Per coloro che cercavano di
salvarli, il rischio restava alto. Nonostante ciò tanti urbinati si
prodigarono per la loro salvezza a partire da Concetta Ceccarini Logli,
don Dante Lucerna, don Gino Ceccarini... Dopo l' 8 settembre, nonostante
l’arrivo dei tedeschi in città, trovarono asilo da tante famiglie, una
notte qua una notte là, finché si pensò di ricoverarli in ospedale,
ritenuto un luogo sicuro.
Ed era proprio
lì che alle cinque del pomeriggio
del 12 agosto 1944 irrompono le S.S., caricati sul camion in cui si
trovavano già altre due coppie arrestate a Fermignano e a Sant’Angelo in
Vado, vengono condotti a Forlì ove saranno fucilati, gli uomini il 5
settembre, le donne il 17. E pensare che appena sedici giorni dopo
Urbino sarà liberata!
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GADDO MORPURGO
Sotto, un raro
ritratto di Gaddo Morpurgo, nato a Gorizia il 1 marzo 1920 e fucilato a
Forlì il 5 settembre 1944.
Gaddo Morpurgo è l’unico ebreo
italiano, degli otto arrestati in Urbino da un commando delle S. S. e
fucilati nel campo d’aviazione di Forlì, sull’orlo dei crateri aperti
dai bombardamenti. Era il 5 settembre 1944, non c’era più tempo per
deportarli in Germania, gli Alleati erano ormai vicini. Tutto era
cominciato l’8 settembre 1943. «Armistizio. Gioia fugace, nel primo
momento tutti speravano nella pace poi...». Con queste parole Attilio
Morpurgo, presidente della Comunità ebraica di Gorizia, inizia il diario
in cui registra gli eventi di quegli anni terribili. Si era rifugiato ad
Ostra Vetere, con la moglie, la governante e il figlio Gaddo, di 23
anni. Ogni volta che nomina il giovane lo apostrofa con gli appellativi
più affettuosi, «il mio angelo... santo... benedetto...- e più spesso -
Gaddo, luce degli occhi miei».
Tre mesi tranquilli, gli ultimi,
poi un mattino all’alba del 7 dicembre, giunge trafelata la moglie
dell’appuntato per avvertirli che di lì a poco sarebbero venuti ad
arrestarli. E infatti con i carabinieri, stupiti di trovarli ancora in
casa, giunge il segretario del partito, Galeazzo Titti che li conduce
tutti a Senigallia ove, dopo ore di interrogatori Gaddo verrà internato
nel locale Campo di concentramento Unes, gli altri rispediti a casa con
l’obbligo di residenza. La direttrice del Campo lo conforta e lo
consiglia. Quando verrà mandato verso il Nord, giunto a Pesaro, accusa
un malore. Sottoposto alla visita del medico provinciale, sarà
trasferito nel carcere di Urbino. Qui passerà mesi sfinito dalla fame.
Vede l’alba sorgere dalle Cesane, tante livide albe insonni tormentato
«dai dolori allo stomaco, giramenti di testa, dolori intercostali... ho
perso 14 chili» come scrive al padre nelle sue tante lettere nelle quali
chiede che di tanto in tanto gli si mandi una pagnotta di pane. Anche la
direttrice del Campo, Iolanda Diamantini, donna di grande umanità,
risponde alle sue lettere dando istruzioni su cosa fare per farsi
rimandare a Senigallia e ricongiungersi ai suoi, anch’essi, nel
frattempo, internati nello stesso Campo. C’è tutto un fitto carteggio,
lettere e cartoline con su scritto «Vinceremo», ma l’Italia ha già
perso, con gli Alleati che avanzano dal Sud e i tedeschi, anche se ormai
prossimi alla ritirata, più feroci che mai. In questa situazione caotica
i carabinieri di Senigallia, in due giorni, riescono a portare gli ebrei
internati del Campo verso Sud, verso la salvezza.
