua vita è cambiata così totalmente, non si lamenta che la figlia non venga mai a trovarla. Forse, senza quella figlia, si sarebbe salvata, forse no. Non è vero che un figlio ci strappa a un destino di solitudine, anzi può accadere il contrario. Irma è dolce, mi sembra un animale buono. Quante ore passate nel sonno e nel silenzio, anche a causa dei farmaci? Chiara alla fine della passeggiata si era un po’ innervosita, voleva ritornare a casa. Mi ha ripetuto, a modo suo, che da tanto tempo non viene più da me, ed è vero; farò di tutto per portarla a vedere il nostro giardinetto in versione quasi estiva. Ho paura, mi ha ripetuto quando è venuta l’ora di andare via. L’ho lasciata vicino all’infermiera carina. Scrivimi, mi ha detto. Fuori l’aria era ferma, calda, sfrecciavano le rondini, c’erano militari chiassosi ad attendere il treno, c’era un sedile come una nicchia per accogliermi e portarmi via.
7 giugno 1996
Mamma, un giorno vieni
a pranzo da noi.
10 giugno 1996 Chiara nel corridoio dell’ospedale a braccetto con un uomo, il cappellino di rafia troppo largo e le calze pesanti, il viso che si illumina di conforto appena mi vede. Lo smarrimento per un attimo raccolto tra le mie braccia. Non credo di averle mai voluto così bene. Sono arrivata in ritardo, ma in tempo per accompagnarla a fare l’ecografia e parlare con il medico, rispondendo per lei alle domande che farà. Domande! Il medico non risponde nemmeno quando gli dico buongiorno. Non so se abbia letto la cartella, tratta mia madre come una paziente qualsiasi: respiri, trattenga, si giri sul fianco destro, sinistro. Chiara dice che ha freddo, che ha paura. Io cerco di spiegarle che cosa le sta facendo: adesso ti guarda dentro la pancia, vede l’intestino, il fegato, in questo televisore vicino a te, non avere paura. Chiara è brava, non si agita troppo, sfiora il viso del dottore con la mano. Lui accenna il gesto di pulirselo, non vedo la sua espressione seccata, credo che cerchi di fare più in fretta possibile. I miei occhi e mezze parole cercano di dirgli che Chiara non è in grado di seguire i suoi comandi. Non c’è nessuno che mi aiuti a girarla dalla mia parte, io ci riesco solo un po’. Lui mi dice basta così e non si degna di chiamare l’infermiera. Quando ha finito va a dettare il suo referto. Gli chiedo come va prima che scompaia. Bene, non c’è niente, dice uscendo. Non saprei dire com’è la sua faccia, solo che portava occhiali dorati e non aveva molti capelli, età sui quaranta. L’aggressività è ancora in fondo, vorrebbe venir fuori come un pugno, assestato in un punto dove fa male. Più tardi è tornata l’immagine della madre di Riccardo III, nel film di Loncraine, quando con solenne e veemente forza di vecchia maledice suo figlio. Io ti maledico nel mio diario, medico muto senza pietà. Mi porto via la fragilità di Chiara come una cosa preziosa, e la voglia di scrivere si fa più forte. Scrivere per testimoniare, per esserci, per riparare le ingiustizie, per fare a pugni con la forza della penna. Scrivere per lei, scrivere per amore.
6 luglio 1996 Se non ci fossi tu io sarei morta. Non sono lucidi i pensieri con cui Chiara accoglie me e Donatella, ma questa frase si staglia nel flusso delle altre. Parole che del discorso contengono solo la musica, esprimendo il suo smarrimento nel male di sempre: la solitudine. Guarda che io in questo posto non ci voglio più stare. Riesco a farla distendere sul letto, a farla rilassare: quando si gira su un fianco, sciogliendosi un po’, capisco che va meglio, anche se le sue parole sembrano smentirmi. Ha il viso meno pallido, caviglie e piedi non sono più gonfi, porta la sua collana di perle e un filo di perle a braccialetto. Resta abbastanza calma fino a quando vede Assunta alzarsi dal letto di fronte. Allora si scaglia contro di lei, si alza, le dice di andare fuori perché quella è casa sua e lei non ci può stare. Assunta non reagisce, dice che deve aspettare lì. Mia madre continua a inveire, allora cerco di distrarla con la fotografia che tiene sul comodino. Ormai la uso come un test e mi stupisce la sua sicurezza: quella sono io, dice della sua immagine, la più difficile da riconoscere. Quando arriva Rosalia Chiara è contenta, la vedo finalmente ridere insieme a lei. Rosalia la sa prendere, riesce a scoprire sempre un motivo dietro i suoi comportamenti, cerca di capire le sue voglie, insomma la tratta come una persona normale. E Chiara non mi trattiene quando le dico che devo andare via, sta bene con lei, si sente protetta. Mostro a Rosalia l’ematoma e la fasciatura sul braccio destro. Ieri non c’erano, mi dice, la fasciatura l’aveva a un piede. Insomma gli infortuni continuano anche qui e io ne vedo qualche segno senza sapere delle battaglie di mia madre. Rosalia ha quarant’anni. È infermiera. Si è trasferita a Senigallia da un piccolo paese della Lucania. Il marito ha trovato lavoro in un’azienda agricola, i due figli piccoli vanno a scuola, la figlia maggiore, Concetta, si alterna con lei nei turni di assistenza al Santa Maria Goretti nell’attesa di trovare un lavoro fisso. Ho avuto bisogno di loro quando mia madre era in ospedale e doveva essere assistita giorno e notte. Poi sono rimaste per farle compagnia nelle ore del pomeriggio e così Chiara si è ritrovata un’intera famiglia intorno a sé: visite fuori orario di marito e figli, regalini, canzoni, balli, modi espansivi e caldi, contatto fisico. Ecco che cosa le era mancato a casa sua, forse se ci fossero state Rosalia e Concetta…
14 luglio 1996 Che bella che mi hai fatto diventare oggi! Come hai fatto a venire? Pensa se può essere qualcuno che ha voglia di me che sono sempre sola… Facciamo il caffè? Ho un partito che da tanti anni, dopo che sono andata a vivere da sola… Che sono brava… Mi viene il nervoso perché qua siamo tutti compagni nella vita. Io dovrei essere capace di camminare. Bisogna fare le cose con tranquillità. Mentre sistemo le sue cose nell’armadio Chiara si addormenta seduta vicino alla finestra. Oggi sono stati distribuiti i panni, che arrivano dalla lavanderia su un grande carrello a più ripiani. Disposti a mucchi, abiti, maglie, biancheria, ben piegati e stirati, formano fardelli avvolti dal guscio di un asciugamano o vestaglia o scialle, in modo da essere trasportabili. Ogni capo è numerato, il numero di Chiara è il 27. Quando sono presente alla distribuzione riconosco i panni di Chiara da un colore, da una fantasia, e li prendo direttamente dal carrello per metterli a posto. Sono le maglie a risentire maggiormente dei lavaggi potenti, a volte tornano così ritirate che non si possono più indossare. Per questo mi sono organizzata con le assistenti per sottrarre i capi più delicati e portarli a lavare a casa, soprattutto quelli di lana. Funziona. A volte un capo si perde o va a finire in un altro cassetto, allora incomincia la caccia e non sempre viene trovato. Succede anche di vedere addosso a Chiara una camicia o un vestito che non sono suoi e di dover cercare la proprietaria per restituirglielo. Lei da tempo non riconosce i suoi abiti. Vestirsi e spogliarsi sono state fra le prime azioni che ha dimenticato. Sono azioni complesse. Come lavarsi. Non ci rendiamo conto di quanto siano difficili.
