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Maria Grazia Maiorino:
quasi una fiaba: 1° Premio 2023 Ass.Versante

 

 

 

Il testo Quasi una fiaba, di Maria Grazia Maiorino, si contraddistingue per una prosa lirica, pervasa da un intenso afflato poetico, ricca di eleganti metafore e piacevoli sinestesie che sottolineano il fascino misterioso di una città capoluogo di regione, Ancona, dove l’antico faro con la sua luce, metafora di speranza, si personifica fino a trasfigurarsi in una guida per i viandanti e, come in un’inquadratura cinematografica, illumina a poco a poco un giardino incantato, il locus amoenus dove la narratrice bambina amava rifugiarsi per fantasticare, in un quartiere elegante della città.

Gabriella Veschi

 


 

 

 

 

...si affacciava una bambina bellissima,
dai lunghi capelli biondi...
Disegno a punta penna di Raimondo Rossi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

... Seduta accanto a lui in fondo a un molo
che non esiste più avevo ascoltato stupita la storia...
Acquerello di Raimondo Rossi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

...si addentrarono in quello strano bosco inselvatichito e prezioso di specie vegetali e di antiche pietre ... si promisero l’un l’altra che il giardino sarebbe stato la loro casa per sempre...

 

Quasi una fiaba

 

Avevo un giardino sulla collina. Un giorno qualunque lo lasciai senza un saluto, senza sapere che non ci sarei più tornata. Volli dimenticarlo. Per anni le mie passeggiate finirono prima di arrivare alla stretta via fiancheggiata da un muretto di pietra, simile a un balcone affacciato sulla città.   Poco tempo fa sono ritornata. Una ringhiera di tubi metallici ha sostituito, chissà perché, il muretto-balcone, e davanti ci hanno messo due panchine. La casa ha il portone chiuso con le targhette nuove dei campanelli e vasi di gerani nei portafiori alle finestre. Un moderno cancello di lamiera, impenetrabile, ha sostituito quello vecchio di legno. Non avevo mai notato i cocci di bottiglia sul muro di cinta.  E’ stato quasi un sollievo. I luoghi cambiano come cambiano le persone. Avevo sentito un giorno un’inquieta sintonia con la città serpente che come me stava cambiando pelle. Ora constatavo una perdita, un’estraneità dei luoghi. E a quelli reali si sovrapponevano, disegnati nella luce dorata del tramonto, i particolari conservati nella memoria: la volta elegante dell’atrio, sempre visibile dal portone spalancato, la scalinata interna di pietra, la linea semplice e austera delle finestre, il bordo arrotondato del muretto, sul quale tante volte avevo fatto scorrere la mano senza sapere quanto mi era caro, la catenella chiusa da un lucchetto, le assi larghe del cancello che lasciavano vedere il giardino.

  

Lui era nato in una vecchia casa sulla collina, proprio dove finiva la città. Se dal porto la cercava lassù la casa si perdeva fra i tetti, ma si poteva distinguere la costruzione del vecchio faro e, sotto, una macchia verde. Quello era il suo giardino. In verità il giardino apparteneva a una villa, della quale il padre del bambino era custode; poi la villa era stata demolita. Era accaduto quando il bambino era molto piccolo, e la famiglia del custode era rimasta a vivere lì, nella vecchia casa della servitù, con stanze che si aprivano su minuscoli orti, tagliati nel pendio della collina. La casa confinava con il giardino: vi si scendeva calandosi dal muretto interno degli orti o si entrava per il grande cancello di legno che continuava a fare da guardiano.   Finché non arrivò il momento di andare a scuola, il bambino visse in quel mondo appartato; il muro alto e il cancello lo separavano dagli abitanti del quartiere che si arrampicava lì sotto, uno dei più poveri del centro storico. Lui era considerato figlio di signori, per il suo restarsene segregato dagli altri, perché le rare volte che lo vedevano uscire era pulito ed elegante e per uno strano scambio di parti. Infatti, via via che la gente si dimenticava della villa scomparsa, il palazzetto rimasto prendeva il suo posto, dandosi sempre più importanza agli occhi dei vicini.  I giochi del bambino erano fatti di lunghi silenzi durante i quali si perdeva nella sua immaginazione. Trascorreva ore e ore in cima al suo albero preferito, guardava le navi partire per andare lontano, le guardava finché diventavano un punto quasi invisibile all’orizzonte e quando scomparivano poteva continuare a sognarle, sospeso lassù, dove niente era solido come la terra. Le gambe erano sempre graffiate e i vestiti strappati, i piedi nudi nella bella stagione facevano presa facilmente sui tronchi, non c’era albero dove non avesse provato a salire.  Ma il giardino era ancora misterioso per lui, con tutto quello sbocciare ogni stagione di fiori che lo sorprendevano come animali dai nomi sconosciuti, muti come lui a paragone degli uccelli, che cinguettavano rumorosi tra le foglie. Perché non parlavano i fiori? O erano profumi e colori a parlare per loro?

