BRAMANTE BUSIGNANI: SCRITTORE SEZIONE ANTOLOGICA del XV CONCORSO 2016 |
PARTE ANTOLOGICA
V'L'ARCONT IN DIALETT XV Vol. 2016
Pubblicazione di Poesie, Racconti, Indagini su Usi e Costumi, Storia Locale...
L'Associazione Pro Urbino dedica
all'artista Bramante Busignani,
Urbino 1929 - Cagliari 2009
BRAMANTE BUSIGNANI: AMARE URBINO (E GLI URBINATI)
Dagli
scritti di Bramante Busignani, Tino, di origine urbinate, diplomato alla Scuola del
Libro,
che ha contribuito a farla diventare grande in Italia e nel mondo
Introduzione del figlio Luca
(In corsivo le parti aggiunte al manoscritto, che è riportato in caratteri regolari)
Bramante Busignani è nato a Urbino il 23 Febbraio 1929. In Urbino ha iniziato gli studi artistici sotto la guida luminosa di quei professori che hanno portato al massimo fulgore l’Istituto d’Arte, comunemente detto Scuola del Libro: Castellani, Carnevali, Ceci, Bruscaglia, Battistoni, Gulino, Piacesi… Dal 1948 al 1951 ha frequentato il Corso Superiore triennale conseguendo il diploma di Maestro d’Arte. Motivi di salute e bellici hanno ritardato di 4-5 anni questa sua carriera scolastica con il vantaggio di una più matura capacità e serietà nell’apprendere. Per il resto nessun problema perché, come si ricorda più avanti, Tino ha sempre mostrato un aspetto e uno spirito sprizzante giovinezza. Nel 1953 dopo il corso biennale di Magistero ottenne l'abilitazione all'insegnamento professionale della litografia.
Nella metà degli anni '50 si trasferì in Sardegna per dedicarsi all'insegnamento nella città di Monserrato (allora frazione di Cagliari) ricoprendo in seguito per più di trent'anni anche la carica di vicepreside. Mentre, per la maggior parte di numerosi neodiplomati alla Scuola del Libro, la Sardegna è stata un trampolino di lancio che abbandonavano alla prima occasione di potersi trasferire nel Continente, a Tino invece entrò nel cuore mettendoci radici: lì prese moglie (Lorena), ebbe due figli (Luca e Alessandra) e si legò a molti amici.
Rimase affascinato dai paesaggi vergini e incontaminati di quella splendida isola e soprattutto dal meraviglioso spettacolo del mare e delle candide spiagge. Nella sua vastissima produzione artistica sono frequenti paesaggi marini che intercalava a paesaggi urbinati con i tipici tetti e gli angusti vicoli. Comunque la nostalgia per la città natale lo ha accompagnato tutta la vita senza offuscarsi col tempo, evolvendo a infinito amore quando per gli acciacchi dell’età diventò sempre più difficile il suo ritorno. Aveva affrescato una parete dello studio con il panorama del Palazzo Ducale visto dal Mercatale, trascrivendo sopra alcuni versi in dialetto urbinate:
Adio Urbin,
chisà se t' arvedrò.
Ma anca quand morirò,
quand me porteran sott'ai cipress
io artornerò lo stess,
e qualcun dirà ogni tant:
"Avet vist, è arnut Bramant !
Trascorreva in Urbino la maggior parte dei giorni di vacanza e dopo aver abbracciato la mamma Angelina e gli altri della famiglia correva in Piazza per incontrare gli amici del cuore, Lullo, Giorgio, Renzo, Luciano... e quindi aggiornarsi sulle novità. Ogni giorno era una gioiosa e vivace festa nei tavolini dei bar della piazza dove con moglie e figli incontrava gli altri urbinati “extramuros” con in testa il grande Paolo Volponi, che più di tutti soffriva ed esprimeva “l’esilio da Urbino”.
Cartolina scritta dal grande scrittore Paolo Volponi nei tavolini del Bar Basili
Urbino, 10 Agosto 1991
alla cara Lorena, con molta simpatia, anche per la pazienza che le occorre per sopportare un urbinate come marito. Ogni urbinate è fanatico della sua città e del suo rione; [Tino] è capriccioso e vezzeggiato, ma anche buono di cuore e generoso. Bella e fortunata l'unione fra una sarda e un urbinate. Molti auguri e arrivederci a Cagliari, suo Paolo Volponi.
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In quei primi anni di insegnamento nacque la sua amicizia con lo scrittore Mario Ciusa Romagna, allora preside della stessa scuola, il quale lo scelse per illustrare i suoi racconti che venivano pubblicati nella pagina culturale del quotidiano locale. Nel 1974, in occasione di una delle sue numerose mostre personali, lo scrittore gli dedicò una splendida presentazione, nella quale si legge: «… appariva come se avesse appena superato l'ultimo gradino della fanciullezza. Dell'adolescente conservava calore e irrequietezza e una eccezionale carica di spontaneità. Fummo subito amici… con la freschezza dei suoi sentimenti mi liberava dall'incubo… il suo tempo libero lo passava da me a parlare d'arte e di lettere oppure e meglio a raccontare d'Urbino, sua città natale… l'approdo portava quasi sempre alla Madonna di Senigallia di Piero… forse sognava quelle linee, quel sentimento assolutizzato, quella immobilità intima e pensosa dei colori; forse sognava di rievocarli nelle sue acqueforti...»
Fu scelto dall’Architetto Guido Vascellari, quale insegnante di incisione, nell’allora nascente Liceo Artistico di Cagliari. La grande passione per la sua materia fece si che il Liceo gli concesse in uso, per il suo studio, il torchio usato per le incisioni dal grande artista ricordato dai testi di Storia dell’arte Sarda e Nazionale, Felice Melis Marini. Nel capoluogo fu a contatto con i maggiori pittori che operavano a Cagliari. Con essi si ritrovava nella piccola galleria di via Barcellona diretta da Axel Schmidt Walguni, a parlare, inevitabilmente, d’arte. Con questo gruppo di artisti partecipò a tutte le mostre collettive di quegli anni.
Dal 1989, maturata la pensione e libero così da impegni scolastici, trascorse molte ore nel suo studio a dipingere tele o ad incidere lastre di zinco, addentrandosi anche nelle tecniche serigrafiche; nelle sue ultime opere si ispirò in particolare ai viaggi che fece in quel periodo in Spagna e a Parigi. Tuttavia non abbandonò completamente la didattica per la quale era naturalmente portato e accettò la richiesta di insegnare per altri dieci anni in un istituto religioso di Monserrato. La sua produzione artistica ebbe un improvviso arresto nel 1999 quando fece la comparsa la malattia che lo accompagnò fino alla morte.
Aveva posizionato il suo cavalletto di fronte all’affresco di Urbino (v. immagine), questo gli dava l’illusione, ogni qualvolta che sollevava lo sguardo, di trovarsi ancora nella sua amata città. Negli ultimi tempi trascrisse sull’affresco quei versi sopra riportati presi dalla sua poesia in vernacolo urbinate “Adio Urbin” che è riportata integralmente più avanti.
Muore a Cagliari il 21 Agosto 2009.
N.B. Per ulteriori notizie sull'attività artistica del Busignani si consulti il sito www.prourbino.it sezione Artisti di e per Urbino o più semplicemente ricercando sui motori di ricerca tipo Google "Bramante Busignani Urbino" e scegliendo l'indirizzo opportuno.
Il libro: AMARSI AD URBINO
Bramante Busignani
AMARSI AD URBINO
Memorie giovanili raccolte e curate da Luca Busignani 2015 Prima Edizione
Romanzo autobiografico |
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Bramante Busignani
AMARSI AD URBINO
Memorie giovanili raccolte e curate da Luca Busignani 2020 Seconda edizione
Memorie giovanili raccolte e curate da Luca Busignani
I profitti di questa ed altre pubblicazioni di Luca sono destinati alla raccolta fondi per l'emergenza Covid 19 |
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INTRODUZIONE. E’ difficile capire se è stata Urbino la “mano” che ha plasmato l’anima di Bramante Busignani o se il suo stesso spirito sensibile abbia fatto della città ducale un posto creato ad “immagine e somiglianza” della sua anima. Difficile decidere se sia stato Tino una creatura di quella città oppure questa un’opera del suo ingegno emotivo. Pensando al viscerale legame che ha unito il pittore di Urbino alla sua terra è facile immaginare la verità di entrambe le cose. Era un amore reciproco, uno scambio di emozioni, un sentimento profondo che Tino ha continuamente espresso nelle sue opere. Dalle pitture ad olio alle incisioni, dalle piccole sculture alle poesie. Urbino era sempre in lui e lui non ha mai lasciato Urbino. Tino aveva un desiderio che dominava su tutti. Un desiderio che quasi assurgeva a bisogno. Condividere, trasmettere agli altri quel suo “sentire”, quelle sue emozioni devastanti che lo legavano alla sua terra e alla sua gente. Le sue opere sono state questo. La sua vita è stata questo. Anche queste memorie, raccolte dai suoi diari giovanili, hanno la stessa impronta. Nelle sue parole Urbino è descritta esattamente come nella sua pittura. Non si sente quasi la differenza dello strumento finale, pennello, spatola, matita o penna, ciò che scaturisce è quella sensibilità e quella poesia che imprigionavano l’anima di Tino Busignani.
In questo breve racconto autobiografico Urbino diventa un quadro da leggere. E’ facile trovarsi davanti agli occhi una delle sue tante tele o incisioni mentre si svolge la trama in cui si descrive la magia di Urbino di quel tempo, tra la fine degli anni ‘40 e gli inizi degli anni ’50, quando Tino, la sua anima e la sua sensibilità avevano vent’anni.
La Piazza, i Vicoli, il Loggiato, la Pineta, il Monte, le Mura, il Pincio. Tutto è descritto come se fosse stato dipinto. E ancora, gli odori, i profumi, i rumori, la scuola, gli studenti, gli amici e, soprattutto, gli amori. Come il titolo di questa raccolta e quello di una delle sue più belle acqueforti, l’amore era il sentimento dominante nella vita e quindi nelle espressioni artistiche di Tino. L’amore era il suo strumento, il veicolo che ha consentito alle sue emozioni di poter essere tradotte in opere d’arte. L’energia che aveva condotto la sua mano a riportare con fedeltà maniacale la cronaca delle sue giornate nello stesso momento in cui venivano vissute. La stessa energia che l’aveva ispirato in età più matura a raccogliere quelle memorie, ordinarle e realizzare un’opera completa dalla tecnica decisamente artigianale ma dal valore emotivo inestimabile. Semplicità e sostanza. Tino era questo. Era passione e poesia. Tino era profondità ed emozione. Era amore e malinconia. Tino Busignani era mio padre.