2 agosto 1996 (al telefono) Ciao mamma, come stai? Io sono sempre qui, all’ospedale. Sì, all’ospedale, e ci sono persone schifose qui. Chiara di nuovo agitata da quando Rosalia è stata chiamata per un’altra assistenza e le ha dato il cambio Fabrizia, bugiarda e inefficiente. Ci sono volute quasi due settimane per capirlo e ora fortunatamente la superiora ha provveduto a sostituirla con un’altra ragazza. Negli occhi di mia madre leggo tanta malinconia, e paura, attenzione, uno stare sempre all’erta come gli animali: occhi chiari, resi splendenti da un lampo di tesa follia. Occhi che vedono il vuoto, forse, i mostri, l’abbandono. Occhi che così raramente riescono a ridere. Clelia si alza dal letto, è in piedi, in sottoveste, appoggiata al bastone. Mi chiede: dove sono? che cosa devo fare? Si lamenta: non ne posso più. Forse le fa male la gamba. Cerco di rassicurarla, le dico di stare tranquilla, di tornare a letto, tra un po’ verranno a cambiarla, l’aiuteranno ad alzarsi e a vestirsi. Mi supplica di telefonare al figlio per dirgli che venga a prenderla. Ne scandisce il nome, mi ringrazia, assicurandomi che mi darà i soldi!
19 agosto 1996 Chiara è seduta tra il letto e l’armadio: un’operatrice sta cercando di annodarle a cravatta la sciarpa bianca con fili dorati. Appena mi vede il suo viso si illumina, esprimendo la solita gioia sorpresa di ogni arrivo. La bacio, le faccio gli auguri per il suo compleanno. Mentre comincia a scartare i regali, e le chiedo che cosa ci sarà, esclama: un marito! Il suo unico desiderio è avere vicino qualcuno che le voglia bene. Dimentica del suo corpo, non ha le fissazioni che hanno i vecchi per le loro cose, non chiede niente, non si lamenta né del cibo, né del pannolone, né di altro. Solo quello che entra nel suo sguardo sembra colpirla, e anche le frasi che le arrivano all’orecchio; allora manifesta disgusto e disprezzo per le compagne e i compagni “brutti” e simpatia per i “normali”, per quelli che la salutano e le fanno un complimento. È in grado di comprendere benissimo quali sono le persone che l’aiutano. Ha accettato bene la nuova ragazza, Nadia, e continua a odiare le suore. I regalini, il biglietto, i versi della poesia dedicata a lei, devono esserle scivolati via come acqua, così la ricorrenza del compleanno; o forse era emozionata, anche se non sembrava, chissà. Durante la cena si è ammutolita, e dopo non voleva alzarsi, nonostante le dicessi che erano in arrivo Giulio e Luna. Forse era stanca e stava bene lì seduta. Forse quando si vede circondata da persone che non le piacciono si intristisce. Mangia lentamente, come compiendo puntigliosamente un dovere, qualche volta con le mani, ma di solito con la forchetta, il cucchiaio, con i suoi gesti di una volta, se viene controllata e guidata; altrimenti prende la forchetta a rovescio, o mette il cucchiaio nel bicchiere, o allunga la mano per prendere le cose degli altri. Insomma tutto sembra un po’ affidato al caso, il suo comportamento è imprevedibile, perciò ha sempre bisogno di qualcuno vicino quando mangia. È stata contenta di vedere Giulio, invece la cagnolina era come se non la vedesse, forse l’ha dimenticata. Luna ha provato a farle le feste, ma poi ha cominciato a tirare verso i gatti e Chiara non l’ha più guardata. Invece a Giulio, al momento di salutarlo, ha detto che gli voleva molto bene e l’ha baciato. Era molto “presente” lei in quel momento. Giulio e Luna sono stati tutta la famiglia e gli amici che io ho potuto offrirle: nelle ricorrenze abbiamo sempre misurato la nostra solitudine. Piccola Chiara, avrai la tua festa domani, insieme agli altri nati in agosto. Avrei voluto portarti qui, riesci ancora a chiedermelo qualche volta di venire a casa mia, ma la tua bambina è molto imbranata quando si tratta di trasferimenti in macchina e non ho voluto pesare su Giulio. Spero che tu sarai serena domani, e anche un po’ contenta, io verrò su presto, con la macchina fotografica e il vestito rosso e arancio che ti piace, e il viso allegro per te, per questi tuoi settantasei anni.