 

 Quando incominciai ad andare a scuola mi accorsi che lungo la strada c’era una finestra speciale, alla quale a volte si affacciava una bambina bellissima, dai lunghi capelli biondi. La madre glieli spazzolava mentre lei teneva in mano una tazza o infilava un dito tra le sbarre della gabbia dove saltellava un canarino. Altre volte, quando passavo, la finestra era ancora chiusa e inutilmente la fissavo, fermandomi un momento e pronunciando dentro di me una formula magica che avevo inventato. Allora tutta la mattinata non diventava altro che l’attesa di ritornare a passare lì davanti.  Il primo fiore che imparai a riconoscere fu la rosa. Aspettai con impazienza la prima rosa del giardino per donarla a lei. Era un bocciolo dai petali candidi, vellutati; lo staccai con delicatezza dal suo cespuglio una mattina di maggio e sperai con tutte le mie forze che la finestra fosse aperta, altrimenti il mio fiore sarebbe appassito sotto il banco di scuola.   Lei era affacciata, sembrava che mi aspettasse. Quando le lanciai la rosa allungò le braccia per prenderla e l’accarezzò come se fosse una perla. Poi mi fece un cenno. Passò un attimo lunghissimo, il mio cuore batteva forte, non riuscivo a credere a quello che stava succedendo: lei aveva preso la rosa, l’aveva stretta tra lo sguardo e le mani, che cosa potevo desiderare di più? Chiusi gli occhi e confusamente pensai che il mio cuore non avrebbe sopportato una felicità più grande. Non potei riaprirli subito perché la pressione morbida di due piccole mani me lo impedì.   Era accanto a me, mi prese la mano, la rosa infilata nella cintura del vestito celeste, e insieme corremmo verso la strada che portava al grande cancello. Ogni timore scomparve, il cuore ricominciò a battere regolarmente, era come quando sulla cima del mio albero sognavo a occhi aperti e dalla mia bocca muta uscivano fiumi di parole alle quali rispondevano il fruscio dei rami e il canto degli uccelli. Il cancello si aprì con un tocco leggero e rimase chiuso alle nostre spalle, era un vecchio gigante buono che ci proteggeva.

 

 Seduta accanto a lui in fondo a un molo che non esiste più avevo ascoltato stupita la storia, e mentre diventava invisibile la macchia lassù sotto il faro, e un altro faro si accendeva mandando i suoi raggi sulla città fino a noi, si ingrandiva e prendeva forma come un luogo incantato il giardino.  Naturalmente quella che ti ho raccontato non è una storia vera, forse é il ricordo del mio appassionato desiderio infantile, per il quale solo adesso riesco a trovare parole. La bambina, quella sì, esisteva realmente, io le lanciavo fiori passando sotto la sua finestra e lei li prendeva, ma non osai mai parlarle e non sapevo nemmeno il suo nome. Fu la segreta compagna di tutti i miei giochi...

 

 Ecco, fermiamoci qui, da questo muretto si possono contemplare i più bei tramonti della città, senti, la pietra è ancora calda di sole. La villa  si trovava proprio dietro di noi, dove ora c’è il prato, non rimane nessuna traccia. Solo incamminandosi sotto gli alberi si scoprono viottoli ancora  visibili nell’intrico della vegetazione. Vieni, questo porta a una piccola radura in mezzo alla quale c’è una fontana di marmo grigio a forma di conchiglia, circondata da quattro sedili anch’essi di marmo. All’interno della conchiglia c’é ancora la piccola statua che mandava lo zampillo dell’acqua. Le foglie a forma di cuore che crescono lungo il sentiero sono di violette, violette bianche, le più rare, io credevo che crescessero solo qui. Bianche come la mia rosa, disse la bambina, e alzando gli occhi verso di lui si accorse di altre rose bianche, più piccole e con meno petali, che brillavano nel verde intenso di un folto cespuglio davanti a loro. Questo è il fior d’angelo, profuma di limone, disse il bambino. La bambina ne raccolse uno che galleggiava sui fili d’erba come il guscio di una minuscola barca, insieme alla forma dei petali anche il profumo si fece più distinto, raccogliendosi tutto nel palmo della mano.

 

 Adesso era mattina, una mattina di maggio con l’aria già tiepida. Di nuovo salirono fino alla spianata bianca di pratoline e si addentrarono in quello strano bosco inselvatichito e prezioso di specie vegetali e di antiche pietre, una continua sorpresa di passaggi nascosti, di slarghi, di nuovi sentieri. Arrivarono in fondo, tra l’edera si intravedevano appena la mura della recinzione a monte e la lunga vasca della peschiera, dove qualche raggio multicolore guizzò nell’acqua scura. Vicino alla vasca c’era un pino dal tronco leggermente storto, il suo albero preferito; fra i rami della grande cima a ombrello erano trascorse tante ore della sua infanzia. Lì sotto .  Lui continuava a farle da guida, scegliendo sicuro il sentiero, quando questo si diramava e quasi si perdeva nel folto della vegetazione; tra le ombre apparivano grappoli gialli simili a lampioni appesi, rami interamente fioriti di rosa e sfumature di verde sempre nuove. Lei si accorse che ovunque cantavano uccelli con voci diverse e che il canto sembrava uno solo, era la canzone del bosco. E’ il saluto per te. Anche gli occhi a mandorla di lui splendevano di gioia, lo vide bambino, non ci fu più bisogno di parole.   Ora il sentiero si faceva stretto stretto, un orlo sottile sotto la mura, stando attenta a non scivolare si fece largo fra i rami. Sotto di lei apparve la città, così piccola e raccolta che sembrava di poterla toccare con una mano: case tetti campanili si confondevano con le navi ancorate nel porto e tutto sembrava sul punto di partire e di sparpagliarsi nel mare. In lontananza le colline sfumavano in una leggera foschia, lasciando indovinare un’altra città. Sedettero sul ciglio, lui le indicò una nave che, simile a un grosso insetto, strisciava sull’acqua allontanandosi lentamente. Di notte Ancona diventava una città fatta solo di luci, con i raggi del faro gettati su di lei come nastri o come strade che si perdevano nel buio...

 Maria Grazia Maiorino

 

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