PASSI SCELTI DA “AMARSI AD URBINO”
La Scuola del Libro è uno dei grandi amori di Tino come di tutti quegli allievi diventati artisti nella vita. L’austerità e la storia non disgiunte dall’armonica eleganza delle sue stanze, che si affacciano su panorami di indicibile bellezza sono stati descritti così:
Laboratorio di litografia con il Prof. Ceci |
Salone dei gessi |
[Cap.1 p.1] Dalla grande finestra dell’aula di litografia pioveva una luce crepuscolare dello stesso colore delle nuvole che, sfilacciandosi, tramontava dietro la cima più alta della pineta. Nella stanza ristagnavano gli odori acri degli inchiostri da stampa e quelli inconfondibili delle pietre litografiche. Un cono di luce rossastra illuminava uno spigolo di quello stanzone in penombra evidenziando ogni particolare di un antico torchio da stampa. La statua in gesso del Lacoonte proiettava la sua ombra sulla parete di fronte ingigantendo la figura del sacerdote troiano e quella dei figli agonizzanti avvolti tra le spire del serpente. Di fronte al finestrone gli ippocastani erano ormai ingialliti. Sciami di foglie ricoprivano i viali sterrati del Pincio e i greppi scoscesi. Attraverso i rami spogli riuscivo a intravvedere la piazza del Mercatale e le colline dei cappuccini. Attirate dalla luce, due nottole volteggiavano attorno ad un lampione con voli scomposti e imprevedibili. L’interruttore della lampadina emise un suono metallico, ingigantito dal silenzio che regnava nell’aula vuota. Un cerchio luminoso si irradiava sulla superficie sconnessa del mio banco mettendo in evidenza, fra un’infinità di solchi e scalfitture, una lettera “L” vagamente goticizzante le cui estremità terminavano con volute e decorazioni floreali. Quella singolare incisione, eseguita con il bulino a foglia di oliva, mi colse quasi di sorpresa ma ricordai presto quando e per quale motivo scolpii quella lettera…
Lorenza sui 16-17 anni frequentava la Scuola del Libro già da un anno nella stessa classe di Tino. Questi più grandicello ma frenato dai severi moralismi del tempo ci mise un anno per iniziare a manifestare i suoi sentimenti. Lorenza, sebbene desiderasse le attenzioni del compagno, era ancor più inibita fino ad evitare e rifiutare bruscamente i primi timidi e castigati corteggiamenti. Un giovane lettore deve sapere che prima del 1968 le donne in Italia non avevano neanche il coraggio di lamentarsi e tantomeno denunciare la loro (molto) scarsa libertà, spesso accompagnata da una quasi totale dipendenza sociale dal maschio. Questi assurdi costumi erano inconsciamente tramandati anche dalle mamme e un po' da tutti i famigliari che fin da piccole trattavano le figlie in modo discriminato rispetto ai figlioli. La scelta di un marito era quindi molto impegnativa perchè indispensabile per avere, anche se secondario al marito, un ruolo nella società. Rimaner zitelle era una vergogna: "mej un marit trist che un fratell bon", predicava il proverbio. Una frustrazione ancor più grave veniva dal fatto che la società del tempo pretendeva formalmente che una donna giungesse al matrimonio illibata; fino ad arrivare, negli ambienti più grettamente tradizionali o zotici, alla vigilia delle nozze ad una visita ginecologica condotta molto spesso da una mammana.
Il nostro Tino non seppe decidersi fra la timorata Lorenza, per la quale nutrì un amore profondo, e la spigliata Laura, dalla quale fu irresistibilmente ammaliato, con l'inevitabile risultato di improvvise alternanze fra tormento ed esaltazione, "croce e delizia"…
[Cap.1 p.1] Fu all’inizio dell’anno scolastico quando mi accorsi che Lorenza Mancini di San Severino Marche (nome e luogo di fantasia) non era solo e semplicemente una compagna di scuola. Frequentavamo la stessa classe fin dal primo corso superiore. Occupavamo lo stesso banco nelle ore di studio e di laboratorio e quando il professore conduceva la classe all’aperto per dipingere un paesaggio, io e Lorenza sedevamo uno accanto all’altra sui prati verdissimi delle colline urbinati. Mi innamorai di lei quasi senza accorgermene. All’improvviso mi sentii attratto da quella ragazza minuta dagli occhi taglienti, vivaci ed espressivi che si divertiva a contraddirmi considerandomi un campanilista a causa del mio amore assoluto per Urbino.
«Ma davvero ti chiami Bramante?» mi chiese ironicamente il primo giorno di scuola.
«Che cosa ci trovi di strano?» le risposi piuttosto risentito.
«Hai un nome che è tutto un poema!»
Lorenza non tardò ad accorgersi del mio interessamento nei suoi riguardi ma non lasciava trapelare nulla che non fosse un normale e semplice rapporto tra compagni di scuola. Con il passare del tempo evitava persino di rimanere sola con me perché non si creassero pettegolezzi ma soprattutto perché temeva che le confidassi i miei sentimenti. Faceva di tutto pur di non essere coinvolta in una storia d’amore per la quale si sentiva del tutto impreparata e indifesa. Improvvisamente i nostri rapporti mutarono. Alla spontaneità e alla reciproca simpatia che caratterizzarono i primi giorni di scuola, subentrò un periodo condizionato da incertezze e ambiguità. A volte Lorenza evitava persino di rivolgermi la parola per il timore di essere fraintesa e non reggeva a lungo il mio sguardo. Nonostante tutto ero fermamente convinto che provasse nei miei confronti un sentimento che lei stessa non sapeva distinguere se fosse affetto o amore, né dove finisse l’uno e incominciasse l’altro.
La luna che dall’alto della pineta illuminava a giorno la collina delle vigne si era impadronita del suo volto rendendolo di un pallore innaturale. Lorenza era invasa dal fascino di quella serata limpida, assaporava il profumo della fragranza acerba di quella primavera precoce. Guardava lontano, oltre le cime della pineta, oltre il muro della Fortezza, quasi volesse liberarsi della mia presenza divenuta angosciante, da quella tensione, da quell’insicurezza. Il mio sguardo insistito le creava un evidente imbarazzo. Il vociare dei compagni di scuola che risalivano i sottostanti viali del Pincio ci distolse da quell’atmosfera e da quel silenzio che ci aveva avvolto. Lorenza si staccò dalla balaustra prendendomi per mano affinché mi tirassi indietro per il timore che ci vedessero insieme. Istintivamente si era addossata a me come se volesse nascondermi. Si trovò involontariamente tra le mie braccia rimanendo profondamente turbata. Nei suoi occhi lessi un evidente smarrimento e un’emozione che ci coinvolse nella stessa misura. Accostai timidamente1a bocca alle sue labbra sfiorandogliele appena. (A dx, "Amarsi ad Urbino" acquaforte del Busignani)
«Lasciami» si raccomandò arretrando di qualche passo.
»Non voglio che ti prenda gioco di me. Non lo sopporterei. Finirei con l’odiarti.»
Con apprensione diede uno sguardo all’orologio e accortasi che si era fatto tardi, attraversò di corsa il terrazzo per raggiungere la suora che probabilmente la stava attendendo.
La luna era tramontata dietro la pineta e un’ombra grigia scivolava sopra i tetti del Carmine e lungo i tornanti del Pincio.
Da sx: Lorenza, Tino, Carmen, Luciano e Lellè
[Cap.11
p.87 Ancora un anno dopo] Lorenza non rispose, forse non
era del tutto convinta. Ma era ugualmente felice. La presi per mano percorremmo
l’ultimo tratto del viale completamente al buio. Giunti in cima Lorenza si
appoggiò sul muretto dal quale si intravvedevano, seppure in ombra, la parte
sottostante del Pincio e le panchine completamente offuscate. Timoroso
l’abbracciai all’altezza della vita avvicinando il volto al suo viso e ai suoi
capelli ondulati. Rimanemmo per alcuni istanti immobili, bloccati dall’emozione
che ci aveva coinvolto. Quando le accarezzai il viso Lorenza mi rivolse uno
sguardo dolcissimo ma carico di tensione. Avvicinai le labbra alle sue baciando
lievemente il profilo e avvertendo un leggero fremito. Quel bacio innocente e
inesperto finì per scaldare le nostre anime e allo stesso tempo ci diede
l’esatta misura del sentimento che ci legava ormai inequivocabilmente. Il bene,
l’affetto, l’amore erano tutt’uno. Entrambi ne eravamo consapevoli. Ci baciammo
ancora, poi ancora stringendoci fra le braccia. Percepivo il battito accelerato
del suo cuore mentre mi accarezzava i capelli e il profilo delle labbra.
«Credo che dovrai insegnarmi a baciare. Ti sarai accorto della mia inesperienza ma prima di te non avevo baciato nessuno» mi disse timidamente non osando guardarmi negli occhi.
«Non ho mai provato un’emozione così grande. - le risposi al culmine della felicità - Ti voglio così, ti preferisco così, sincera, leale, inesperta. Ti amo Lorenza, ti amo come ti amavo l’anno scorso e come ti amerò sempre.»
«Anch’io ti amo, Tino, forse non credevo di amarti tanto, ma questa sera ne ho avuto la conferma. Non dimenticherò mai il mio primo bacio e questa splendida, incomparabile sera.»
Una curiosa descrizione dell’ora d’aria degli studenti residenti nei collegi: orfani, seminaristi, discoli o rieducandi e infine il collegio femminile delle Battiferri retto dalle Maestre Pie Venerine, dove era ospitata Lorenza, la fiamma di Tino. Uscivano accompagnati da istitutori per una passeggiata di circa un’ora. I maschietti, incolonnati in fila per tre e in drappelli secondo l’età. Veramente, cose d’altri tempi!
[Cap.1 p.2] Il collegio femminile, ubicato nei rioni alti del centro storico e ricavato da un vecchio convento, era gestito dalle suore della Misericordia. Era di rigore la divisa: giacca e gonna blu fin sotto il ginocchio, calze anche nei periodi caldi e un basco dello stesso colore del vestito. Lorenza considerava il collegio una prigione senza sbarre e le suore, prive della pur che minima sensibilità e apertura mentale, consentivano alle ragazze solo una o due uscite la settimana per la rituale passeggiata fuori le mura cittadine (in genere il sabato pomeriggio) e per assistere alle funzioni religiose nel Duomo o nella chiesa di San Francesco. Una suora le accompagnava sistematicamente a scuola per riprenderle alla fine delle lezioni. Era tassativamente vietato loro uscire o rientrare in collegio senza essere accompagnate.
[Cap.2 p.8]…Con l’approssimarsi della primavera ogni sabato pomeriggio le ragazze del collegio uscivano per la rituale passeggiata fuori le mura sotto lo sguardo vigile delle suore. Inquadrate formavano una lunga linea blu che si snodava per le vie del centro fino alla periferia. L’itinerario era sempre uguale, come uguale era il loro incedere lento e ordinato, come se seguissero una processione. Uscivano dall’istituto in silenzio o parlando sottovoce. Percorrevano gli ombrosi viali del Pincio per immettersi nella strada che costeggia le mura dove le accoglieva quel sole che allungava le loro ombre fino alla volta di Ca’ Fante. Superato il mulino, imboccavano la strada che costeggia il convento di Santa Chiara per scendere poi verso il Mercatale. Qui le ragazze potevano procedere a piccoli gruppi senza distanziarsi molto ed era proprio qui che ogni sabato pomeriggio puntualmente attendevo il passaggio delle collegiali. Lorenza lo sapeva, mi aspettava ed era felice nel vedermi anche se potevamo solamente scambiarci un sorriso o un saluto. Seguivo le ragazze per un lungo tratto camminando al loro fianco ma sul lato opposto della strada, perché le suore, vedendomi immancabilmente ogni sabato, si erano insospettite e mi tenevano particolarmente d’occhio. L’unica occasione che avevamo per scambiarci qualche parola o una stretta di mano ci era data quando le suore permettevano alle ragazze di addentrarsi nella fitta macchia dei Cappuccini per raccogliere le viole mentre loro, impossibilitate a salire quei ripidi sentieri, le attendevano sullo stradone. Allora, passando inosservato per il convento, potevo inoltrarmi nella selva nascosto dalle querce e dalla fitta vegetazione. Richiamavo l’attenzione di Lorenza con il nostro fischio convenzionale affinché potesse orientarsi e raggiungermi in mezzo a quel groviglio di siepi e di cespugli. Riuscivamo così ad incontrarci furtivamente magari per scambiarci qualche parola, un complimento o una semplice stretta di mano…
Con un battito di mani le monache richiamavano le ragazze che alla spicciolata raggiungevano la strada consegnando alle suore le viole che avevano raccolto, dirigendosi poi lentamente verso la città. Le osservavo attraverso i rami mentre si allontanavano. Lorenza si voltava spesso indietro per individuare il punto dove ci eravamo incontrati e quando riusciva a intravvedermi seminascosto dagli alberi, agitava la mano per salutarmi.
Paesaggio dal vero con il professor Battistoni
Altra atmosfera alla Scuola del Libro! gli studenti si spostavano liberamente dalla sede scolastica ai luoghi per le esercitazione dove potevano sistemarsi a loro piacimento e scegliere il tema. Erano liberi persino di fumare nelle esercitazioni all'aperto o in quelle molto impegnative. Ciò unito a un rapporto cordiale ma corretto e costruttivo con l’insegnante, influiva molto sulla loro maturazione. I ragazzi della Scuola del libro apparivano più grandi di quelli delle altre scuole.