21 agosto 1996 Le parole dell’infermiera Livia si sovrappongono alle immagini della festa apparentemente senza scalfirle, e invece nei sogni è questa Chiara a ritornare, a compiere una specie di percorso a ostacoli nel quale siamo in diversi ad aiutarla, trepidando per lei. Una punta di febbre alta, il suo continuo bisogno di aiuto, la sua immensa fatica, l’ansia dentro di me: purtroppo resta solo questo, e il fatto che mi sveglio molto presto, con l’inquietudine che suona come un campanello. Ma tutto questo c’era già in me ieri, quando ho visto il suo cambiamento d’umore appena entrata nel refettorio: sembrava che lì respirasse un’altra aria, subito. Appena finito di mangiare è impallidita, era come se un peso la opprimesse, forse voleva trattenermi vicino a sé e infatti ci è riuscita. Non ho preso la corriera delle 18.40 e così ho potuto parlare con l’infermiera; siamo rimaste lì sedute tranquille, non c’era nessuno intorno a noi, Chiara piano piano si è tranquillizzata. Che cosa le sarà rimasto della festa? Forse niente. Lei è la dimostrazione di che cosa sarebbe la nostra vita senza la memoria. Senza la possibilità di costruirci un nostro tempo, fatto di passato, presente e futuro, fatto di ricordo e d’attesa. Non collocato tra questi due momenti, in cui non c’è più e non c’è ancora, il presente si sbriciola. Eppure Chiara era carina ieri, con il foulard legato a fiocco, azzurro, il vestito a fiori celesti e rosa, le perle, seduta sulla sedia con il suo nome sulla spalliera. Le ho fatto tante fotografie, ha spento la candelina, mangiato i dolci, ricevuto in dono un cerchietto per i capelli e una collana. Sul suo comodino un mazzo di fiori, azzurro e rosa. Accanto alla consapevolezza che Chiara sia affidata ad altri e alla gratitudine per quel darsi da fare, bene organizzato, della festa, ritorna forte la sensazione del nostro mondo a due, mentre le siedo accanto e le traduco in parole ciò che sta vivendo, e ogni tanto l’abbraccio. Si commuove quando ha appena spento la candelina, gli occhi si riempiono di lacrime, solo per un attimo. Non fotografo la sua commozione, aspetto. Alla fine ci facciamo una passeggiata, io e lei soltanto, nel giardino di dietro, al sole. Ti fa bene il sole, le dico, ti scalda. Hai le mani fredde fredde.
2 settembre 1996 Esco di casa come dalla prigionia di una nave che mi racchiude in un ritmo forzato di pasti e di piccoli movimenti, senza lo sfondo cangiante delle persone che si muovono intorno a me. Non so che cosa cerco, se il ritorno dell’estate o altri visi, e parole, o semplicemente lo spostamento, prendere un treno e andare, da qualsiasi parte. Arrivo con il desiderio di trasportare anche Chiara nella mia voglia di cambiamento, e la trovo stranamente tranquilla. Mi succede con Luna qualche volta. L’esatta sensazione di trasmetterle qualcosa di mio, di guardarla e ricevere risposta: così, per empatia, senza che si precisi né la domanda né la risposta. Andiamo. Anche Irma è pronta (senza qualcuno che l’accompagni nemmeno lei può uscire), ci aspetta di sotto. Me lo dice Nadia, insomma tutto converge verso la nostra passeggiata nel sole, tornato dopo i temporali. Do a Chiara la sua borsa. Lì per lì non la riconosce. È la tua? mi domanda. Poi ritrova il gesto di mettersela sottobraccio. Questo suo corpo, all’apparenza dimenticato, ricorda esattamente il portamento elegante, la vivacità dello sguardo, il sorriso, la mano al collo per ripararsi se tira un po’ di vento. Le nomino le cose che vediamo, vetrine, case, biciclette, insegne, per catturare la sua attenzione, un barlume di consapevolezza del luogo dove ci troviamo. Ma attenzione e stupore sembrano riservati quasi esclusivamente ai bambini: le piacciono, vorrebbe fermarsi appena ne vede uno. Mi chiedo come mai l’attirino così tanto, forse è perché non ne vede quasi mai nella casa di riposo. Se potessi le metterei un bambino fra le braccia, adesso. Mi chiede chi sono le persone che incontriamo e vorrebbe attaccare discorso. Qualche volta ci riesce. Si butta. Guarda un’esposizione di bigiotteria per il corso e dice che è roba molto bella, tanto per parlare con il giovane venditore. Vuole mettere pace fra due ciclisti che litigano per scherzo e ne viene fuori una simpatica sequenza di battute! Invece quando le indico i portici, i fiumi, le strade diritte, dicendole: vedi è come a Belluno, qui, non sembra comprendere. Mi lascia parlare, si lascia accompagnare sul ponte a guardare il fiume limaccioso, ma non ha ricordi. Ogni tanto chiede di tornare a casa, ma oggi meno delle altre volte, è più rilassata, cammina senza stancarsi. Irma e Nadia ci precedono, forse è anche la loro presenza a darci sicurezza. La realizzazione di un desiderio, anche se minimo, quanto ci acquieta. Mi permette allontanamento e vicinanza. Non essere più sola con lei e per lei. Oggi è una piccola gioia, palpabile.
25 settembre 1996 Entro dalla porta principale dell’infermeria (quella sempre chiusa a chiave), gentilmente aperta da un’operatrice, e Chiara è subito là, davanti a me: sta camminando da sola nel grande corridoio pieno di gente – sono le due del pomeriggio – i capelli sciolti, le calze in mano, le gambe nude coperte da vistose medicazioni. Non mi vede da dieci giorni e mi riconosce subito. L’abbraccio, me la porto in camera. Le infilo un paio di calze bordeaux, tirate fuori dalla solita busta di plastica gonfia di roba che porto con me, la faccio stendere sul letto, la copro con un plaid. Cerco di scaldarle le mani gelate. Riposati un po’ adesso, rilassati. Fuori piove a dirotto. Dalla finestra aperta entra l’umidità di questo settembre già autunnale, sono contenta di essere arrivata prima, risparmiandole almeno un’ora del suo smarrito girovagare. Alle tre arriverà anche Rosalia. Non ci sono 148 149 gli animatori di domenica e le ore senza assistenza sono le peggiori. Difficile mettersi nei suoi panni, immaginare come si senta persa. Non riesce a dire di avermi tanto aspettata.
È stata la mia prima assenza per un viaggio in due anni, a lei non lo hanno detto che ero
fuori, e adesso vorrei raccontarle tante cose e non posso. Vorrei
dirle del museo di Caporetto, di Redipuglia, del Carso, del ricordo
del nonno e dei suoi racconti sulla prima guerra mondiale che mi
hanno sempre accompagnata…
Non credo che
sarò più capace di vivere.
