Franco
Solmi
(1983)
Nicola Gambedotti sarà
anche un pittore «fantastico» o del fantastico: ma quale artista che voglia
sottrarsi alla indifferente ripetitività dell'artigiano non lo è? Accettiamo
dunque questa definizione, ma in termini generali, sì da toglierle ogni
significato che vada oltre quello di una rivendicazione di libertà
espressiva rispetto ai lacci e ai gorghi delle poetiche e delle tendenze in
cui s'è storicamente irrigidita la nostra e l'altrui storia dell'arte, e che
oggi han fortunatamente perso forza costrittiva per qualche merito dell'idea
postmoderna. Voglio dire che il «fantastico» praticato da questo urbinate
che sembra aver avuto a precettori i maestri di tarsia dello studiolo di
Federico da Montefeltro e per congeneri i più irridenti diabolici di età
fiamminga, ha ben poco a che fare con i codici di quella sorta di
surrealismo chiromantico (da gatti neri) su cui si sono esercitati, e si
vanno ancora esercitando, gli italici perlustratori di un profondo che non
va al di là dell'allegorismo superficiale dei «Surfanta». Giustamente
Michele Prisco ha aperto un saggio su Gambedotti parlando di «apparente
ieraticità» dei suoi personaggi: io direi anche «apparente ieraticità» del
suo linguaggio e delle soluzioni propriamente grafiche e pittoriche nelle
quali la misura intellettuale è tanto tesa da escludere, almeno quanto la si
può escludere in opera d'arte, la vertigine dell'irrazionale gratuito,
riportandosi all'equilibrio tutto moderno della contraddizione quella che io
definirei l'ineluttabile fantasticheria della realtà, piuttosto che realismo
del fantastico.
Il circo a Napoli
|
Acquaforte
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Il circo a Bologna
|
Per uscir d'esoterismo, occorrerà tenersi fermi alla logica dell'immagine di
Nicola Gambedotti, che mi sembra essere soprattutto una logica della
illusione e della teatralità. L'arte è sempre illusoria ma, come dice
Gombrich, noi amiamo essere ingannati fino a quando siamo consapevoli
dell'inganno. L'immagine grottesca, temporalmente e spazialmente sfalsata,
astorica, di Gambedotti garantisce, proprio con la sua stranita presenza,
che l'inganno non viene consumato e solo l'illusione, la magia senza potere
dell'arte, resta. La sua verità è proprio nella sua finzione consapevole che
ci fa consapevoli. Accade qui esattamente come a teatro - che altro, se non
«teatro» sono le scene e i personaggi di cui Gambedotti popola le sue città,
i suoi ambienti, i suoi circhi? - dove la finzione presenta se stessa
appunto come finzione allusiva e illusiva rispetto alla realtà. È quindi una
coscienza del tutto moderna quella che muove il «medievalista» Gambedotti. I
suoi personaggi si scoprono naturalmente come personaggi d'una mise en scène
retta dall'artifizio, fatta appunto «ad arte».
Per rendere più chiaro quanto vado scrivendo potrei richiamarmi alle
ricerche di psicologia della forma che portarono Escher ai suoi studi sulla
prospettiva reversibile, il che voleva dire che anche in pittura i volumi
giocano in termini di ambiguità sulla superficie piana, cosa che già nelle
stampe del Piranesi poteva essere rilevata. A questi due maestri io
ricondurrei le scelte formali, che sono ovviamente anche di contenuto, che
portano Gambedotti all'esito razionalmente immaginario di tante sue opere
ove non v'è dominio del protagonista ma della scena, come avviene nelle
straordinarie soluzioni adottate per la impeccabile serie dei Circhi tutti
retti sul principio delle architetture impossibili, che è lecito disegnare
ma che sarebbe vano tentare di costruire realmente. A questo punto mi pare
ovvio l'invito da farsi allo spettatore, chiamato ad esaminare queste
complesse architetture d'immagine, a considerare quanto di concettuale vi
sia in esse. Ci si accorgerà facilmente che ve n'è in misura almeno pari a
quella del fantastico, anzi che ciò che vi è qui di fantasia si esprime in
forma concettualmente percepibile e viceversa. Al punto che sarebbe oziosa e
vana esercitazione tentare decodificazioni che finirebbero per far perdere
proprio ciò che di specifico vi è nell'opera di Gambedotti, quella struttura
unitaria e ambigua dell'immagine che sola può consentire che il segreto
dell'arte non venga penetrato e che l'opera resti protetta e avvolta in quel
mistero per cui l'ammiriamo e la diciamo «inesprimibile» e intraducibile.
Non vorrei però limitare a questa dimensione dell'ambiguo-reale la lettura
dell'opera di Gambedotti, ignorando il carico di simboli e di metafore che
vi si raccoglie e che si esprime nella vasta congerie di iconografie
traviate: guerrieri e uccelli, corazze e graticole, scettri e stendardi,
aquiloni e carri sfasciati, falci e carrucole, insomma tutto l'armamentario
del grottesco universale portato a far scena in una dimensione che se non
fosse, come dicevo, teatrale sarebbe metafisica. Ma metafisico Gambedotti
non lo è mai, o quasi mai, se si considera, ma staccata dal generale
contesto, un'opera come la Natura morta con frutta del 1980 in cui appaiono
le stimmate del Novecentismo italiano più innamorato di Cézanne. Esatto
forse sarebbe un riferimento alle prove dell'arte dei «canti acuti» che
trionfò con la tarsia in forme talmente alternative alla pittura da renderla
illeggibile per chi aveva la pretesa, come il Vasari e tutta la critica
almeno fino a Roberto Longhi, di ricondurre questa disciplina ai canoni che
della pittura son propri. La mia non è solo una divagazione se è vero, come
credo, che Gambedotti non sia stato insensibile agli alti esempi urbinati a
cui ho accennato all'inizio. Ecco allora un'altra fonte per le gotiche
geometrie di cui liberamente s'avvale l'artista per costruire scenografie
immaginate, e quindi ovviamente immaginane.