[Cap.2 da p. 10] Dopo aver scrutato il cielo dall’aula di figura, il professor Battistoni decise di condurre la classe all’aperto per fare “paesaggio”. La giornata si annunciava chiara e luminosa, un tiepido sole lentamente asciugava l’umidità della notte…
[Cap.2 da p.11] Varcata la porta di Santa Lucia, attraversammo la strada sterrata per affacciarci sulla valle che si apriva a ventaglio fino all’Adriatico. Un lembo di mare si stagliava nitido sotto il cielo chiaro del mattino, mentre una leggera brezza increspava i campi di fieno e faceva ondeggiare le tenere foglie del grano. Quell’aria dal sapore salmastro scompigliava i capelli delle ragazze facendoli fluttuare come fili di meduse. Battistoni sollevò il bavero della giacca e affondando le mani nelle tasche, propose di rientrare a scuola per non buscarci qualche malanno, ma di fronte al nostro rifiuto non insistette più di tanto.
«Va bene allora affrettiamoci - disse affrontando la discesa della montata - per le dodici dobbiamo essere a scuola.»
Attraversata con qualche rischio una siepe di acacia sul lato sinistro della strada, sbucammo su un prato verdissimo dal quale si poteva ammirare un vasto paesaggio che abbracciava la vallata dell’Apsa fino alle colline degradanti del pesarese.
«Datevi da fare - si raccomandò Battistoni - qui potete disegnare tutto quello che volete. Avete solo l’imbarazzo della scelta.»
Come sempre ci ricordò di rimanere possibilmente raggruppati e comunque di non allontanarci troppo per poterci controllare, suggerire o apportare qualche correzione ai nostri lavori senza doversi spostare continuamente. Il sole che saliva di fronte era già alto e il cielo sgombro di nubi. Mi allontanai dal resto della classe sistemandomi leggermente più in alto per spaziare maggiormente con lo sguardo e avere una visione più completa. Accesi una sigaretta osservando attentamente quel paesaggio esteso, luminosissimo, dai valori cromatici netti e contrastanti.
Panorama urbinate verso il mare- acquaforte di B. Busignani
Dopo vari ripensamenti optai per la sequenza di colline degradanti verso il mare. Ispirato dallo spazio, dalla prospettiva e dalla tonalità dei colori, iniziai ad abbozzare tutto l’insieme con un tratto deciso e costruttivo evitando tutti i particolari di carattere decorativo. La mano scorreva veloce e sicura ispirata a tal punto che in breve tempo riuscii ad impostare tutto il disegno rispettando le proporzioni e la prospettiva. Soddisfatto, deposi la cartella e accesi una seconda sigaretta guardandomi intorno. In basso i compagni si erano disposti in semicerchio con il professor Battistoni che si avvicinava ora all’uno ora all’altro per dare suggerimenti e consigli, mentre Lorenza e Lellè se ne stavano in disparte dando la sensazione di disinteressarsi del lavoro.
Dopo una breve sosta ripresi a disegnare soffermandomi maggiormente sui particolari e sulle tonalità cromatiche, mettendo in risalto i primi piani con un chiaroscuro più accentuato e lasciando indefinito l’orizzonte per ottenere il senso della profondità. Infine sfumai appena il cielo con rapidi colpi di gomma ottenendo l’effetto luce. A lavoro quasi ultimato mi ritenni soddisfatto del risultato ottenuto. Rimaneva soltanto da rafforzare alcuni tratti e da curare alcuni particolari. Inaspettatamente mi raggiunse Lorenza … [alla quale non riuscì difficile farsi fare uno schizzo dal Bramante; ma il professore conosceva bene i suoi polli ed elegantemente fece intendere che non l'avevano ingannato] … Quando Battistoni si diresse verso di noi, Lorenza fece in tempo a riprendersi la cartella e posarla sulle ginocchia. Piuttosto trafelato, il professore si lamentò per la salita che aveva dovuto affrontare.
«Guarda caso siete sempre voi due che vi allontanate. Eppure vi avevo avvisato.»
Si chinò per osservare meglio il mio lavoro esprimendo un giudizio più che positivo.
«Va bene Busignani, disse convinto Battistoni, hai eseguito un buon lavoro! Con una grafica essenziale sei riuscito a interpretare il paesaggio realisticamente senza ricorrere a compiacimenti descrittivi. La tecnica mi sembra appropriata e costruttiva. Tutto sommato il disegno è più che soddisfacente. Con un maggiore impegno potresti ottenere risultati ancora più lusinghieri anche nelle altre materie se non perdessi tanto tempo con le “burdelle” come le chiamate voi!»
Tipiche vacanze estive di uno studente urbinate
Urbino d’estate era noiosa con pochi studenti sostituiti da qualche turista. Gli studenti più impegnati della Scuola del libro portavano sempre con sé il materiale per disegnare che al minimo era formato da matite, lametta per temperarle, gomma e quaderno di carta da disegno; Tino portava con se una cartella. Praticamente avevano a disposizione una semplice ed economica fotocamera, corrispondente agli attuali telefonini, ma i loro “scatti” erano di gran lunga superiori riproducendo immagini e sensazioni che, talvolta, attiravano l'attenzione anche di belle ragazze. Ragazze che poi diventavano numerose durante i Corsi Estivi del'Università; quelli di Magistero erano frequentati da numerose maestrine appena diplomate
[Cap.4 p.21] Il caldo di quelle prime giornate di Giugno faceva presagire un’estate lunga e afosa. Le campagne si coloravano di giallo e dentro le querce le cicale frinivano senza sosta fino al calare della sera. La città era invasa dalle prime comitive di turisti. La noia e l’indifferenza caratterizzavano l’inizio di quelle vacanze. Pensavo spesso a Lorenza, alle incomprensioni e alle tensioni che avevano condizionato i nostri ultimi giorni di scuola. La delusione che provai mi aveva scosso profondamente. Mi aveva illuso, oppure avevo male interpretato i suoi sentimenti. Su queste ipotesi diametralmente opposte si incentravano tutti i miei pensieri. Dovevo reagire, cercare di dimenticare una storia d’amore che forse non era mai cominciata. Per scrollarmi di dosso quei ricordi trascorrevo le giornate dipingendo o giocando a biliardo al circolo universitario. Dopo cena mi recavo al Ragno d’Oro con gli amici ma ballavo raramente. Uscivo spesso con la cartella per disegnare alcuni scorci caratteristici della città o gli splendidi paesaggi appena fuori le mura. In segreto mi recavo ogni mattina al piazzale Raffaello per eseguire alcuni schizzi in bianco e nero all’ombra dei frondosi ippocastani. Occupavo generalmente la panchina prossima alla balaustra oltre la quale si stagliavano nitide le alture del Montefeltro e in fondo alle colline si riusciva a scorgere un lembo del verde Adriatico. Nel volgere della giornata il piazzale andava lentamente popolandosi di urbinati e turisti fino ad occupare tutte le panchine intorno alla statua del Divino per trovare un po’ d’ombra e di refrigerio…
[Cap.4 p.22] L’indomani, come al solito, ero puntualmente al mio posto. Iniziai alacremente a disegnare l’intera piazza con tecnica chiaroscurale accentuando le ombre per mettere in risalto il basamento bianco della statua del Sanzio. Tutto sommato mi sembrava un lavoro ben riuscito. Soddisfatto posai la cartella sulla panchina e accesi la prima sigaretta…
Il sole era già alto, dalla vallata saliva un’aria umida e salmastra che faceva ondeggiare lievemente le cime degli ippocastani. Ero indeciso se iniziare un nuovo disegno o scendere in piazza in cerca degli amici, quando in fondo al piazzale, abbagliata dal sole, la ragazza della panchina accanto. sostò un attimo prima di imboccare il viale. Indossava un abito leggerissimo color verde smeraldo senza maniche con un’audace scollatura. Una cintura bianca le cingeva la vita incredibilmente sottile. Attraversò il viale con incedere sicuro e disinvolto. Man mano che si avvicinava, la brezza le incollava addosso il vestito svolazzante evidenziandone le forme morbide e generose…
[Cap.4 p.23] La ragazza bionda, dopo aver risolto alcuni rebus [aveva una rivista di giochi enigmistici], si appoggiò sulla spalliera con lo sguardo nel vuoto proponendomi il profilo del suo volto dai lineamenti classici e misurati. Un raggio di sole riuscì a perforare le fitte chiome degli alberi illuminandole un lato del viso. Il desiderio di ritrarre quell’immagine fu immediato. Dopo aver estratto un foglio dalla cartella iniziai velocemente ad abbozzare quel profilo luminosissimo che risaltava dalla macchia scura del fogliame. Non volevo si accorgesse di quello che stavo facendo perciò cercai di concludere in fretta evitando alcuni particolari. Nonostante ciò riuscii a coglierne la somiglianza in maniera sorprendente. Stavo per riporre il disegno nella cartella quando la ragazza si avvicinò.
«Posso vederlo?» chiese con una spontaneità che mi sorprese.
Fingendo di cadere dalle nuvole le domandai a cosa alludesse.
«Le ho fatto da modella quindi ho il diritto di vedere il mio ritratto!»
«E’ solo uno schizzo, non ne vale la pena, pensavo che non si fosse neanche accorta che la stavo ritraendo.»
«La prego, adesso lei mi ha incuriosita, insistette quella ragazza dagli occhi azzurri.»
Le consegnai quell’affrettato disegno con un certo imbarazzo. Dopo averlo osservato a lungo mi rivolse uno sguardo stupito e meravigliato al tempo stesso.
«E’ bellissimo! Non riesco a capire come abbia potuto in così poco tempo cogliere la mia somiglianza!»
«E’ soltanto lo studio di un viso che mi ha particolarmente ispirato. Se avessi avuto più tempo l’avrei completato e curato maggiormente alcuni particolari.»
«Complimenti, lei è bravissimo, disse porgendomi la mano.»
La vita in via delle Stallacce
Case povere dell'immediato dopoguerra con muratura e infissi sconnessi, senza riscaldamento centralizzato e senza servizi igienici e spesso senza acqua corrente, tuttavia linde accoglienti e piene di ricordi. Tino si distingueva per la cura della persona e per la pulizia del suo vestire. Si dava gli ultimi ritocchi nella barbieria gestita dal padre e dal fratello Pippi e poi nei servizi pubblici. Bastavano infine cinque nazionali semplici nel pacchetto vuoto di macedonia per sentirsi come un signore.
