Non
è assolutamente scontato sentirsi orgogliosi o in qualche modo fieri
di chiamarsi Volponi se si vive a Urbino. Per lo meno non lo è stato
per me.
Fin da
piccolo sono stato abituato dai miei parenti paterni a portare
questo cognome con un certo senso di fierezza: appena sono nato io
infatti (nel 1992), nemmeno tempo di un paio d’anni, tutto il Paese
è in cordoglio per la scomparsa di un mio parente illustre. Paolo.
Nella mia
famiglia è normale chiamarlo col solo nome: Paolo. Non Paolo
Volponi. Di Paolo ce n’è uno solo, e anche di Paolo Volponi ce n’è
uno solo, anche se… ma lo vediamo dopo.
Dicevamo
che, quando ancora io non parlavo né tantomeno ero in grado di
capire cosa succedeva nel mondo intorno a me, Paolo purtroppo morì.
E fu così che a Urbino eressero un busto nei giardini del Monte tra
gli Urbinati illustri e coloro che, pur non Urbinati, resero Urbino
famosa nel mondo. E fu così che intitolarono una scuola media al suo
nome, oggi divenuta Istituto Comprensivo. E fu così che quando io
finalmente divenni in grado di comprendere, e cioè al tempo delle
elementari, cominciò la lunga tiritera del: “Ma tu… sei parente di
quel Volponi lì? Lo scrittore?”. I più malevoli invece dicevano: “Tu
sei parente del senatore?”
La prima
volta che me lo chiesero non seppi cosa rispondere. Ignoravo che
qualche mio omonimo fosse famoso, e soprattutto non capivo perché,
eventualmente, lo chiedessero a me. Domandai a mio padre perché mi
facessero tali domande. Fu così che seppi che mio padre era cugino
(anche se non di primo grado) di un poeta, scrittore, dirigente
d’azienda e politico.
Da quel
momento in poi la mia risposta fu sempre pronta: “Si, siamo parenti.
Era un cugino di secondo grado di mio babbo.” A quel punto la
persona che mi aveva rivolto la domanda sorrideva, e se ne andava
soddisfatta. Devo dire che non ho mai capito cosa della mia risposta
avesse soddisfatto così tanto coloro che mi interrogavano. Boh!
E vennero
le medie. Per vicinanza a casa e per continuità con le elementari
che avevo frequentato sempre lì, scelsi di iscrivermi alla da poco
nata scuola Pascoli. E lì le domande subirono un’ulteriore piega:
“Ma tu… sei parente dello scrittore Volponi?” “Si, era un cugino di
secondo grado di mio padre.” “Ma allora perché vieni alla Pascoli e
non sei andato alla Volponi?”
Non c’è
bisogno di soffermarsi sulla stupidità intrinseca alla domanda. Io
preferivo rispondere con una risposta altrettanto stupida, così da
zittire l’interlocutore: “Perché io mi chiamo Giovanni Volponi e
quando ho scelto ho preferito il nome, uguale a Giovanni Pascoli.”
Come se
io dovessi andare in una scuola solo perché è intitolata a mio zio.
Ma che discorsi sono? Boh!
Fortunatamente alle superiori la mia scuola si chiamava Raffaello, e
anche se in realtà anche lì c’era qualcosa da dire (Paolo frequentò
come me proprio il liceo classico in quella scuola), nessuno sapeva
di questo aneddoto e le domande finalmente ebbero un brusco calo,
anche se tutt’ora non si sono fermate.
Oggi, la
mia risposta è sempre quella: lontano cugino di mio padre. Del resto
come potrei dire altro? Mio padre stesso lo incontrò appena un paio
di volte!
Quando
ero piccolo però, subissato da quelle domande sempre uguali e ancora
sulla strada della comprensione delle mie origini, giunsi a mettere
in discussione il mio stesso cognome. Non sapevo più se mi piaceva
chiamarmi come dei grandi esemplari di volpe maschio. Magari era
meglio uno di quei cognomi classici, tipo Rossi, Bianchi, oppure
Garibaldi, magari Santi. Un giorno lessi perfino sul giornale che
era uscita una legge per cui chiunque, dopo validi motivi attestati
da un giudice, poteva fare istanza di cambio del cognome. Confesso
che ci pensai, ma poi mi dissi: ma in fondo cos’hanno di speciale
altri cognomi? Almeno dei miei avi so la storia, le vicissitudini. E
poi se mi chiamo Garibaldi tutti mi chiederanno di Giuseppe.
Rinunciai al mio intento. E decisi che era ora di informarmi su
questo Paolo.