Distesa sul letto parla, parla, i discorsi sono sconnessi, ma la musica è quella di una chiacchierata. Una ciacerada. E torna, torna continuamente la scena del mio apparire, da quella porta, inaspettata. Come hai fatto a venire? Sei stata tanto brava, come sei arrivata fin qui? Io rispondo spiegando ogni volta: sono arrivata con il treno o con la corriera o in macchina. Ma so che la domanda significa ben altro. È di quell’altro mio mondo che vorrebbe chiedermi, di quel mondo ormai per lei così lontano e impensabile che il mio arrivo da lì ogni volta la sorprende, come se temesse di non vedermi più arrivare. Si ripete davanti ai suoi occhi la scena – ti ho vista arrivare – la memoria è riuscita ad afferrare questo istante. La memoria trattiene ancora quando l’emozione è forte. Che strana cosa la nostra memoria, quanto ha bisogno di stimoli, di affetto. Non riesco a trascrivere tutto quello che dice, cerco di trattenere nella mente, perdo molte cose. Mi chiede di mio marito, non lo chiama più per nome. Lui non sa più che sono qui (ora lo vede di rado, sente la sua lontananza), quando posso venire da voi? Alle tre arriva Rosalia. Dopo due mesi, nei quali Chiara l’ha vista lavorare lì con il dispiacere che non si occupasse solo di lei come prima, Rosalia è tornata a essere la “sua” assistente dalle tre alle nove di sera. So che è il regalo più bello che possa farle, e continuo a farglielo anche se con sacrificio per le nostre scarse entrate. C’è molta complicità fra loro due, Rosalia scherza, la fa ridere; lei improvvisamente mi vede più “dura”, seria. Continua a ripeterle: conosci la mia bambina? È bella la mia bambina? Poi la sistemiamo per uscire. I capelli si sono allungati. Sono morbidi, lisci, fa piacere raccoglierli nella mano e legarli in una piccola coda di cavallo. Vediamo l’ultimo numero del giornalino Gli amici del Santa Maria Goretti appeso in bacheca. Chi è questa? Sono io! Lo dice con sicuro orgoglio. La foto dei suoi vent’anni, in bermuda e zatteroni, sulla spiaggia del Lido, in mezzo alla pagina tutta dedicata a lei. In alto, piccolina, la foto di oggi, il sorriso nelle ombre incerte della stampa, accanto il titolo: Chiara dal Veneto alla Lucania. Hanno pubblicato interamente il racconto che ho scritto sulla sua vita. Più tardi, lì vicino, quando sentirò un’operatrice che non conoscevo ripetere a Chiara, sorridendo, alcuni punti salienti della sua storia, con le “mie” parole, che sono le parole del nostro lessico familiare, che hanno cercato di riecheggiare il più possibile quelle stesse di Chiara e dei racconti sentiti da piccola, sarà un momento di vera gioia. Una piccolissima grande ricompensa, a conferma di aver fatto una cosa “per bene”. Il giornalino me lo porto a casa, lo leggo in treno, penso che lo spedirò a Belluno a zia Amalia, che ha scritto a Chiara un biglietto, l’unica posta ricevuta da quando è a Senigallia. 150 151 29 settembre 1996 Chiara, a tavola, riferendosi a Rosalia: Io le ho voluto bene ancora prima di incontrarla. 2 ottobre 1996 La voce di Chiara nella segreteria telefonica: Sono a Belluno, mi fermo qualche giorno… Chiara passeggia nel corridoio a braccetto con un’operatrice, insieme a un altro ospite. Ha i capelli raccolti in un ciuccetto, legato con un elastico ornato da tre fiorellini. I capelli lisci lisci, lavati da poco, continuano a mantenere il loro color miele. I più corti sfuggono e incorniciano appena il viso: ormai mi sono abituata a questa pettinatura che la fa più severa. Non so quali mani oggi le abbiano acconciato i capelli, ma sono grata a quelle mani. L’attenzione e la cura si riflettono in mia madre, rimandandole la sua incerta immagine più dignitosa, forse un po’ più afferrabile. Sono io, sei tu, mia madre, mia figlia, come diventano fluttuanti questi due ruoli, come si confondono, si scambiano, ma in fondo non è stato sempre così? E al fondo, al fondo di ogni vero rapporto, è possibile forse mantenere le distinzioni, rigidamente, senza abbandonare una parte di sé, assorbendo una parte dell’altro? Chiara sta mangiando tranquillamente, e alla fine pesca con la mano dal piattino di mele cotte della vicina. Quando viene rimproverata dice che non ha mangiato niente, se fosse per lei ricomincerebbe da capo. Cercare di distrarla non è difficile, la sua attenzione dura un attimo. L’infermiera si ferma dietro di lei per sussurrarmi qualcosa che non deve sentire. È subito allarme. Voglio sentire anch’io (e si rattrista). Mia madre ha ancora un udito finissimo. Bastano poche parole dell’infermiera e la scena cambia completamente davanti ai miei occhi increduli. Si è levata il pannolone, gioca con i suoi escrementi nel letto come fossero pongo, così la trova l’infermiera che arriva per il turno delle sei. La lavano tutta, lei si arrabbia un po’, poi Maria Pia completa il lavoro con la pulizia e il taglio delle unghie. Mi chiedo che cosa sia rimasto in lei di questa esperienza, quali oscuri sensi di colpa e vergogna. Le veniva da piangere, alla fine del pranzo. La piccola foto, ritagliata da una foto di gruppo che le ho scattato in giardino nel mese di luglio, sul libretto che mi servirà per andare a riscuotere la pensione di accompagno, arrivata finalmente, dopo anni di domande e attese. Sotto la foto c’è scritto: impossibilitata a firmare. Eppure c’è un lampo di vivacità nei suoi occhi, è carina anche lì. Non ho voluto metterci una squallida fototessera. Mia madre finalmente mi appartiene. Penso al romanzo di Elfriede Jelinek La pianista: lì il possesso si trasforma in violenza, in un potenziale cannibalismo. Per me è mantenere qualcosa di lei, la sua parte migliore, il suo insegnamento di bellezza. 