Casa Urbino via Stallacce
[Cap.5 p.27] La piallatrice elettrica del falegname Serafini mi svegliò di soprassalto. Cercai di riaddormentarmi infilando la testa sotto il cuscino ma fu tutto inutile. Dagli scurini della finestra lasciati semichiusi una lama di sole riusciva a incunearsi fino al marmo del comò tracciando una scia luminosa. Quel pulviscolo disegnava forme astratte e irreali che si muovevano vorticosamente quasi danzando, mosse dall’ondeggiare della tenda. La voluminosa sveglia, ereditata dai nonni, con il quadrante circolare e i vistosissimi numeri romani, emetteva un ticchettio udibile anche dalla saletta di passaggio. Aveva un meccanismo complesso, quando si azionava la suoneria la sveglia scivolava lentamente sul marmo e se non trovava ostacoli, finiva sul pavimento aprendosi in due. Spesso mi divertivo a pronunciare parole di due sillabe per sentirmele ripetere quasi fedelmente da quel pezzo da museo. Se pronunciavo la parola “pane” il tic-tac di quel vecchio arnese ripeteva: pa-ne, pa-ne, pa-ne all’infinito. Se cambiavo soggetto il risultato non cambiava: vi-no, vi-no, vi-no…
Il fresco delle lenzuola mi dava sollievo e non mi decidevo a lasciare il letto. Man mano che il sole cresceva, le pareti della camera assumevano un colore bianco lattiginoso. Contavo e ricontavo i travicelli del soffitto che sapevo essere trentadue, sorretti da due grossi travi asimmetrici. Quando decisi di alzarmi la lama di sole era arrivata fino alla spalliera del letto e il vicolo delle Stallacce andava animandosi con i rumori di tutti i giorni. Mi lavai come sempre nel catino posto davanti alla finestra dopo essermi tolto la canottiera e arrotolato l’asciugamano intorno alla vita. L’acqua della brocca aveva un odore di muffa attenuato dal profumo della saponetta Palmolive. Sul tavolo della cucina mi attendeva la solita tazza con il caffelatte ormai freddo. Tolsi la panna che mi dava la nausea e dopo alcune sorsate versai tutto nel piattino del gatto. Diedi un’occhiata dal finestrino che si affacciava sul tetto. La giornata era serena e assolata. In cima alle vigne due ragazzini facevano volare un aquilone dalle lunghe code gialle e celesti. Uscii di casa con la cartella e la scatola dei pastelli. Attraversai Valbona per recarmi alla barbieria di mio padre con l’intenzione di radermi, ma quando mi guardai nello specchio ci ripensai, tutto sommato quella barba lunga mi donava. Misi soltanto un po’ di brillantina sui capelli lasciandoli volutamente spettinati. Dopo aver chiesto a mio padre i soldi per le sigarette, mi diressi verso la piazza. In cima a Valbona entrai nell’unico bagno pubblico della città, l’ingresso del quale era come sempre fiancheggiato dagli immancabili annunci mortuari. Il locale a volte, ricoperto da mattonelle bianche, era gradevolmente fresco e si avvertiva un forte odore di disinfettante. Dalle borchie degli orinatoi in fila sulla parete scendeva un rivolo d’acqua che aveva arrugginito la parte centrale dell’incavo. Come al solito scelsi il secondo dei sei partendo da destra perché ero convinto che mi portasse fortuna. La piazza, interamente sotto il sole, era semideserta. C’era una certa animazione sotto i loggiati e nei tavoli dei bar protetti dagli ombrelloni. L’orologio esagonale dello spigolo segnava esattamente le dieci e trenta. Entrai nello spaccio di fronte al circolo cittadino per acquistare le consuete cinque Nazionali che infilai nel pacchetto vuoto delle Macedonie extra. Sfregai l’unico zolfanello due o tre volte nel muro finché si spezzò senza accendersi. Con un’imprecazione riposi la sigaretta nel pacchetto. La mattinata scivolava inesorabilmente e il caldo andava facendosi opprimente…
[Cap.5 p.29] Attraversai il piazzale sul lato opposto per cercare di evitarla e mi affacciai alla balaustra. L’aria che saliva dal mare era gradevolmente fresca. Osservavo quel paesaggio che si spalancava dalle colline al mare fino alle alture di San Marino. Attratto dalla sinuosità delle linee e dalla luminosità dei colori, iniziai a riprodurlo tenendo conto delle diverse tonalità cromatiche. Abbozzai velocemente tutto l’insieme con un segno incisivo e nervoso e una volta impostato il lavoro mi apprestai a colorarlo con toni fortemente contrastanti evidenziando il giallo ocra dei campi di grano, le diverse tonalità di verde degli alberi, delle siepi e dei rettangoli di fieno. Chiusi l’orizzonte con la fascia verde-azzurra del mare. Meditavo sul colore del cielo quando udii distintamente dei passi sulla ghiaia arrestarsi dietro di me. Avvertivo la presenza di Laura, una presenza discreta ma imbarazzante al punto che non riuscivo a concludere il lavoro.
«Disturbo? - disse avvicinandosi ancora di più per osservare meglio il disegno - Complimenti, è molto bello, i colori sono pieni di luce, c’è tutta l’atmosfera che aleggia in questa splendida vallata. Vedo che non ha nemmeno trascurato il lembo del mio meraviglioso mare. Non so quanto le possa interessare il mio giudizio, ma non mi consideri del tutto sprovveduta anche perché a scuola facciamo storia dell’arte. Lo sa che ho un debole per i pittori? Li ho sempre considerati delle persone speciali, affascinanti. Prenda, per esempio, Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Piero della Francesca, Caravaggio … Busignani, per citarne alcuni.»
«Complimenti per la sua cultura artistica e per il senso dell’umorismo», le risposi riponendo il disegno.
Lo sport ascoltato alla radio e discusso in "Piassa" e Urbino di notte
I “bartaliani” con al centro Gino Bartali e in alto a destra Tino
[Cap.6 p.32] Gino Bartali aveva vinto la tappa Carcassonne-Montpellier del giro di Francia staccando Coppi di oltre dieci minuti e sotto l’orologio della piazza scoppiò il finimondo. I bartaliani si scontrarono con i coppiani che avevano avuto il coraggio di farsi vedere. Urla di gioia, insulti, battute feroci, una gazzarra indescrivibile fra abbassi ed evviva. I bartaliani più scalmanati mi chiesero di fare una caricatura per immortalare l’evento ritenuto storico. Mi procurarono una matita e un foglio sul quale disegnai Bartali in cima alla montagna che trascinava Coppi con una fune legata al suo nasone. La caricatura fece il giro della piazza suscitando ilarità, schiamazzi e sberleffi. Ci mancò poco che non venissimo alle mani. I coppiani minacciarono che mi avrebbero fatto pagare quell’affronto…
I .. vitelloni del Bar Basili
[Cap. 6 p.34] La Piassa. Puntualmente ogni sabato, giorno di mercato, la piazza diventava il punto nevralgico della città. Urbinati, studenti, contadini e turisti si concentravano in quei pochi metri quadrati per discutere e contrattare, ma anche per criticare e spettegolare. Ogni ceto sociale occupava uno spazio ben definito. I contadini si intrattenevano in cima a Valbona, gli urbinati più “in” sostavano davanti al circolo cittadino e sotto il loggiato del collegio, gli studenti nei pressi del bar centrale e sui marciapiedi mentre i turisti occupavano lo spazio sulla direttrice Casa di Raffaello – Palazzo Ducale. I pochi taxi si allineavano nella parte della piazza dove terminava il loggiato. Renzo e Lullo mi attendevano nel nostro solito punto d’incontro sotto l’orologio, visibilmente spazientiti per il mio ritardo e soprattutto perché avevo fatto perdere le mie tracce per un paio di giorni. Mi fecero un resoconto su quanto era avvenuto durante la mia assenza commentando e dilungandosi sui nuovi arrivi delle studentesse del magistero e quelle del corso estivo. Effettivamente notai molti volti nuovi. Erano ragazze provenienti da varie regioni d’Italia e rimanevano in Urbino per tutto il mese di Agosto, libere, incontrollate e la maggior parte disponibili. Era facile conoscerle e fare amicizia, si lasciavano corteggiare anche se nei loro paesi d’origine avevano un fidanzato e talvolta anche un marito.
[Cap.23 p232] La mattina del Sabato Santo è ancora una giornata di sole e di tepori primaverili. Decido con poca convinzione di andare in piazza, meta un tempo della mia prima visita in Urbino quando ritornavo per le feste dalla Sardegna. Ma ora non ho più amici da salutare. Non riconosco nessuno e nessuno mi riconosce. C’è tanta gente e si respira già l’aria di festa quando mi fermo sotto l’orologio. Comitive di turisti sciamano un po’ dovunque, salgono verso la casa di Raffaello per poi ridiscendere e visitare il Palazzo Ducale in un via vai continuo. Un tempo la piazza aveva spazi precisi e riservati a determinate categorie di urbinati: vicino alla ringhiera sostavano i contadini e gli operai in genere, davanti al Caffè Basili e al circolo cittadino c’erano i benestanti e i cosiddetti intellettuali mentre gli studenti preferivano soffermarsi in cima al loggiato. Ripenso con nostalgia a quei tempi quando questa piazza era il mio regno, il palcoscenico di tutta la mia giovinezza. Era questo orologio il punto d’incontro, il ritrovo consueto quasi quotidiano dove si discuteva con gli amici di politica, di sport, di ragazze e dove i clamori e le risa rimbalzavano sulle facciate di questi palazzi fino a perdersi sotto le arcate dei loggiati. Da questo spigolo abbracciavo con lo sguardo l’intera piazza e tutte le strade che vi affluiscono. Vedevo Cecchini scendere dal monte, Lullo sbucare dal teatro, vedevo Renzo salire per Valbona, Silvano arrivare dal Duomo e Bostrenghi venire da Lavagine, poi Sergio, Fio, Ioio. Eravamo i padroni della piazza. Lucciarini doveva mandarci via perché coprivamo le vetrine e per non farci sedere versava l’acqua sul gradino della farmacia. E quando il vociare si faceva più frenetico e le risate più chiassose la gente diceva: “per forza, c’è cla lavandara de Bramant’!” Anche la sera ci vedevamo tutti qui come in un salotto a parlare di Bartali, della Juventus o del partito repubblicano anche quando il vento sospingeva le foglie gialle del Pincio fino al collegio e la neve scendeva fitta contro la luce dei lampioni.
Sono passati trent’anni da quel tempo incantato, da quando ognuno di noi ha preso la strada della sua vita, quella strada che quasi tutti ha portato via da Urbino. E come quelle anime che riposano a San Bernardino nella pace dell’eternità sento la mia anima imprigionata tra queste mura, tra questi vicoli e queste piole fino a che il tempo le darà respiro.
Piazza della Repubblica fine anni 1950
[Cap. 6 p. 34] Urbino di notte. Un velo di tristezza spense per un istante la luminosità dei suoi occhi, poi si scrollò di dosso quell’attimo di malinconia chiedendomi di andare a vedere con lei Urbino di notte. Senza attendere risposta mi prese per mano percorrendo frettolosamente il lungo viale per affacciarci in cima alla pineta. Sotto di noi la città era immersa nel silenzio, una coltre d’ombra scendeva radente le vigne avvolgendo i rioni bassi appena dentro le mura e i tetti degradanti sotto il castellare. Il Palazzo Ducale illuminato dai riflettori si stagliava nitido contro un cielo viola striato di rosso. Laura rimase immobile osservando ogni dettaglio di quel paesaggio unico e irripetibile come se volesse scoprire il segreto di tanto fascino.
«Finalmente riesco ad apprezzare tutto lo splendore di Urbino» disse abbracciando con lo sguardo l’intera città.
«E’ la prima volta che vedi Urbino di notte da quassù?» le chiesi incuriosito.
«No, ma con te è diverso. Con il tuo entusiasmo riesci a coinvolgere chi ti sta a fianco e infondergli lo stesso trasporto e lo stesso amore che nutri per questa tua splendida città.»
«Promettimi che ritorneremo ancora prima che io parta.»…
Ci inoltrammo per un breve tratto nel fitto della pineta dove gli alberi nascondevano la città. Laura si appoggiò sul tronco di un pino abbracciandomi all’altezza della vita, facendo aderire quel suo corpo sinuoso al mio petto. Con le sue labbra accarezzò le mie fino a quando quel bacio divenne sempre più profondo e appassionato. Lungo e dolcissimo.
Le ragazze normalmente erano accompagnate dalla mamma o parenti maturi. Questi si sedevano in sedie poste tutt'intorno la sala e non solo sorvegliavano che il comportamento fosse convenevole ma spesso decidevano con chi e quanto doveva ballare la loro pupilla. I maschi dovevano prenotare con anticipo i balli, ma poi erano guai se la ballerina non manteneva la promessa. Per evitare un ballo prenotato, la dama doveva dichiarare un improvviso malore e rimanere seduta finchè non scadesse la prenotazione!
[Cap. 6 p.40] …«Di solito che cosa fai dopo cena?» mi chiese Laura improvvisamente.
«Generalmente trascorro la serata con gli amici, si va al cinema o a giocare a biliardo al circolo universitario. Tutto qui e tu?»
«Io vado a ballare tutte le sere al Bar Giardino» mi rispose disinvoltamente.
Caddi dalle nuvole.
«Non c'è nulla di male continuò Laura, vado in compagnia della nonna e degli zii. Loro si siedono intorno alla pista e si limitano a vedermi ballare. Io mi diverto moltissimo anche perché è un locale frequentato prevalentemente da studenti.»