Attilio
Morpurgo descrive nel suo diario il
bombardamento di Osimo ove per ben due volte grosse schegge di bombe
colpiscono il posto in cui sedeva fino a pochi istanti prima e se ne
rallegra e, pieno di speranza, si chiede: «...perché il Signore mi
avrebbe salvato se non fosse per farmi riabbracciare il mio adorato Gaddo?, altrimenti meglio sarebbe io fossi morto». Intanto in Urbino
della sorte di Gaddo e di un altro giovane ebreo, Artur Amsterdam di 22
anni, molto si preoccupa l’assistente carceraria Concetta Ceccarini in
Logli, così come di altri ebrei e partigiani. Era riuscita a farli
uscire dal carcere e a sistemarli prima presso la chiesa di san Sergio,
ma poi - quando sul parroco don Gino Ceccarini si concentrarono i
sospetti delle S.S. tanto da dover egli stesso fuggire - presso qualche
famiglia, un giorno qui e un giorno là. Infatti per una grave
«dimenticanza» di Vittorio Emanuele III, le Leggi Razziali erano ancora
operanti nonostante fosse già trascorso un anno dalla caduta del
fascismo, la gente quindi temeva ancora di incorrere nelle gravi
sanzioni previste per quanti avessero dato aiuto agli ebrei. A questo
punto, su consiglio di un medico ebreo anch’egli rifugiato a Urbino,
Concetta pratica al giovane Gaddo un’iniezione di latte per provocare la
febbre e quindi un pronto ricovero in ospedale luogo da tutti ritenuto
sicuro: era già il 7 agosto. Proprio quando, grazie alle cure affettuose
dei medici e alle premure di suor Fabiola (divenuta poi Superiora
nell’ospedale San Galicano a Roma) Gaddo comincierà a riacquistare le
forze, ecco irrompere la temuta polizia tedesca con in mano l’elenco
degli ebrei già detenuti nelle carceri di Urbino, secondo alcuni circa
una decina. E’ un mistero come fossero venuti a conoscenza della loro
presenza nel nosocomio urbinate.
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Preg.ssimo Attilio Morpurgo
Campo di Concentramento
Colonia Marina "Unes"
Senigallia (Prov. Ancona)
mitt. Morpurgo Gaddo Via s. Girolamo
8 Urbino e se non ricevete i miei scritti è perchè
la posta ritarda.
Attendo vostri scritti ed intanto ricevete
i miei baci.
Vostro Gaddo |
A destra, una delle cartoline che
Gaddo Morpurgo riuscì ad inviare al padre Attilio Morpurgo,
detenuto nel campo di concentramento «Unes» di Senigallia. Il
segretario del partito fascista che lo condusse alla prigionìa,
finì a sua volta in carcere e dopo la Liberazione scrisse al
padre di Gaddo per avere una lettera di aiuto per uscir di
prigione
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Ebrei in Urbino]
Oltre a quello di Gaddo Morpurgo figurano i nomi di
Joseph Loewsztein di soli 29 anni nato a Varsavia, di
Georg Gottesmann di 45 anni e Joseph Temann di 52 entrambi
viennesi, e dell’intera famiglia
Joseph Amsterdam composta dal
padre Joseph, un polacco di 60 anni e la madre Salka
(Sara Jalka) Richter, di poco più giovane, e i figli
Selma e Arthur, quest’ultimo nato in Germania, appena
ventiduenne. Erano stati reclusi nel carcere di san
Girolamo, da cui in luglio erano riusciti a fuggire
approfittando del momento di confusione generale di
un’Italia allo sbando tra la fuga del re e la presenza
dei tedeschi. Aiutati, nascosti
nel sottotetto della chiesa di san Sergio da don Gino
Ceccarini, poi anche da privati e dall’instancabile
Concetta Ceccarini finiscono con l’essere ricoverati nel
reparto Isolamento dell’Ospedale ove si riteneva fossero
al sicuro. Ed è proprio lì che vengono arrestati il
pomeriggio del 12 agosto 1944: il primario, professor
Canzio Ricci, annota nella cartella clinica di ciascuno
«fatto uscire d’autorità dalla polizia tedesca».