Se
Volponi doveva essere, almeno che prendessi coscienza di chi era il
mio parente illustre. E così seppi che era (ed è tuttora) l’unico ad
aver vinto due volte il premio Strega, che pur di non rinunciare
alla propria ideologia comunista aveva rinunciato ad un posto di
dirigente alla FIAT, che dopo la tragica morte del figlio scelse di
donare degli antichi quadri alla Galleria Nazionale delle Marche, e
che (cosa che mi sembrò molto strana all’inizio) aveva la casa a
pochi metri dalla mia.
Io abito
in via delle mura, proprio all’inizio dietro l’ex dazio della
Barriera Margherita, lui aveva casa in fondo a via Saffi ad angolo
con via Matteotti, praticamente un tiro di schioppo. E allora perché
non era mai stato in rapporti con la mia famiglia?
Il
discorso, seppi da mio padre, era più lungo. Casa mia non era da
sempre stata della mia famiglia, ma la comprarono i miei genitori
dopo il matrimonio, mentre Paolo era fuori Urbino già da tanti anni.
Tuttavia, la nostra parentela, pur non troppo lontana, non li aveva
legati mai, anche per la discreta differenza d’età tra Paolo e mio
babbo.
Oggi,
dopo aver meglio conosciuto la figura di Paolo dopo il suo distacco
da Urbino, posso finalmente definirmi fiero di essere un suo
parente, senza essere orgoglioso per caso. Tuttavia, e penso che in
fondo lo sia stato anche per lui, tutti i Volponi possono definirsi
fieri di essere Volponi, per la comune discendenza da persone
intraprendenti, lavoratrici e che hanno letteralmente messo alcuni
mattoni alla Urbino di oggi.
Concludendo infatti questo mio discorso, è doveroso un accenno
all’albero genealogico. Noi Volponi di Urbino siamo tutti parenti,
proprio tutti. Discendiamo da quattro fratelli, per così dire i
capostipiti, non originari della città ducale, che rilevarono la
gestione della fornace di laterizi oggi in rovina sotto le mura
lungo la vallata verso la “bretella”. Venivano da un’analoga
esperienza industriale, in altra zona, e decisero di scommettere su
questa nuova attività tra l’altro rimodernandola completamente.
Insomma,
per farla breve, il primo, Augusto (1860-1920), vero
gentiluomo ottocentesco, morì a 60 anni senza eredi. Il secondo,
Paolo (1867-1939), era il nonno del nostro Paolo. Il terzo,
Vincenzo (1870-1943), ebbe una serie di figli e tantissimi
nipoti, che tuttora rappresentano la gran parte della discendenza
Volponi. Il quarto, Massimino (1881-1946), ebbe tre figlie e
un unico maschio, Alfio, mio nonno e ultimo capace direttore
della fornace.
Fornace
che dopo la sua precoce e improvvisa scomparsa si trovò di fronte a
un bivio: la modernizzazione con forti investimenti, ma col rischio
di fallimento, o la chiusura. Si optò per la chiusura della più
grande industria cittadina dell’epoca, senza alcun sostegno da parte
delle istituzioni locali. In circa 100 anni aveva dato lavoro a
centinaia di persone e fornito laterizi, coppi e formelle per
tantissimi edifici della provincia e non solo. A Urbino ad esempio
furono richiesti dei mattoni speciali per integrare quelli di
Palazzo Ducale durante i restauri, furono impiegati per la
costruzione dei collegi universitari, fu costruito e poi di nuovo
restaurato il convento delle clarisse fuori le mura, e tanto altro…
Mio nonno
Alfio ebbe mio padre; per tradizione, com’era successo a Paolo, si
sarebbe dovuto chiamare come il nonno Massimino, ma si scelse il
semplice Massimo. Ed eccomi qua, unico a chiamarmi Giovanni
tra tutti i Volponi.
Insomma,
siamo una grande famiglia, tra cui però ci sono parentele vicine e
lontane. Queste ultime inevitabilmente si frequentano poco e quindi
capirete il motivo della mancanza di rapporto tra il mio ramo e
quello di Paolo. Tuttavia, i racconti sui nostri avi che mi
raccontavano da bambino e che avranno certamente raccontato anche a
lui e lui ai suoi figli Roberto e Caterina, ci accomunano nello
spirito. Come se non bastasse ad accomunarci la nostra Urbino, la
sua storia, la sua cultura, i suoi paesaggi.
Ecco cosa
significa chiamarsi Volponi a Urbino.
Giovanni Volponi
P.S.
Detto ciò, ma non lo dite in giro che i miei parenti potrebbero
rimanerci male, fuori Urbino, per chi non si
chiama Paolo, è un cognome come un altro.
Urbino, giugno 2015
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