… Alle nove e trenta la millecento nera dei signori Serafini attraversò lentamente la piazza dalla porta del collegio… Superata la piazza delle Erbe, svoltò in direzione Santa Lucia per evitare la salita del monte fino a dirigersi verso il Bar Giardino. Ero indeciso se andare a ballare o attendere gli amici per la solita partita a biliardo, ma il fatto che mi fossi cambiato d’abito e ordinato i capelli con la brillantina, non lasciava alcun dubbio. Giunsi al Bar Giardino intorno alle dieci, notai subito la millecento nera parcheggiata accanto all’ingresso ed entrai nel bar tabaccheria per acquistare le solite Nazionali ordinando poi un caffè freddo che sorseggiai appoggiandomi alla finestra dalla
quale si dominava l’intera pista da ballo. Le luci erano spente, si intravvedevano soltanto delle ombre che si muovevano lentamente. Cercavo Laura. Pagato il biglietto, scesi le scale soffermandomi ai lati della pista rettangolare delimitata da una fila di canne sulle quali si arrampicavano tralci di vite che, confluendo al centro della pista, formavano una grande cupola verde dalla quale pendevano grappoli d’uva acerba. Cercavo di orientarmi finché non riuscii a scorgere un tavolo libero nei pressi dell’orchestrina composta da elementi locali. Mi affrettai a raggiungerlo prima che lo occupassero, Un cameriere mi portò la consumazione compresa nel biglietto d’ingresso.
Continuai a cercare Laura soffermando lo sguardo un po’ dovunque ma dovetti attendere che mi abituassi a quel buio prima di riuscire a individuarla. Ballava con uno studente molto più alto di lei che le parlava in continuazione tenendola ben stretta tra le braccia. Evidentemente non si era accorta della mia presenza perché si volgeva frequentemente verso l’ingresso con la speranza di vedermi giungere da un momento all’altro. Quando si riaccesero le luci per l’intervallo si diresse velocemente verso il tavolo occupato dalla nonna e dagli zii continuando a guardarsi intorno. Una volta seduta, sorseggiò una bibita dando uno sguardo impaziente all’orologio fino a quando non riuscì a scorgermi. Ebbe quasi un sussulto, le si illuminò il viso mentre mi fissava senza alcun pudore. Sussurrò qualche parola all’orecchio della nonna che le stava a fianco che a sua volta mi squadrò con gli occhialini dal manico d’argento. Quindi fu la volta degli zii che cercavano di scorgermi senza darlo a vedere. L’orchestrina aveva appena ripreso a suonare quando due ragazzi si precipitarono al tavolo per invitare Laura. Lei si consultò con la nonna e accettò l’invito del primo ballerino dopo avermi rivolto uno sguardo che esprimeva tutta la sua delusione. Si spensero nuovamente le luci mentre l’orchestra si esibiva in alcuni balli lenti che le coppie seguivano senza scomporsi troppo. Quando Laura giunse nei pressi del mio tavolo chiese scusa al suo cavaliere per dirmi che i prossimi balli li aveva impegnati con me. Avevo tutto il tempo per decidere come avrei dovuto comportarmi quando mi sarei avvicinato al tavolo dei Serafini per invitarla a ballare. Mi domandavo se sarebbe stato meglio chiedere il permesso alla nonna o agli zii. Avrei forse dovuto prima presentarmi, stringere loro la mano oppure salutarli semplicemente. Tutti questi dubbi finirono con l’inquietarmi e confondermi le idee. E se mi invitassero al loro tavolo? Quando alla fine del terzo ballo si riaccesero le luci, Laura si sedette pesantemente sulla sedia rinfrescandosi il volto con il ventaglio della nonna. A quel punto incrociò il mio sguardo per ricordarmi che il ballo successivo era il nostro. Non appena i componenti l’orchestrina ripresero posto sulla pedana fui colto dal panico e accesi l’ennesima sigaretta. Prima ancora che si spegnessero le luci, mi avviai verso il loro tavolo piuttosto impacciato e giunto a pochi passi, Laura mi venne incontro prendendomi sottobraccio.
«Vi presento Tino Busignani, il pittore che ha eseguito il mio ritratto, disse ai suoi senza tradire la minima emozione.»
La nonna mi salutò con molto garbo squadrandomi di nuovo con l’occhialino dal manico d’argento mentre gli zii non andarono oltre un cordiale buonasera. Ricambiai i saluti con una certa disinvoltura e fortunatamente si spensero le luci mentre l’orchestra riprese a suonare liberandomi dall’imbarazzo. Laura, impaziente di ballare, salutò con un frettoloso “ciao” baciando la nonna, mentre io mi accomiatai con un antiquato “con permesso”.
Primo giorno di scuola e Circolo Universitario
Lorenza non soggiornava più in collegio ma in una pensione privata; libera quindi di uscire e di vestirsi liberamente gettando l'odiosa castigata divisa da collegiale. Il che, come un fulmine a ciel sereno, spiazzò il nostro Tino reduce dalle conquiste estive della affascinante Laura e di alcune maestrine che abbondavano al corso estivo di Magistero. Tino non riuscì a nascondere un certo imbarazzo alimentato dalla gelosia per quella ex collegiale ormai in balia della lasciva gioventù goliardica che ben conosceva. Negli amori ci fu sempre una componente malcelata di gelosia unita a quella più contenuta di possessività.
La scala lumaca con l'originale montacarichi
[Cap. 8 p.55 - A.S. 1950-51] Il primo giorno di scuola si svolse sulla falsariga degli anni precedenti. Tutte le classi erano riunite nel salone delle statue dove il direttore Carnevali pronunciò il discorso inaugurale con le solite raccomandazioni e le solite interminabili prediche. Terzo corso superiore: Bellagamba …, Benigni Anna Maria, Busignani Bramante, Bustini Enzo, Cecconi Pasquino, Contucci Renzo, Diamantini Fiorella, Ducci, La Capria Silvano, Liberati, Mancini Lorenza...
Alle undici il direttore ci congedò dopo aver dettato l’orario provvisorio per tutta la settimana augurando a tutti un buon e proficuo anno scolastico.
La giornata era tipicamente autunnale, grigia e piovosa con nuvole basse e una leggera nebbia che offuscava le strade e la piazza. Tutti insieme ci dirigemmo verso il centro dove la maggior parte degli alunni si frazionava in piccoli gruppi. Io, Lorenza e Lellè ci recammo sotto il loggiato del collegio [Raffaello] per ripararci da quella pioggia sottile ma insistente. Si commentava lo svolgimento del primo giorno di scuola e la sua inutilità… Lorenza commentò il discorso del direttore, come retorico e ripetitivo, ebbe da ridire sull’orario e sulle materie, secondo lei, mal distribuiti. Stanchi di passeggiare Lellè propose di recarci al circolo universitario [detto AGU dalla Associazione Goliardica Urbinate che lo gestiva] per offrirci un aperitivo e ascoltare un po’ di musica. La proposta non convinse Lorenza che riteneva quell’ambiente piuttosto malfamato e ambiguo.
«Non è certo un posto per educande, non so se mi spiego, disse scherzosamente Lorenza.»
«Sono tutte chiacchiere - ribatté Lellè - io ci vado spesso e mi trovo benissimo, non vedo la differenza con gli altri locali. Chiedilo a Tino se non ci credi.»
Lorenza esitò un attimo prima di rispondere.
«Lui è un habitué del circolo e non può che parlarne bene. Comunque, prima o poi, dovrò frequentarlo anch’io considerato che è l’unico locale riservato agli studenti.»
Data la giornata piovosa il bar era piuttosto affollato, specialmente la sala da gioco, quella dei biliardi e il salone da ballo. Lorenza, che vi metteva piede per la prima volta, si trovò piuttosto spaesata. Quando ci avvicinammo per ordinare gli aperitivi, Giovanni il barista, come sempre cerimonioso, si rivolse direttamente a Lorenza.
«Se non sbaglio è la prima volta che la signorina mi onora della sua presenza. Quale facoltà frequentate?»
«Veramente non sono universitaria. Frequento l’istituto d’arte» gli rispose Lorenza che non si aspettava di essere interpellata.
«Allora è collega del professore» ribatté Giovanni alludendo a me.
Lorenza e Lellè si interrogarono con lo sguardo stupite e meravigliate e quando il barista si allontanò per portarci gli aperitivi Lellè mi chiese fra una risata e l’altra:
«Ma perché ti ha chiamato “professore”?»
«Domandalo a lui, io non l’ho ancora capito» risposi.
«Hai visto? - intervenne maliziosamente Lorenza - Che cosa ti avevo detto? Lui qui è di casa e lo chiamano perfino professore!»
Balli con lo jukebox al Circolo Universitario (AGU)
)
Jukebox del Circolo Universitario negli anni 1950 (Maria moglie di Giovanni)
La musica del juke-box proveniente dal sottostante salone ci invogliò a scendere per ascoltare qualche disco. Lorenza precisò che non si poteva trattenere più di una mezzora. Al centro della sala ballavano alcune coppie di studenti mentre la maggior parte ascoltava i successi di Paul Anka, di Edith Piaf e Carosone seduti o appoggiati alle pareti. Dopo aver gettonato alcuni dischi facemmo appena in tempo a sederci che uno studente universitario si avvicinò a Lorenza e, senza chiedere permesso o pronunciare parola, la prese per mano conducendola a ballare al centro della sala. Lorenza rimase perplessa per quel modo poco ortodosso di invitare una persona a ballare. Rivolse uno sguardo a Lellè come per dirle: ma qui si usa così? L’amica si mise a ridere facendole cenno di non farci caso.
[Cap.9 p.69] Mi avvicinai al juke-box dove c’erano due ragazze che seguivano le canzoni canticchiandole a bassa voce. Una delle due mi disse che se volevo ascoltare la musica dovevo almeno mettere un gettone. Era la regola. Mentre mi apprestavo ad infilare la moneta nella gettoniera, la stessa ragazza me la prese di mano scegliendo un disco a suo piacimento.
«Balliamo?» mi disse avvicinandosi senza troppa discrezione.
Accettai senza tanto entusiasmo.
La collina delle Vigne: lavagna di Urbino
Lo scosceso versante delle podere delle Vigne si affaccia verso la tipica passeggiata lungo le mura fra il teatro Sanzio e il primo torrione come una lavagna della città. Alla vigilia di Natale del 1951 Tino e gli amici inseparabili Lullo e Renzo approfittando di un compatto strato di neve scrissero un messaggio di augurio agli urbinati: "BUON NATALE". Allo stesso modo Paolo Volponi anni dopo, nel 1969 in occasione della strage di Piazza Fontana, fa scrivere al protagonista di spirito anarchico del suo romanzo "Il sipario ducale" «/\/\ L'ITALIA U.», messaggio di protesta verso l'instaurarsi dell'egemonia e della cultura del capitale.
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Tino e Luciano Da sx: Renzo Paci, Alfio Bostrenghi, Tino, Lull0 De Angelis e Alfio La Monaca (Fio)
[Cap.10 p.72] Quando chiesi loro quali progetti avessero per la sera, Lullo suggerì di andare a cena al Borgo Mercatale invitando naturalmente anche Lucio Cecchini. Ci trovammo tutti d’accordo. Oltrepassato il teatro ci accolse una luminosità abbagliante dovuta al riflesso del sole sulla neve. Lungo le mura il manto era ancora compatto mentre il passaggio delle macchine aveva reso impraticabile il centro della strada. Sugli alberi del Pincio la neve cominciava a sciogliersi dai rami più esposti al sole. Ci affacciammo dal primo torrione, il panorama sottostante somigliava a un paesaggio fiammingo, a un grande quadro di Brughel. Nella collina delle vigne di fronte a noi il manto nevoso era ancora immacolato, sembrava un’enorme lavagna bianca.
«Che ne direste, proposi agli amici, se andassimo a scrivere una frase? Magari con le orme dei piedi, una frase qualunque che si possa leggere da quassù e da altri punti della città?»
Lullo e Renzo mi guardarono piuttosto perplessi.
«Non vi sembra una buona idea? Si potrebbe scrivere: Buon Natale oppure Auguri, Buone Feste, una cosa del genere.»