12 ottobre 1996 Fosca Parisi. Premio letterario per una ricerca inedita su una delle sue opere. Un milione al primo… Il manifesto, che avevo visto nell’atrio della casa di riposo, è affisso anche qui, nella Biblioteca Comunale di Senigallia, dove entro per la prima volta per chiedere di vedere i libri di questa donna sconosciuta. Sono un mucchietto sul ripiano in legno chiaro del tavolo che divido con una ragazza, tutti gli altri tavoli sono occupati, stu- 152 153 denti, zainetti, blocchi per appunti. Apro a caso qua e là, lascio scorrere lo sguardo su poesie e passi di racconti, con i versi è più facile, si può leggere un testo dall’inizio alla fine e farsene un’idea. Mi soffermo sugli indici, velocemente, forse un titolo potrebbe aiutarmi a scegliere. Intanto ritrovo un modo di scrivere sentimentale, tipicamente femminile, che sembra stemperare, addolcendolo, anche il dolore. Ma grattata via questa patina quasi da santino, che allontana molto più del dovuto le pagine della scrittrice dal nostro presente, riesco a sentirla vicina. Intuisco un forte legame con la natura, con gli animali, con Dio; sono subito colpita da certe atmosfere di attese adolescenziali, da una caparbia fiducia nell’amore, e l’immagine che mi porto via è quella di una piccola città abbracciata da un fiume e dal mare, dove l’acqua sempre presente diventa la sorgente fedele della poesia. Mi sembra impossibile passare in poche ore da quella vita appena scoperta nelle pagine a una porta del reparto semiautosufficienti della casa di riposo: la targhetta è uguale alle altre, Parisi Fosca. Sì è qui, dice la suora indiana, può entrare se vuole. Sono le sette di sera, la cena viene servita alle cinque e mezzo, e a quest’ora molte sono già a letto o si preparano per la notte. Lei non si è nemmeno alzata. Lo capisco dalla sedia in fondo al letto, dove è ripiegata soltanto una sciarpa di lana viola. La vedo di profilo, i capelli bianchi raccolti, il sondino fermato sul naso da un cerotto, il viso magro, gli occhi chiusi. Dorme? Non mi avvicino. Nel letto accanto al suo, quello vicino alla porta, una vecchia parla con la sua assistente in grembiule celeste. Un’altra dice qualcosa dal terzo letto, di fronte alla porta. Fosca Parisi: mi sembri circondata di lontananza, e forse già morta, la tua vita per un attimo, come dirla? un nastro che ha girato a un ritmo vertiginoso, e così è stato possibile accostare in un batter d’ali i due estremi, arrivando fino a questo silenzio. 20 ottobre 1996 La festa della vendemmia nel salone a pianterreno, addobbato per l’occasione con allegri grappoloni d’uva rosa, gialli, turchini. Tastiera, fisarmonica, cantante e presentatore sono nel mezzo; tutt’intorno file di sedie occupate da ospiti e assistenti, parenti, amici. Quando arrivo la festa è già cominciata, mi alzo in punta di piedi per guardare, affacciandomi alla prima porta. Qualcuno mi indica l’altro ingresso, mi fa vedere dove è Chiara: è seduta nell’angolo in fondo, insieme a Rosalia. Stento a crederci, con “tutto quel rumore” (così lei avrebbe definito un po’ di tempo fa la musica, associata alla confusione) Chiara se ne sta tranquilla, anzi sembra contenta, eccitata. Come al solito appena mi vede mi sorride, accenna il gesto di venirmi incontro, di abbracciarmi. La stringo a me, mi siedo vicino a lei, le chiedo se sta bene e se le piace la festa. Riusciamo a stare lì fino alla fine, mia madre riceve il suo piattino con i dolci al mosto e il grappolo d’uva, beve la limonata (il vino non mi azzardo a farglielo prendere, ma c’è anche quello, versato da una damigiana bene in vista!), balla con Rosalia, poi con me. Per Chiara vinco la timidezza e mi metto a fare un po’ il pagliaccio, ballo, vedo che ha bisogno di allegria, di movimento. Di abbracci. Lei continua a mostrarmi, orgogliosa: la sua bambina! Continua ad avvicinarsi agli altri, cercando di dire qualcosa, e risponde con piacere ai saluti, con il ciao di chi riconosce volti familiari. Alla fine della festa la vedo colorita in viso, serena. Mi sembra un’altra rispetto a quando veniva da me, negli ultimi tempi, e non riuscivamo più a distrarla nemmeno con la tastiera, era sempre ossessionata da qualcosa, voleva andare via. Ora ha trovato un suo ritmo. Andiamo a casa, io adesso vado a letto, vado a mangiare. Rosalia mi racconta che alle otto e mezzo si 154 155 addormenta con lei vicino senza bisogno di prendere il Talofen. Ci pensa l’infermiera a darglielo più tardi. Loro due parlano, parlano. Chiara quando è a letto, rilassata, le racconta tante cose della sua vita, Rosalia non riesce a riferirmele, qualche tassello manca, io le dico potremmo registrare, mi piacerebbe sentire quei racconti, farli entrare nel diario di Chiara. Abbiamo pensato di chiedere al medico se le diminuisce la dose di Talofen, quelle venti gocce continuano a essere un rospo difficile da mandare giù, so che ci sono mille controindicazioni ed effetti collaterali. Ho provato ad accennare la nostra idea all’infermiera perché riferisse al medico, con il quale non parlo da mesi. Evito, temo di litigare, ho capito che il tentativo di instaurare un dialogo un po’ approfondito viene scambiato per un “metter bocca” in competenze altrui, come se non mi fidassi. Peccato. Quanto potrebbe essere utile ai medici l’esperienza di chi sta vicino quotidianamente a questi malati, di chi li conosce attraverso l’affetto. Venerdì ho comprato Vademecum Alzheimer, un libro pubblicato a cura dell’AIMA, Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. Mi sembra utile e di facile lettura. Uno dei primi pensieri è stato: lo darei da leggere soprattutto ai medici! 21 ottobre 1996 Trovo Chiara seduta in una panchina vicino all’ingresso con Rosalia e Rodolfo. Si alza per venirmi incontro, contenta, le dico subito che andremo a fare una passeggiata approfittando del bel pomeriggio di sole. Ho portato la macchina fotografica, le scatto alcune foto insieme a Rosalia, prima di accompagnarla di sopra a prendere il soprabito. Rosalia avvolge Chiara con le sue attenzioni, ride, scuote la testa piena di ricci castani. Io la mamma non ce l’ho, le dice, è lontana, e tu mi fai da mamma. Chiara ha fame, nonostante la domenica diano un pranzo completo di dolce e abbia fatto anche merenda. Quando le metto degli spiccioli nel portafoglio e le mostro una moneta da cinquecento lire (ti ricordi che facevi collezione di queste monete con l’oro al centro? No, non mi ricordo), lei se la porta subito alla bocca. Poi si distrae per via dell’uscita, non cerca più il cibo, andiamo. Le indico le vetrine, la piazza, la gente, ma è incuriosita come al solito dai bambini. Scatto ancora qualche foto, mentre torniamo. Lei comincia a stancarsi, temo di averle chiesto uno sforzo troppo grande. Ecco la chiesa del Crocifisso, vedi? Siamo arrivate. A tavola il suo umore peggiora, mangia molto lentamente, mostrandosi disturbata dalle vicine e dalle suore. Invece guarda ammirata la signora con gli occhiali che siede, sempre silenziosa, di fronte