«Erano le cinque del pomeriggio
del 12 agosto 1944 — racconta il dottor Bruno Borgogelli all’epoca
giovane aiuto nel reparto di Medicina — eravamo in piedi sull’ultimo
gradino dello scalone di ingresso, quando dalla scala esterna sono
saliti, preceduti e seguiti dalle S.S. con i mitra puntati, gli ebrei
che avevamo in cura da giorni nel reparto Isolamento. Ho battuto una
mano sulla spalla di Gaddo, di poco più giovane di me, gli ho detto,
arrivederci..., mi ha guardato... ha scosso il capo e... no..., questa
volta no, mi ha risposto... Mi sono chiesto spesso quale fine avesse
fatto... non ho mai dimenticato quello sguardo!».
Fuori, all’interno di un camion
dell’esercito tedesco, attendevano due coppie ebree appena arrestate nei
centri vicini. Destinazione per tutti, Forlì. Nel 1945 giungono ancora
lettere di richiesta di notizie da parte di Attilio Morpurgo che, ignaro
della tragica sorte del suo adorato Gaddo, lo cerca in Urbino: ultimo
indirizzo a lui noto. Ironia della sorte, riceve invece una lettera
dall’ex gerarca Galeazzo Titti, ora in carcere, che lo supplica di
deporre in suo favore affinché gli Alleati gli restituiscano la libertà.
I giovani della
Brigata ebraica rinvennero anche i poveri resti di quelle due coppie
presenti all’interno del camion sul quale le SS avevano caricato gli
ebrei arrestati nell’Ospedale di Urbino: i Paecht e altri due
Amsterdam. Karl Joseph Paecht, rumeno di 55 anni e sua
moglie Maria Rosenzweig, ungherese di 47 anni erano
stati nascosti con altri ebrei a Sant’Angelo in Vado.
Quando si diffuse la notizia di un imminente
rastrellamento tutti fuggirono nascondendosi nei boschi,
mentre i coniugi Paecht, ormai stanchi delle continue
fughe, sfiduciati si erano lasciati arrestare.
Ancora più tragica la storia
dell’altra coppia, arrestata lo stesso giorno a Fermignano: sono
entrambi polacchi, Israel Amsterdam di 45 anni e sua moglie Lea Rosenbaum di 38. Appena sposati si erano imbarcati a Trieste nel 1940,
diretti, via Siracusa, a Bengasi per poi raggiungere con altri fuggitivi
la Palestina, aggirando il blocco navale inglese che impediva lo sbarco
agli ebrei provenienti dall’Europa. Era questo un “favore” che la Gran
Bretagna faceva agli arabi per non compromettere i propri interessi a
Suez. Purtroppo, a causa dell’entrata in guerra dell’Italia, il gruppo,
che contava 302 persone, rimase bloccato nel settembre del ’40 a
Bengasi, e fu riportato in Italia nel campo di internamento per ebrei
stranieri di Ferramonti. Israel e Lea furono i soli ad essere
trasferiti nel campo di internamento di Fermignano. Una tragica fatalità
poiché quanti rimasero a Ferramonti, furono i primi ad essere liberati
dalle truppe alleate che risalivano la penisola.
La notizia di questo ennesimo
eccidio perpetrato dai tedeschi sul nostro territorio, nonché
l’identificazione dei cadaveri, si deve ai giovani ebrei della Brigata
ebraica, giunta dalla Palestina, al seguito dell’VIII Armata Britannica
sotto il comando del maresciallo Alexander. Ma questa è un’altra storia.
Per completare queste tristi storie locali vanno
ricordati quei cinque ebrei, urbinati di nascita, ma da anni residenti
altrove, deportati ad Auschwitz tra il ’43 e il ’44 e lì mandati nelle
camere a gas il giorno stesso dell’arrivo:
Arrigo Coen (fratello di
Ughetto) arrestato a Milano
Lina Milla arrestata a Milano assieme ad Arrigo
Jole Bemporad a Ferrara
Vittoria Levi arrestata a Verona
Eva Moscati originaria di Urbania arrestata nella razzia del 16
ottobre 1943 a Roma.
«Zakor». Ricordiamo.
Maria Luisa Moscati Benigni
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