«Con il risultato di bagnarci le scarpe, le calze e i pantaloni fino a metà gamba!» sentenziò Lullo.
A Renzo l’idea non parve malvagia:
«Tutto sommato le scarpe sono già bagnate, i pantaloni li rimbocchiamo fino a metà gamba, non vedo perché non si debba fare. Se tu non vuoi venire andiamo io e Bramant.»
Lullo tentennò un po’ poi si decise:
«Aspettatemi, vengo con voi. Da soli non ci riuscirete mai! Prò, Bramant, en avevi n’idea miglior?»
Passando sotto la Volta sbucammo al Mercatale dove la strada era praticabile grazie allo spartineve. Arrivati in cima alla collina delle vigne in fila indiana e con il fiatone, dovevamo decidere la frase da scrivere senza perdere altro tempo.
«Che ne direste di scrivere “Buon Natale a tutti gli urbinati”?» suggerì Renzo.
«Già! - replicò Lullo - Così non la finiamo neanche per stasera!»
«Allora “Auguri e felicità a tutto il mondo”» ripropose sempre Renzo.
Questa volta Lullo gli lanciò una palla di neve che gli otturò un orecchio.
«Và in quel paese! Scrivete quello che vi pare! Urlò Renzo mentre si toglieva la neve dall’orecchio.»
«Dai smettiamola, intervenni io, scriviamo “Buon Natale” e non se ne parla più.»
Finalmente ci trovammo tutti d’accordo. Dopo aver arrotolato ognuno i pantaloni, raccomandai loro di seguirmi e di calpestare attentamente le mie orme altrimenti sarebbe uscito fuori uno sgorbio illeggibile. Inizia la scritta dalla parte sinistra partendo dall’alto con la lettera B in stampatello alta trenta piedi e larga venti. Feci poi un salto di circa un metro affinché le lettere risultassero distaccate e ben spaziate scrivendo la U, la O e la N tutte della stessa misura. Rimanendo fermi sulla U ci voltammo indietro per verificare il risultato ottenuto giudicandolo più che soddisfacente.
«Sbrigati Bramant, non ti dare tante arie, ho i piedi tutti gelati, si lamentò Lullo.»
«Vuol dire che le altre lettere le traccerai con le mani» gli suggerì Renzo.
«Toh!» Gli rispose Lullo di rimando con una mossa a manico d’ombrello.
Terminata la parola “Buon” decisi di scrivere la parola “Natale” con le lettere alte almeno il doppio e posizionate due metri più in basso.
«Ragazzi, dovremmo incominciare dall’ultima lettera, cioè dalla E di Natale e finire con la N perché uscendo con i piedi dalla N di Buon saremmo costretti a fare un’infinità di orme per arrivare sotto la lettera B di Buon e da lontano la scritta risulterebbe illeggibile e confusa. Chiaro?»
«Ma che cavolo dici?» mi domandò Renzo che non era riuscito a seguire il discorso. Anche Lullo non aveva le idee molto chiare, perché loro non avevano la mia pratica con i caratteri da stampa.
Uscii dalla lettera N con un doppio salto verso il basso e a una distanza di circa due metri, iniziai la lettera E alta cinquanta piedi e larga trenta. Lullo e Renzo riuscirono a spiccare lo stesso salto e iniziarono a calpestare le mie orme. Con la distanza di un metro sulla destra della E iniziammo la L, quindi la A, la T, di nuovo la A e infine la N. Nel complesso il lavoro ci sembrava ben riuscito.
Nel frattempo si era radunata una moltitudine di gente che dalle mura e dal Pincio seguiva incuriosita quanto stavamo facendo. A lavoro ultimato si levò un lungo e fragoroso applauso. All’imbrunire, mentre passeggiavamo sotto il loggiato, proposi agli amici di andare a vedere se la scritta resisteva ancora e se si distingueva anche al buio. Ci affacciammo dal muro del Mercatale e la frase era leggibilissima, evidenziata dal chiarore della luna.
Tino, nella sua poliedricità d’artista, era attivamente impegnato anche nel gruppo organizzatore del Cine Club di Urbino che era diretto dai suoi insegnanti Pietro Sanchini e Renato Bruscaglua e che settimanalmente al Cinema Ducale proiettava i migliori film del neorealismo italiano e francese.
1953 - Tino attore teatrale al seguito del Prof. Carlo Ceci che assieme a colleghi e altri urbinati fu animatore della Pro Loco e del teatro Rinascimentale. Tino, Lullo e Luciano La Capria
[Cap. 20 p. 197] La corriera arrivò in Urbino alle otto in punto, la piazza era animata più del solito soprattutto da studenti e soci del Cine Club che attendevano con ansia il mio ritorno.. Quando mi videro scendere dalla corriera con la valigetta contenente la pellicola tirarono un sospiro di sollievo venendomi incontro tempestandomi di domande e complimentandosi per essere riuscito a recuperarla. Si avvicinarono anche i professori Renato Burscaglia e Pietro Sanchini visibilmente euforici e sollevati. Raccontai loro in breve tutte le vicissitudini e gli ostacoli che avevo dovuto superare per recuperare la pellicola. (…) “Ormai non ci speravo più, mi disse Bruscaglia stringendomi la mano.
Lo sapevo che potevamo contare su Busignani, replicò Sanchini. Ricordati di farti trovare prima delle nove al Ducale per l’apertura del botteghino”.… Ormai non ci speravo più, mi disse Buscaglia stringendomi la mano. …Dopo aver cenato in tutta fretta alle nove meno venti ero già al botteghino del cinema. Oltre ai soci c’era molta gente che rinnovava la tessera data l’importanza e l’esclusività del film. Cercavo di sbrigare le operazioni in fretta per poter riuscire a vedere il film dall’inizio. I professori Sanchini e Bruscaglia timbravano le tessere rispettivamente ai soci che scendevano in platea ed a quelli che si sistemavano in galleria. Poco prima delle nove si avvicinarono al botteghino Lorenza in compagnia della figlia del ragioniere. Voi due non potete entrare! dissi loro sorprendendole. Il film è vietato ai minori. Sei una carogna, mi disse Lorenza sottovoce mentre mi consegnava l’unica tessera attraverso il lunotto. Il professor Sanchini si avvicinò per un istante salutando le due ragazze con la solita deferenza e riconsegnando personalmente la tessera a Lorenza.Questa sera offre il cine club, le disse, perché se riusciamo a proiettare il film il merito è anche suo oltre a quello di Busignani. Suo perché ha permesso al suo fidanzato di andare a Pesaro, di Busignani perché è riuscito a recuperare la pellicola fra un’infinità di contrattempi.
RACCONTO INEDITO: Paesaggio di Urbino
Sabato Santo, primi anni 1950. L’appuntamento era per le nove sotto l’orologio della piazza ma Silvano non si vedeva ancora. Appoggiai la cartella sul davanzale della farmacia di Lucciarini e accesi una sigaretta. Di solito la piazza a quell’ora è quasi sempre deserta ma quella era la mattina del Sabato Santo, la gente era già in festa e alle undici si sarebbero sciolte le campane. Da Valbona arrivavano i primi contadini con la cravatta nuova e la gluppa che avvolgeva la crescia di Pasqua da regalare ai loro padroni. Le spose portavano a benedire le uova nella chiesa di San Francesco mentre la piazza delle Erbe brulicava di gente.
La giornata era limpida. Sopra la terrazza dei Fucili il cielo era profondo e la fortezza per metà illuminata dal sole. I portici disegnavano l’ombra delle arcate sul selciato della piazza e l’aria pungente che veniva dal mare portava con se il profumo di biancospino che scivolava dallo Spineto. Cercai un po’ di tepore in una chiazza di sole davanti al caffè Basili. Silvano arrivò con notevole ritardo ma non ci feci caso, in fondo era già vacanza per noi studenti e se avevamo deciso di “fare” un paesaggio era per ammazzare il tempo. Prendemmo la discesa di Lavagine parlando del più e del meno e di come avevamo trascorso i primi giorni di festa senza Carmen e la Lorenza. Fuori porta ci accolse un sole sempre più tiepido e luminoso quando decidemmo di fermarci sul lato della strada.
La vallata di Pesaro verdeggiava in diversi punti e dietro le ultime colline si intravvedeva il mare. Ci inoltrammo per uno stradino di campagna fiancheggiato da siepi alte e fitte dalla cui cima sbocciava già il biancospino. Sotto le querce la brina aveva imbiancato le foglie come se fosse nevicato dandoci una sensazione di freddo e nelle pozzanghere si era formato un sottile strato di ghiaccio che Silvano si divertiva a rompere con una leggera pressione del piede. La strada, che man mano diventava sempre più ripida, finiva in cima alla collina in uno spiazzo delimitato da alberi di gelso e di acacia.
La città era dietro di noi con le vecchie case appollaiate sulle mura e sotto il sole ormai alto i tetti fumavano per l’umidità della notte. Dalle finestre spalancate si udiva il gracidare delle radio e le donne, impegnate nelle pulizie di Pasqua, si affacciavano e scomparivano dopo aver sbattuto i canovacci sui davanzali. Il prato, zuppo di rugiada, era cosparso di margherite bianche e gialle che parevano di cristallo. Entrambi ci convincemmo che fermarsi a dipingere non avrebbe avuto un grande senso perché la magnificenza di quello spettacolo ci sbalordiva a tal punto da rimanere immobili, incantati e senza fiato. Restammo sorpresi, stupiti da quel paesaggio così nitido e trasparente, quasi commossi da quel succedersi di colline dai profili ondulati e da quel cielo limpido appena sfumato all’orizzonte tanto che neanche il più grande dei pittori avrebbe saputo imitare e riprodurre. Ci distolse un gorgoglìo appena percettibile, un fruscìo d’acqua che scorreva in lieve pendenza avvolto da una musicalità tale da sembrare il suono di un’arpa. Non ci eravamo accorti che poco distante, oltre la siepe, scendeva silenzioso un ruscello così piccolo da essere nascosto dai fili d’erba. L’acqua che vi scorreva era gelida e di una trasparenza irreale.
Alle undici in punto, nonostante la distanza, cominciammo a udire il suono delle campane. Ai rintocchi squillanti dei piccoli campanili facevano eco quelli più caldi e maestosi del Duomo. Quell’armonia di suoni, scavalcate le mura, invadeva la campagna come una lava superando le siepi e i filari di pioppi fino a perdersi e morire sulle colline più lontane. In quel ruscello trasparente ci bagnammo gli occhi e finimmo per non capire se le gocce che solcavano i nostri volti erano quell’acqua o lacrime di felicità.
RACCONTO INEDITO: Anime di Urbino
30 anni dopo: Pasqua 1980
Quando la corriera si arrampica per la salita del Cereto sono già scese le prime ombre della sera. Superato il ponte della ferrovia, attraverso il finestrino intravvedo la macchia scura dei Cappuccini e le due gobbe della pineta, infine la città racchiusa dalle sue mura come una corazzata. Affiancata la fornace si distinguono già i rari lampioni accesi e il profilo degradante dei tetti sotto il campanile del Duomo. Man mano che si sale, la città si và profilando lungo il suo asse longitudinale per interrompersi con l’erta della Montata. Urbino a quell’ora è desolatamente vuota. Partiti gli ultimi turisti, circolano solo poche macchine e qualche nostalgico della passeggiata verso le strade della periferia. Ma è quell’atmosfera, quel silenzio, il colore grigio e bruno delle case e dei campanili che si stagliano in un cielo sempre più profondo a dare alla città quel fascino enigmatico che la caratterizza da sempre. Sotto le mura erbose e screpolate che cingono la città la strada sale ancora. I pini e i tigli che la fiancheggiano nascondono un cielo che volge al tramonto creando un’ombra compatta e silenziosa. Giunti alla sommità, appena superato l’antico convento di Santa Chiara, la luce, quella luce tanto cara a Piero della Francesca, inonda un mare di colline che degradanti vanno a infrangersi sotto le scogliere azzurre del Catria e del Petrano. Più a sinistra la chiesa di San Bernardino, splendida nella sua geometria, ti ruba lo sguardo con quei cipressi affusolati che la fiancheggiano e additano un cimitero che non ha nulla di sinistro.