a lei; vorrebbe parlarle, darle qualcosa, sembra volerle proprio bene. Quando ci alziamo, Chiara dice che vuole andare a casa. Io le dico che la sua casa è là. Per distrarla scherzo, e allora mi guarda severamente, come faceva spesso una volta: non vedi che non ho voglia di scherzare! E Rosalia conferma, dicendo che se ne accorge quando Chiara non ha voglia di scherzare e non ci prova nemmeno. Mentre ci avviamo verso il corridoio le viene da piangere, ha un momento di disperazione. È lucida, non ricordo le sue parole, avrei dovuto scriverle subito, ricordo che mi hanno fatto male. Spesso l’umore di Chiara peggiora quando si avvicina il momento dei saluti, la sera. In camera se la prende con la vicina di letto, Ginetta, che continua a ripetere: questo è il mio letto, lasciami stare. Non ho ancora capito se si rende conto o no delle condizioni di Chiara. In treno mi tuffo nella lettura di Strade blu: siamo in Oregon, e poi nello stato di Washington, tra cascate e salmoni 156 157 pescati dagli indiani di un tempo, tra giovani deltaplanisti e panorami mozzafiato. In mezzo al libro c’è una foto che mi sono portata via per farla riprodurre, perché si è rovinata. Chiara la teneva in ingresso, sul trumeau, era una delle più care: siamo noi tre insieme, sorridenti e vicini, al pranzo del secondo matrimonio di mio zio. Siamo una famiglia. 1 novembre 1996 Al mercato c’è una contadina che perse una figlia tanti anni fa. Frequentava la scuola media dove insegnavo, era la cugina di una mia alunna. Ci sono andata qualche volta, da quando mia madre non c’è, e oggi si fa coraggio e finalmente mi chiede: sua madre? Quando le dico che è all’Istituto Santa Maria Goretti di Senigallia, e che si trova bene, meglio che a casa, dove la sua vita era diventata impossibile, ha un sospiro di sollievo. Sono proprio contenta, mi dice, oggi è la seconda buona notizia. C’era anche un vecchio di novant’anni, un ex pompiere, viveva qui vicino, da solo, non lo vedevo più, e proprio oggi mi hanno detto che è in un pensionato a Osimo, si è ambientato, meno male, oggi queste due cose. Sorride, il mazzo di crisantemi rosa pallido me lo regala. Nell’ordine del suo mondo mi sembra di vederli questi due tasselli mancanti andare al loro posto, come spinti da un vento leggero. Me ne vado anch’io leggera, con le buste della spesa e i fiori; riesco a sentirmi nel flusso della vita. 4 novembre 1996 Non vedo Chiara da una settimana perché Giulio è in ospedale. Sono tornata da lei. Ho il cuore gonfio e quando l’infermiera mi dice che Chiara per due notti non ha dormito e le hanno aumentato le gocce di Talofen, portandole a quaranta, il pianto eccolo di nuovo. Ma questa volta più cattivo e rabbioso. Mia madre ne è subito contagiata, anche se cerco di nasconderglielo. Per fortuna Francesca e Alberto vengono a prenderla. Gielo dico: ecco come i vostri sforzi vengono annullati, voi organizzate tante attività, studiate psicologia, e loro li ingabbiano con i neurolettici! Chiara ha avuto già la sua crisi, vogliono che si ripeta? Ecco l’odio, verso i medici che non hanno pietà, che non dialogano, che non rispettano ogni vita umana nello stesso modo. Ecco come si scatena l’aggressività, lo sento su di me, dato che le parole non servono e io sono solo una figlia ansiosa e ficcanaso, mi viene voglia di menare. Io li vedo gli occhi di Chiara, sono stanchi, oppressi. Si spengono. E non resisto, mi sembra un tradimento. Per fortuna il diario di Rosalia. La complicità, l’ingenuità forse, il fatto di essere donne e di lasciarci guidare dall’affetto. Ci ripenso tornando a casa in corriera, sono tutta in subbuglio, mi chiedo se avrò la forza di aiutarli, Chiara e Giulio. Rivedo le pagine dell’agenda verde scuro con i caratteri minuti e irregolari tracciati dalla biro celeste, ogni cronaca sotto la sua data, i saluti alla fine con i due nomi, Chiara e Rosalia. Queste brevi annotazioni hanno qualcosa di diverso dai racconti che siamo abituate a scambiarci, forse il fatto di potersi soffermare e la speciale intimità fisica che ogni calligrafia dischiude. È come riconoscersi dall’odore, diario con diario, e allora perché non ricopiarlo semplicemente nel mio? Mentre copio affondo in ogni parola, lasciandole tutto il tempo della risonanza. Ascolto il suono di una voce. 21 ottobre – Oggi anche se molto nervosa Chiara mi accoglie felicemente. Io come al solito le cambio il pannolone e fac- 158 159 cio lavare le mani e il viso poi le faccio fare merenda dopo infilandoci un cappotto e un cappellino siamo uscite fuori per le strade di Senigallia abbiamo approfittato che c’era un bel sole e l’aria molto calma. Attraversando il Duomo e i Portici siamo finite davanti a un negozio di scarpe e abbiamo comprato delle ciabatte, che Chiara s’è scelte. Abbiamo curiosato qua e là siamo ritornate per l’ora del caffè. Dopo cena è venuta mia figlia e abbiamo guardato la trasmissione Luna rossa Luna azzurra. Chiara ha partecipato moltissimo! Mentre scrivo queste righe è a letto tranquilla mangiando un pavesino e collaborando con me a scrivere quello che abbiamo fatto. 23 ottobre – Questo pomeriggio Chiara l’ha trascorso abbastanza bene ha fatto la ginnastica insieme ad altre persone con la guida di Daniele e Simonetta in compagnia di uno stereo che ci trasmetteva belle canzoni. Quando siamo scese di sotto è andata alla ricerca di sua figlia chiedendo a tutti: hai visto Tiziana? 24 ottobre – Oggi siamo state in chiesa prima al Rosario e Chiara si è addormentata sulla mia spalla però ogni tanto rispondeva alle preghiere poi c’è stata la Santa Messa Chiara s’è svegliata e ha partecipato anche lei poi parlando e scherzando col personale abbiamo ballato la macarena che è molto divertente è arrivata anche la biancheria e mentre la sistemavo nell’armadio Chiara s’è infilata in testa la maglia viola e non ne poteva uscire fuori io da un buco della maglia le faccio cu cu? Scoppiamo a ridere insieme siamo due bambine. 