Non è solo tale bellezza a non riuscire a trattenere le mie lacrime. Mia madre è là ad attendermi e non più a casa, come faceva ogni volta che tornavo a Urbino quando sorridente mi veniva incontro e mi baciava dopo avermi preparato il brodo caldo con i passatini per ristorarmi dal lungo viaggio. Puntualmente si affacciava alla piccola finestra della cucina per mostrarmi la Fortezza illuminata dai riflettori e quando andavo a letto mi rimboccava le coperte come quando ero bambino. Nell’ampio parcheggio del Mercatale ci sono solo poche macchine quando la corriera fà il giro del piazzale per arrestarsi a fianco alla porta di Valbona. E’ ormai buio quando Lea e Nicoletta mi vengono incontro ma i saluti sono meno entusiastici e calorosi del solito. Mia sorella e la mia cara nipote cercano di nascondere l’immensa angoscia che alberga nel loro cuore. Istintivamente mi volto a guardare i torricini che, illuminati a giorno, sembrano siano stati immersi in una colata d’oro sullo sfondo viola del cielo.
Per Valbona i negozi sono ormai tutti chiusi. I lampioni sospesi a mezz’aria disegnano larghi cerchi sul selciato e i vicoli da entrambi i lati della strada sfociano come torrenti ricolmi d’ombra. La bottega di mio fratello Pippi è ancora aperta. Lo intravvedo attraverso la vetrina seduto sulla poltrona con il camice bianco in compagnia di Vasinto e Gambini. Mi saluta come al suo solito anche se questa volta ancora con meno entusiasmo. La porta spalancata della chiesetta di San Francesco di Paola mi ricorda che è la sera del giovedì santo. Pippi insiste e mi invita a visitare il sepolcro. La chiesa completamente vuota è immersa nel silenzio. Sulla destra, ai piedi di un altare sovrastato dalla statua della Madonna, alcuni vasi di garofani rossi e i tradizionali cocci con i germogli di grano cresciuto all’ombra. I lumini sparsi qua e là ardono stancamente diffondendo nell’aria un’acre odore di cera. Provo a recitare un’orazione senza riuscirvi anche perché ora la chiesa è stracolma di gente. E’ il mese di Maggio di una primavera ormai remota e mi rivedo laggiù di fianco all’altare con gli zoccoli e le gambe nude. Mi rivedo assieme a Lullo, Renzo, Sergio, Pippi, Ciulin, Macchinetta, Bimbo e Bambola intenti a cantare le litanie in quarta inebriati dall’odore dei gigli e dell’incenso al momento della benedizione. La porta che si chiude dietro di me con un suono che assomiglia a un colpo di timpani mi ridesta da quei morbidi ricordi dandomi coscienza di essere rimasto solo accanto alla pila dell’acqua santa. Per Valbona non c’è più nessuno, anche Pippi ha chiuso la bottega e via delle Stallacce, il nostro vigol, mi sembra ancora più stretta. Salgo le scale di casa con un certo affanno, tutto è diverso e nuovo ma dal finestrino si vede ancora la Fortezza illuminata a giorno e nella piccola camera di mia madre non c’è più il suo lettino dietro la porta.
La mattina del Venerdì Santo Urbino si risveglia sotto un cielo straordinariamente limpido. I tetti fumano per l’umidità della notte e il sole proietta sul campo delle vigne le ombre del campanile e della cupola. Per i vicoli si avverte il piccante odore della crescia di Pasqua e davanti alla chiesa di San Francesco di Paola un sagrestano suona la batraccola per annunciare la messa senza principio né fine, come diceva mamma Angelina quando faceva la crescia e la portava a cuocere da Bibìn. Vado da Pippi a fare la barba: “por Bramant, cum sé d’ventat vecch” penso dentro di me guardandomi allo specchio e mi sfugge un’imprecazione.
Scarnicchia aspetta il suo turno appoggiato alla porta, dice che bisogna metterli tutti al muro, riferendosi ai brigatisti, sventagliando il bastone come un mitra. Due turisti si fermano davanti alla gabbietta con i torricini e scattano una fotografia mentre i cardellini appollaiati in cima alla guglia alternano fischi acutissimi. Lea e Tilde mi aspettano per andare al cimitero. Scendiamo al Mercatale per raggiungere l’ottocentocinquanta celeste nel sottostante parcheggio e in prossimità dell’uscita Babullo mi riconosce e mi saluta mentre alza la sbarra per lasciarci passare. La giornata è limpida e l’aria che penetra attraverso il deflettore porta con se gli odori della primavera. Superato il bivio della croce la strada si arrampica per la verde collina degli zoccolanti. Il prato davanti a San Bernardino è inzuppato di brina tanto da farmi provare una sensazione di freddo ma i cipressi che si slanciano sopra il muro di cinta sono avvolti da un sole tiepido e luminoso. Di fianco all’ingresso compro una rosa rossa dalla fioraia dagli occhi sporgenti e dai modi genuini, poi entriamo dal grande cancello mentre la ghiaia sotto i piedi ricorda lo stesso rumore dei passi sopra il greto di un fiume.
Nel campo comune le tombe allineate scivolano una dopo l’altra dalle pupille all’angolo degli occhi così velocemente da non riuscire a leggere il nome sulle croci. Ma quello scorrere di tumuli si arresta sulla direttrice che il mio sguardo segue rincorrendo l’ombra di un cipresso che punta dritta su una lapide bianca. “T’arcordi de Zagubell?” mi dice la Lea. “Vè ma lè du è!” E’ la tomba di Zagobello. Mi ricordo quando vendeva i lacci e il lunario di Barbanera per Valbona ogni sabato e quando faceva i lumini di latta in quella tua bottega nera in cima al vicolo mentre cantava e ci tirava “el masuc” quando facevamo il chiasso giocando alla guerra. Mi avvicino e ritrovo nel suo volto quell’espressione amara che sempre l’aveva accompagnato. Tra quel succedersi di rughe che dalla fronte si uniscono fino agli spigoli della bocca sembra accennare un sorriso quasi beffardo, quasi una sfida a quella vita che non è stata benevola con lui.
Più avanti in cima alla gradinata c’è l’antica tomba dei Viviani dove il giovinetto Pino riposa dopo aver lanciato in cielo gli aquiloni. “Meglio venirci con la testa bionda ..” Leggo ogni volta quei versi del Pascoli e mi commuovo. Attraverso uno stradino arriviamo alla seconda terrazza dove c’è mio padre che mi accoglie con quell’espressione triste e quasi rassegnata. Mi viene subito in mente la frase che pronunciava ogni volta che partivo: “speriamo di rivederci”, poi piangeva senza farsene accorgere. Lea sistema con cura i garofani e con la mano pulisce la lapide facendosi poi il segno della croce mentre Tilde recita una preghiera. Mamma ci aspetta più su in cima alla collina da dove si vede Urbino e dall’altra parte la Cesana con ai piedi la Canale e Sant’Eufemia. Tutti luoghi che lei amava ricordare anche quando la mente la tradiva. Ora mamma, che sei finalmente tranquilla e serena, che hai ritrovato la pace, da quassù rivedrai la tua casa con il grande cipresso, ti rivedrai giovinetta raccogliere le ginestre nei mesi odorosi e spigare il grano sotto la calura, quando correvi scalza sull’erba dietro le farfalle e bevevi l’acqua del ruscello dentro le mani. La sera udirai la campana di Sant’Eufemia suonare l’ora di notte e le cicale gracidare dentro le querce. Il vento ti offrirà il profumo del mosto e del ginepro e la luna rischiarerà le lunghe notti d’inverno. Guardo ancora incredulo quella lapide bianca con la tua immagine appena velata di tristezza e faccio fatica a pensarti là dentro. Un raggio di sole filtrando attraverso i garofani illumina per un istante il tuo volto, che ora pare sorridere.
Riprendiamo il cammino passando dalla zia Ada prima di raggiungere la tomba di famiglia. Qui tutto è rimasto come un tempo anche se il vento ha inclinato le lapidi e il gelo screpolato i mattoni rossi intorno alle pietre quadrate. C’è un gran silenzio che nelle nostre orecchie sibila come il fischio di un treno. Tutto è fermo. La macchina inesorabile del tempo si schianta contro queste pietre e si arresta. Solo per noi vivi scandisce ancora i suoi lugubri rintocchi. Un refolo di vento fa ondeggiare le cime dei cipressi, il fruscio assomiglia a un respiro profondo che si scioglie nell’aria dietro a un volo di rondini.
Ridiscendiamo nel campo comune percorrendo tutto il perimetro. Saluto lo zio Enzo Busignani, poi la povera zia Linda. Come sempre vado a trovare Luciano e come sempre cerco di instaurare con lui un dialogo fissandolo in quei suoi occhi grandi e tristi. Tu Luciano non mi vedi e da quarant’anni continui a guardare nel vuoto con quei tuoi grandi occhi spaventati.
Il povero Papocc’ riposa sotto un gran cumulo di terra di fronte alla cappella dei Fucili. Lo ricordo quando giocava alle bocce al Mercatale e come si pavoneggiava quando metteva la boccia vicino al pallino o quando da Cipolin’ faceva il tresette o la briscola con Pippi e quando vinceva portava a casa il vino in palio. Maria Fucili gli porta i fiori ogni volta che và a trovare il suo Paolo. Il sole è già alto quando usciamo dal cimitero.
3 Settembre 1950 La prima festa dell'aquilone
1ª fila da sx: Tino Merli, Franco Coloccini, Pippi Lucarini, Achille Venturi, Aurelio Pierfelici
2ªfila da
sx: Enzo Piergiovanni, Pippi o Enzo Busignani, Sergio Formica, Gino Galli, Tino
Busignani (Bramant)
Pippi Peri (Enrico Cecchini), Lullo o Mario De Angelis, Gino Pretelli (Palanga)
MAMMA ANGELINA Presentata al 3° Concorso diPoesia Dialettale "Renzo De Scrilli" del 2000
Quand per Natal arniv in Urbin, dop un viagg lungh e stressant, la mi' madre me preparava i passatin sa 'l brod cald e un bichier d'vin sant.
Olio di Bramante Busignani
Era la sera la vigilia e incminciava a nevichè, se riuniva tutta la famiglia per venim a salutè. En m'arcord quant n'ho passat de chi Natal, forse venti, trenta, 'na quarantina, 1'accogliensa era sempre ugual ma era sempre pió vecchia l'Angelina. Prima ch'arivav andava dalla parruchiera, per tingia i capej fè la permanent. S'era messa anca la dentiera per fass veda arzilla e sorrident. Al pranz de Natal sa i caplett el galinacc mi' madre se sedeva sempre vicina a me en c'era mod da separacc. Quand sunava la mezzanott per annunciè l'ann ch'nasceva, se sparava du' tre bott e c'era chi se commoveva.
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Stapata la butiglia de spumant, fra i cin cin e l'euforia ce se abbraciava tutti quant brindava anca mamma mia, che di ann ne aveva un bel po' « Chissà - diceva - se 'n altr'ann ce saro' ?» Me metteva el pret tel lett per riscaldè i lensol, l'urinal sa 'l scendilett e la coperta de pignol ! Me rimboccava le copert com quand er un giovanott.
Me faceva 'na caressa prima de dam la bonanott. Adess che l'Angelina è andata via, ormai che c'ha lasciat da pió Natal, ogni volta ch'artorne sent 'na gran nostalgia me par ch' m'aspetta ancora tel mercatal ! Per el rest è armast tutt ugual, se mangia el pesc la sera dla vigilia e i caplet el giorne de Natal. Se festeggia l'ann nov tutti in famiglia. C'è sempre 'na sedia vuota vicina a me, è el post dl' Angelina. Ho vlut ch'la lasciasser malè perchè ogni tant la sentiv vicina. Fnit le fest en poss lasciè Urbin prima de gì a fè un salut ma l'Angelina tel cimiter de San Bernardin. L'hann messa in un tumbin propri in cima a la collina da dove s' ved tutt Urbin ch' i piaceva tant, ma l'Angelina. I metti fior freschi e digh un'orasion e mentre pulisc la lapid me vien un gran magon. Un ragg de sol filtrand atravers i fior le illumina tutt el vis, incontre el su sguard e me commov, mentre mamma accenna un sorris.
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EL GHETT D'NA VOLTASegnalata al 1° Concorso di poesia Dialettale "Renzo De Scrilli" 1998
Un vigulin strett strett com c' ne tanti in Urbin, el chiamen el Ghett. El chiamen dacsé perchè una volta ce staven gli ebré. Le câs en antich i mur screpolat, i madon amufitt. La strada, in discesa, è piena de foss, se inciampi t' le bugh t' pò rompa anca un oss! En s' véd un rondon, de sol manch 'na stilla, c'è i sorc ti porton, quand buffa se sguilla! C'è sol un lampion t' el spigol d'un mur, e quand scend la sera è sempre più scur!
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I gatt in amor sgaggen de nott, quand piov son dolor: le cól en tutt rott ! Qualco' c'è de bell: sedut t'i scalin c'è sempre un burdell sa du' occhj birichin; c'è el cant d'un fringuell rinchiùs t' na gabietta; 'na pora vecchietta che dic l'urasión; i fior t' le finestre èn de tutt i color, se sent un odor de sciugh, de fricò. Quand se' ma la gió arivat vers la fin, se guardi un po' in alt vedi i du' turricin, alti e slanciati t' el bel ciél d'Urbin.
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LA LUNA D'AGOST Segnalata al 2° Concorso di Poesia Dialettale "Renzo De Scrilli" 1999
La serata era intatta e trasparent, calma, serena, sensa un fil de vent. El ciel, profond e stellar, s'inarcava sopra el castellar com 'na vela turchina. Vers la marina resisteva un alon, un fil de luc ross e arancion. Alta sopra i turion, la luna se spechiava t'i finestron del palas ducal; t'el Mercatal, pareva c' fossa el sol. S'adensaven le ombre sotta le cerque de Risciol.
La strada lungh le mura, era bianca, com el grét d'un fium, illuminata da un barlum irreal. Intorne el silensi era total.
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I lampion dal piatt smaltat, éren talment sfocat ch' sembraven smorciat. La vista spaziava lontan fin a la catena dl'Appenin, sa i mont azzurri del Neron e del Petran !
In piassa c'era un gran solustre, riluceva tutt el selciat, filtrava un ragg de luna anca sotta el lugiat. A picch, sopra i Capucin, com se fossa un rifletor, la luna illuminava tutt Urbin e la città dventava tutta d'or ! I turicin svetaven com un minaret. Dall'alt dla pineta, in fas calant, rischiarava 'na fila de pret sotta i ort de Ca' Fant. Le ombre scorreven t'el mur com 'na teoria de ombre cinés, prima ch'se facessa scur.
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LA NEBBIA |
Tel tett del teatre
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URBIN
Tra du mont, e du culin... . Urbin. Da cent'ann, ma pió, sa digh, un gran óm, un cert Fedrich ha pensat da metta so el su palas, maché da nó, maché da pied a l'Appenin: de conseguenza è sort Urbin! Ma perchè 'i é nut in ment ma st' gran Duca, ma st' purtent da piantall in t'un st'altura? en c'aveva la pianura tutta a su dispusizion? tut el Gal, tutt el Capon, la Butega, Câs Brusciat, maché propri l'ha ideat !
Già ma lo en importa gnent, t'el su palas i paviment spianen com in t'un livell, sembra c'sia le madunell, mo da nó in t'un chi ghett en spiana manch l'urinai da sotta el lett. Tutt le câs appicicat, se per pura cumbinasion gissa giò tutt i turrion, adio, nó, du vè a truvacc, in tle Conc, in tel Bivio, a Canavacc? E le strad? en ne parlam, el sapem nó ch'c'è caminam ! So tle rip, giò per ch'le vall en c'è un ch'en abbia i call ! Dalla Piazza al Mercatal, da Lavaggin al Tribunal, da San Pol, fina al Lugiat tocca falla tutt d'un fiat, è un continue so e gió, quant è nott en ne pò pió, te fann mal tutt i calcagn, tocca metta i pied a bagn. Quant arivne i furestier sia italiani che stranier,
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ch'vojen veda Rafaell da cima el Mont, t'un ch'el pianell, ce rinuncien e hann ragion 'i incmincia a chiapé el panscion ! E tutt quest e pó en è gnent quand incmincia a tirè el vent ! È na cosa ch'en fnisc pió anca i copp c'è butta gió. Ma la gió ma le stallacc fa casché i calcinacc. Se è da gi' per i turion Bsogna ch'porti du madon! En è fregnaccia, en digh bugia, fa la prova d'purtat via.
So' d'acord, c'è calcò d'bel, c'è Bramant, c'è Raffael, c'è San Dmenich, San Bernardin, le volt d'Rusciol, i Capucin, tutt rob belle, tutt rob antich, mo maché en s'é prugredit, en sém piò t'el Quatrecent mo de nov en s'è fatt nient. Gran guerier, San Crescentin, te ch'se'l protetor d'Urbin, fa un miracol, facc cuntent, nó sém stuff di monument. Almen fra tutt st'antichità dacc un po' d'comodità fa ch'c'sia l'acqua anca d'estat, mett la luc sotta el lugiat, manda via sti cuntadin c'han chiapat pió d'mez Urbin. Fa ch'se fnissa l'Uspedal. Via cle vacch dal Mercatal. Fa che in piazza el pizzardon, facessa ben le segnalasion, fa spianè tutt ste salitt, fa ch'el camp spurtiv sia fnitt, fa ch'se vegga anca de nott, fa stagné tutt ste cól rot. Nó t'pregam devotament, mo en è voja da fé gnent.
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ADIO, URBIN ! Pubblicata ne: "I quattre vent" N. 4 1984 Vincitrice 2° Premio nel concorso "El nostre dialett 1982"
So' artornat un'altra volta; e ho piant quand so' partit, quand mi madre m'ha salutat e pó quand me so' vultat per guardat l'ultima volta, Incminciava ad albegè. Atravers el finestrin vdev el Dom, i turicin sopra el Pinc pó i turrion; pó, pasata la stasion, sparivi dietra i Capucin. Alora ho piant più fort, avev voia d'arvultè per restè sempre maché. Adio Urbin, adio Mercatal! vagh luntan, travers el mar, me tocca gi'a lavrè. Era la prima volta ch'm'aluntanav e c'avev un gran magon. Apugiat tel finestrin vdev le piant, i grepp, i spin fra le nebbie del Furlo e dl'Acqualagna. Dop la Scheggia è spuntat el sol; ho aces na Nasiunal e man man ch'm'aluntanav me sentiv piò solevat, el pegg ormai era pasat.
So' artornat un'altra volta, ma ormai en so piò un burdell, so mezz vecchi e malandat. E pensè quand t'ho lasciat c'avev poch pió de vent'ann! La mi madre e el mi padre en c'enn pió ad aspetam. En acnosch quasi nisun, i mi amich en gitti via, manch un can m'ha salutat quand so' gitt sotta el lugiat !
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Quant risat, quant discussion sa Lullo, Miffo, Cacapurton, Sergio, Ioio, Luigino! Facev part dla Pro-Urbino, dla prima sagra dl'aquilon. Giucavam anca al palon tel Mercatal sensa i parchegg. Ma Ciuccio i facevam le scuregg quand pasava sa la ragassa t'un sta piassa. Maché ho conosciutt el prim amor: per el Gir di Debitor, per el Pinc, per ì turrion, per la strada dla stasion tun chi grepp, quant pomiciat !
M'arcord tant de cle serat sa la luna ti Capucin da dov s'vdeva tutt Urbin com fossa stat de giorne, e tutt interne cantaven i grill e i usignol dentra le cerque de Risciol. Quant temp è pasat! Ormai me so invechiat, ma ogni volta ch'artorne arpens ma chi giorne che ormai en tornen piò ! El giorne prima d'arparti' come sempre ho vlut a gi' malasó ma la pineta; me so mess a seda sotta un pin per guardè i turicin.
Adio, Urbin, chissà se t'arvedrò! Ma anca quand morirò quand me porteran sotta i cipress io artornerò lustess. E qualcun dirà ogni tant: "Avet vist? è arnut Bramant !"
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UN RICORD Presentata al 2° Concorso di Poesia Dialettale "Renzo De Scrilli" 1999
L'odor d'un lillà ch' niva só dal giardin m'arportat sa la ment luntan m'arportat in Urbin ! Dov'era tutt, verd tutt fiorit nasceven le margherit t'i grepp, in t'i stradin. Le viole t'la macchia di Capucin. T'el camp dle vign fioriven i lillà. Pió in là sopra Raganacc sbociaven i campanacc ! Per el gir di debitor i cepp dle ginestre
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faceven un odor penetrant. De tant in tant dalla marina 'niva só 'na sciurina ch'faceva ondegè el gran tle maiés. Intorne ai campanil dle chies volaven i rundon, cantaven gl' usignol tla buca dla stasion ! I mi' ann eren verdi com l'erba de chi prát e adess ch' c'ho arpensát me 'nut un gran magon.
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LA MOSTRA T' LA BUTEGA D'RAFFAELPubblicata anche ne "I QUATTRE VENT" N. 2 - 1981 Montefeltro Edizioni Urbino
"Guarda, guarda, Zagubel, c'è la luc t'la butega d'Raffael ! Ch' sia arnut chel gran pitor ch' ma Urbin ha fatt onor ? Ch' sia arnut per imparè com se faccia a piturè ma 'sti quattre truffator ch' s' dan l'aria da pitor, o per veda dalla vetrina se c' sia 'n'antra Fornarina ?"
"Oh, ma Gisto, te è butt, chi è gitt en è più arnut, Raffael è 'n pess ch' è mort, ved, c'è scritt anca t' le port !"
"Mo alora com se spiega, quella lé è la su butega, i' la cnosch, i' so' d'Urbin, pass maché tutt le matin ! Ved malé atacat al mur c'è i disegn, c'è le pitur, c'è le statue, c'è i ritratt, ch' i abbien messi só chi matt ch' vann in gir sa chi baschett, sa la zazzera e i calson strett ?"
"Sta a sentì, aspetta aspetta, invec d' gì a beva cla foietta, gim dentra insiem sa lór, gim a veda 'sti pitor, prò m' arcmand, quant se' entrat, quant chi quadre è guardat, en dì ch' en t' han piaciutt perché t' armanden da do' se 'nutt !"
"Che boiàt, che porcheria ! Me vien voja d' argì via ! Guarda ma lé chel paesagg, han avut anca el coragg de firmal e metti el press; en el vrìa manch t' el cess ! Quel ma lé 'sa rapresenta ? Maché c' vol 'na gran pasiensa per capì qual è el sogett, ma me sembra un scendilett !"
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"Lascia gì per satanass, véd ma lé c'è chel ragass che te sta a osservè, lascia gì ch' è pegg per te !"
"Fan le câs sa du' segnacc, fann le donn ch' i manca i bracc, fann i mont sa un scarabocchj, ma le facc i manca 'n occhj !"
Fann i pett sa du cerchiett E pretenden ch' sien le tett ! Véd ma lé chel quadre d'Urbin i hann levat i turicin perchè ruvinavne la cumposision. Delinquent d'un lazaron, è l'unica cosa ch' c' avem de bell ! Eh, s' arnissa Raffael !
Ló cle robb en le faceva, le su donn sembraven d' cera sa chi volt tant sinceri, sa chi pett ch' sembraven veri, e pareva d' gì a tucai, tant' è vera è gitt t' i guai per fè le donn acsé ben fatt: en era minca com 'sti matt !
Gisto mia, Gisto mia, chiappa la porta e gim pur via, acident quant ce so' 'nutt, se stat te brut farabutt, se stat te ch' m'è cunvint: "Gim a veda 'sti dipint". Sa cle tél ch' hann imbratat, 'sti pitor, 'sti sciagurat, ce scapava le fudarett, le mutand e i fasulett per metà pupulasion. Atrechè l'espusision !"
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