25 ottobre – Chiara è abbastanza tranquilla reagisce molto bene anche se prende poche gocce. Oggi non voleva fare la cacca perché aveva paura di darmi fastidio io le ho assicurato che non era vero e dopo mi ha fatto tanti ringraziamenti per averla aiutata non finiva mai di dirmi grazie è una persona molto dolce. Oggi 31 ottobre – Io e Chiara abbiamo trascorso una giornata tranquilla girando un po’ di qua e di là parlando con tutti soprattutto con persone allegre. Come sono arrivata sedendosi vicino a me mi racconta tante cose e poi ride soddisfatta io penso che cerca di dirmi i discorsi che ha fatto con la sua Tiziana. Io le dico sei contenta è venuta Tiziana lei davvero è venuta non me lo ricordo più io le dico guarda i biscotti questa è la prova lei sorride e mi dice come sempre hai ragione tu. Ieri 30 ottobre – Chiara era molto agitata, io ho cercato di distrarla ma poi s’è calmata quando le dicevo andiamo a vedere se possiamo aiutare quella signora che è caduta e s’è fatta male lei quando vuole sa essere una brava infermiera, infatti parecchie volte insieme aiutiamo Iole Pani ad andare in camera oppure facciamo fare qualche giro di passeggiata a qualche signora solo uno non più di un giro perché Chiara è molto gelosa se quella dice più di una parola con me presto la spedisce via e rivolgendosi a me mi dice stiamo insieme noi due che stiamo tanto bene! 2 novembre – Caro diario ti racconto, appena apro la porta ecco Chiara venirmi incontro chiedendomi con un piccolo sospetto: sei venuta per stare con me io le assicuro che è così con un bacio e prendendoci per mano ci sediamo sul letto di Chiara dove ci raccontiamo tutto io le dico cosa ho fatto nella mattinata. Lei fa la stessa cosa poi le dico: dai facciamo presto che andiamo giù a bere il caffè. Lei pronta a rispondere che non ha soldi io le dico non c’è bisogno perché ce li ho io e offro io. Lei eccola impuntarsi come se si volesse inquietare mi dice non è giusto che offri sempre tu io le dico va bene 160 161 vuol dire che quando avrai i soldi mi farai un regalo così le torna il sorriso e scherzando alza la mano come per darmi uno schiaffo che poi finisce in una carezza. 5 novembre – Cara Tiziana ti raccontiamo di questo pomeriggio l’abbiamo trascorso fuori della casa di riposo siamo andate a fare una lunga passeggiata insieme a Daniele e Simonetta Vera e Claudia. Siamo ritornate per l’ora di cena tutti facevano i complimenti a Chiara che stava molto bene col cappotto rosso e il suo cappellino bianco. 26 novembre – Sono mancata un po’ di giorni al mio rientro Chiara l’ho trovata un po’ agitata ma molto felice di vedermi. Poi c’è Simonetta che le dice: ecco che arriva e Chiara tutta contenta: ma c’è Tiziana risponde. Io felice perché mi chiama con il nome della figlia l’abbraccio e andiamo via tanto noi due abbiamo sempre tante cose da fare insieme ci diciamo che dobbiamo ammazzare il tempo e vincere l’ansia cattiva. 28 novembre – Giornata tranquilla. Siamo andate al Rosario, abbiamo fatte tante altre cose il tempo è volato via come d’incanto. Ciao da Chiara e Rosalia. 3 dicembre 1996 Chiara seduta in corridoio, buona buona, vicino all’assistente di Rodolfo. È senza denti e sta mangiando un pavesino. Fa fatica a parlare, le sue frasi sono molto confuse, ma gli occhi vivaci esprimono la contentezza di vedermi. Mia figlia! Quanto sentimento può esserci in due semplici parole. Quanta intelligenza ancora concentrata lì, nello sforzo di pronunciarle. Le metto un foulard intorno al collo. Una forcina d’osso basta per trasformare il codino in una minuscola crocchia. I capelli sono puliti, morbidi, non sembrano i capelli di una vecchia. Più tardi cerco di farle mettere la dentiera, ma lei sembra aver dimenticato, tira fuori la lingua, lecca l’apparecchio, ci gioca. Non ci riesco, non ci riesce nemmeno l’infermiera. Mangerà così, senza denti, non è la prima volta in questi giorni; è la sua risposta al cambiamento di assistenti. Prima se ne è andata Maria Pia, poi Rosalia; lei non è capace di dirtelo, ma sente la differenza, si chiude, le ci vorrà tempo per abituarsi. Rosalia torna domenica per fortuna. Le leggiamo la storia della sua vita sul giornalino, Lisetta e io, mentre siamo sedute davanti alla finestra in salone. Lei segue, si commuove. Quando arriviamo alla morte di suo padre, Francesco, cambia espressione, sembra che le muoia in quel momento suo padre, gli occhi si fanno scuri scuri, ci sentiamo in colpa per non averci pensato prima, cerchiamo di distrarla. Nel corridoio ci fermiamo a parlare con Iole Pani. Come va? Male. È un tigraio qui. 15-16-17 dicembre 1996 Ricovero in ospedale per un episodio di “ab ingestis”. 20 dicembre 1996 Il nuovo salone del reparto infermeria ha pareti in varie tonalità di rosa, con la macchia verde di una porta accanto all’unica finestra. I tre lunghi tavoli verranno sostituiti da 162 163 tavolini a quattro posti. Ci sono diversi punti luce oltre al neon a soffitto. Avremmo voluto creare vari angoli da lavoro, come cucito, maglia, lettura, intaglio, per gli anziani che noi seguiamo in modo particolare; ma il presidente preferisce tenerli tutti nel salone invece che lungo il corridoio, si vede che non ci intendiamo. Il discorso fatto in fretta da Francesca si intreccia con il mio resoconto sul ricovero di Chiara. Mi sembra che ci sia un po’ di confusione e che non tutte le promesse vengano mantenute. Alcuni ospiti occupano adesso le belle camerette create al posto degli uffici, ma vengono da altri reparti, e la stanza di Chiara continua a essere a sei letti. Vicino a lei ora c’è la signora con il sondino e le manopole bianche. Come la vede mia madre ho potuto un po’ immaginarlo quando le si è avvicinata facendole una carezza: dopo vengo a trovarti, e altre parole che non ricordo. Con chi sta male non scatta la sua aggressività, forse gli ultimi istinti di protezione emergono di fronte a una persona più indifesa di lei. Piccola Chiara, questa volta quando sono arrivata all’ospedale, domenica sera, eri di nuovo rosea, mi hai subito riconosciuta; sonnecchiavi calma nel lettino e ti eri già dimenticata la sofferenza, che ancora una volta è stata Rosalia a raccontarmi. Non volevi mangiare, lei ti ha forzato a finire la minestra, tu a un certo punto hai cominciato a vomitare, continuando per più di un’ora. Ti veniva fuori solo catarro e dicevi di avere dolore al petto. La pressione era a 180, Rosalia ha temuto un infarto e ha messo in allarme tutti, così hanno chiamato la guardia medica e deciso di mandarti all’ospedale. Il mattino dopo, il medico del reparto era molto sicuro della sua diagnosi: è stato un episodio di “ab ingestis”, succede con i pazienti di questo tipo; quando comincia a ripetersi occorre mettere il sondino. Inutile sollevare delle perplessità, fare domande. Il medico mi ha chiuso la bocca dicendomi subito che l’ospedale non è adatto a persone come mia madre. Se già i medici hanno pochi dubbi, in un caso simile diventano sicurissimi del fatto loro. Ho chiesto una lastra del torace e me l’hanno concessa: l’esito è stato negativo, del catarro non si è fatto più cenno. La lettera di dimissioni, come la volta precedente, sono dovuta andare a chiederla. C’è scritto che si consiglia di ingerire cibi solidi e densi (ma una persona dovrà pur bere, lei è anche disidratata, che cosa significa questo consiglio?). Il medico del Santa Maria Goretti ha prescritto cibi liquidi e semiliquidi, soprattutto semolino e minestrone, pastasciutta per adesso niente. Prima sono stata zitta, poi non ho resistito e ho detto alla suora la mia sensazione che ci fosse un certo disaccordo fra i due medici. Ho telefonato in ambulatorio al dottore della casa di riposo, il quale non ha risposto. Intanto dicevo in cuor mio a Chiara: sei affidata alla fortuna, all’angelo custode che ti protegge, se ce n’è uno. Io debbo rassegnarmi, non posso controllare che in minima parte la tua vita. Tu però ti salvi anche dalla mia ansia, c’è chi può darti più serenità e allegria della tua bambina. Ti ho vista sorridere, vicino a Concetta, nel pomeriggio del tuo ritorno dall’ospedale. Francesca ti aveva chiesto inutilmente un sorriso, ma i sorrisi non si chiedono, nascono spontanei, come una nuvoletta che per un attimo si fa rosa nel cielo. Io vicino a te in ospedale avevo mille pensieri, mille preoccupazioni, e tu lo sentivi. Devi avermelo anche chiesto a un certo punto: sei preoccupata? 26 dicembre 1996 Non mi era mai capitato di prendere il treno, da sola, il giorno di Natale. Il pranzo terminato da poco, lascio gli altri intor- 164 165 no alla tavola, avviandomi in anticipo alla stazione. Piove, ho due borsone con i regali, non so dove troverò da parcheggiare, invece arrivo in cinque minuti dopo aver attraversato la città deserta, trovo subito un posto libero di fronte alla stazione, guardo l’orologio, manca quasi mezz’ora alla partenza, possibile? Raccolgo lentamente le borse, apro il mio ingombrante ombrello, bilancio i pesi in modo che non mi siano d’ostacolo mentre cammino, mi avvio verso il solito semaforo per attraversare. Faccio spesso questo breve viaggio da Ancona a Senigallia, ma oggi è diverso. Uomini e ragazzi davanti al caffè-ristorante, le guance arrossate, gli sguardi bevuti, nessuno si sposta per farmi passare. Al centro dell’atrio un grande presepio disegnato sul plexiglas, giallo e rosso. Davanti c’è una cassetta e un manifesto che invita a dare un contributo per la costruzione di una casa di accoglienza destinata ai malati di Aids. La capanna di Betlemme, la stazione, la casa disegnata sul manifesto. Scatole cinesi dentro la scatola grigia di questa città natalizia. Svuotata. Risucchiata dentro interni caldi. Invisibile. La stazione come un termometro delle sue fibrillazioni. Vuota come raramente accade di vederla, eppure funzionante, un po’ sprecata, una grande macchina con tutti i suoi ingranaggi in movimento, una giostra senza bambini. Perfino il tabaccaio aperto, con l’insegna illuminata, e la musica, me ne accorgo avviandomi al binario. Gli altoparlanti trasmettono musica per noi, viaggiatori sconsolati del giorno di Natale, non saprei decifrarla, ma suona strana, eccessiva. Si interrompe per l’annuncio di una partenza. Auguri ai signori viaggiatori. Il treno è pronto sul terzo binario. I vagoni sono illuminati ma chiusi. Continuo a camminare, nonostante il peso delle borse e dell’ombrello, seguendo due persone davanti a me, finalmente una portiera aperta, loro non salgono, io sì. Mi sistemo nel primo sedile, scompartimento fumatori, ma non importa, sistemo le borse sui sedili di fronte, il montgomery in quello accanto, aspetto. Qualcuno sale. È un uomo, giubbotto nero, trenta, trentacinque, sta fumando, si sistema più avanti, nella mia fila, si toglie il giubbotto, non lo vedo più. Salgono due ragazze, si avviano nella parte della carrozza riservata ai non fumatori. Una coppia. Anche questa scompare nei sedili dell’altra fila. Mancano cinque minuti, meno male, non ci sono soltanto io nel vagone. Tiro fuori il mio libro. Capitolo 5, Parigi. Siamo nel metro, guarda che coincidenza. In viaggio, nel sottosuolo di una città straniera, anche il protagonista legge. In piedi. La metropolitana dev’essere affollata. Annunci. Ricordi. Il treno è partito. La scatola grigia della città tra file di binari e file di case, io sono seduta come al solito dalla parte del mare, la schiuma bianca delle onde, i finestrini chiusi rigati dalla pioggia non mi fanno sentire che la voce del mare ha sostituito quella gracchiante della musica natalizia, non mi aspetto di vedere nemmeno un gabbiano. Non è tristezza il sentimento che provo, sofferenza nemmeno, ansia forse. Un’ansia diffusa, leggera, simile a una sospensione. Nel treno lungo ma vuoto, tra un mare schiacciato sui finestrini, case e strade dall’altra parte, nel velo della pioggia. Sto andando da mia madre con i regali di Natale, non voglio pensare che è il suo primo Natale in casa di riposo, forse l’ultimo. Al ritorno lo scompartimento è animato, c’erano una decina di persone ad attendere al binario. Mi hanno accompagnato alla stazione Concetta e il fidanzato, in macchina, una corsa all’ultimo momento, temevo di non farcela. L’aria più fredda, il vento misto a pioggia sotto la pensilina che ripara poco. Ho dimenticato l’ombrello nella fretta, ho infilato i ciclamini mandati da Rosalia in una busta di plastica. Sporgono due ciuffi rosa, si sciuperanno, penso. Quella pianta, simile a un gattino bagnato, mi fa compagnia. Mi sembra di ritornare da una battaglia. Una battaglia vinta. Non mi sof- 166 167 fermo sul suo svolgimento per adesso. Tiro fuori dalla borsa il libro. Distrarre. Non è questo il compito delle storie? Portarci via e poi, indirettamente, cambiando il punto di vista, riportarci a noi, zigzagando, alleggerendo, tenendoci per mano. Vorrei fare qualcosa che conta. La mia casa è bruciata tutta. Vorrei dare fuoco a questa casa. Vorrei fare una casa nuova.
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Maria Grazia Maiorino: romanzo,
RACCONTARE K'ALZHEIMER |