La maschera (personaggio)
V'è un ultimo punto che non vorrei trascurare, anche perché intorno ad esso
s'è prevalentemente esercitata l'analisi degli studiosi che si sono occupati
fino ad ora di Gambedotti, ed è la questione del messaggio umano che si
esprime attraverso i modi di un racconto ambiguo e caotico fin che si vuole
ma certamente teso all'essenziale, lo credo che vada sottolineata più che la
componente ideologica quella ironica, intendendo con questo termine
comprendere il senso, a volta rabbioso, a volte dolente, del «distacco» che
l'artista opera nei confronti della propria immagine che ormai vive come
cosa «altra» e in un altrove. L'ironia presuppone interesse, forse amore, ma
certamente esclude il grido e il sarcasmo. Ecco perché le grandi scene
immaginate da Gambedotti vivono in una sorta di stupore e di silenzio. Ecco
perché in esse v'è assai più di dolore che di condanna e di denuncia.
Non spetta all'artista ergersi ad arbitro di un giudizio universale che può
invece mettere in scena, dipingere come un momento del grande teatro
dell'umano (che comprende il subumano e il sovrumano) perché altri giudichi,
mi sembra tanto consapevole Gambedotti della sua scelta di teatralità che io
proporrei di scegliere come emblematica di tanto suo lavoro, e come più
convincente approdo di una ricerca ormai non breve, proprio la serie dei
Circhi posti sullo sfondo di città che hanno esse stesse per sfondo il
circo, in una compenetrazione di piani prospettici e di elementi scenici
talmente rigorosa da imporre, come segno del gioco dell'ambiguità
dichiarata, il motivo centrale e ripetuto della quinta da palcoscenico: che
qui indica la dannazione dell'artista all'inganno consapevole e la sua
ineliminabile inquietudine di veggente al di là della scena che egli stesso
descrive.
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Michele Prisco (1985)
Che cosa si nasconde
dietro l'apparente ieraticità di questi personaggi di Nicola Gambedotti ? E,
innanzi tutto, chi sono questi personaggi di Nicola Gambedotti?
Sembrerebbero, a prima vista, degli armigeri, chiusi, come sono, e quasi
murati, in una serie di solide e geometriche bardature che hanno la solenne
pesantezza delle gualdrappe, i volti quasi trapezoidali che appena emergono
dal sottogola di strani copricapi, le mani dalle nocche fortemente
sbalzate, grandi, dure, nodose e squadrate fatte — si direbbe — per
impugnare più volentieri un'ascia che un fiore: ma poi a osservarli meglio
ci si accorge che le loro espressioni sono attonite, o spiritate, o
addirittura sgomente, e spesso rassegnate, e insomma non ci vuol molto a
capire che non hanno nulla della marzialità dei guerrieri, e semmai
appartengono a un'atemporale (nonostante quel clima medioevaleggiante che li
circonda) « armata Brancaleone » patetica e inoffensiva.
E allora diciamo che
sono solo, più semplicemente, delle creature umane, e che probabilmente la
singolarità dei loro cimieri (se si tratta di cimieri) così come l'illusoria
imponenza delle loro armature (se si tratta di armature) che li assomiglia
a una specie di preistorici o storici marziani catapultati dalla fantasia
dell'artista nel nostro mondo, serve unicamente da protezione: a
nasconderli, o ripararli, dalle insidie esterne, a porre un argine — non si
sa quanto efficace — alla eventualità di un'offesa o d'una provocazione o
d'un raffronto che possa venire proprio dal mondo esterno a colpirli.
Sono, in altre parole, dei poveracci, diciamo pure dei diseredati, che,
senza spocchia, accettano quasi di buon grado la stessa connotazione
grottesca con cui l'autore ha voluto affettuosamente coglierli e fermarli
sulla tela, riuscendo anzi a capovolgere i canoni del « genere » in una
dimensione e misura di più dolorosa e scoperta umanità.
Ci sembra questa la
chiave di lettura dell'universo fantastico in cui si muove Nicola
Gambedotti. Marchigiano, di Urbino, al cui celebre Istituto d'Arte ha
studiato e s'è formato inizialmente come incisore (e ne porta tuttora, quasi
vistosamente, le stimmate), Gambedotti è vissuto alcuni anni in Sardegna
prima di trasferirsi a Napoli dove attualmente vive. E si direbbe che questi
tre paesaggi — non soltanto geografici, soprattutto interiori — attraverso i
quali è passato, abbiano non appena influito sulla sua poetica d'artista ma
lasciato il segno persino sui moduli espressivi con cui quella poetica è
affrontata e svolta.
Di Urbino, e delle
Marche in genere, è la dolcezza architettonica di certi fondali: la
sognante e sinuosa curvatura del crinale dei colli che sfumano verso
l'orizzonte come la severa e un po' teatrale compattezza dei cortili e
delle piazzette rappresentanti come una sorta d'ideale scenografia da
commedia dell'arte; e della Sardegna è quel senso arcaico e mitico a un
tempo di un mondo chiuso sin nell'impenetrabilità dei suoi costumi e che
risponde con il silenzio e la fierezza ai colpi della cattiva sorte e con
l'isolamento alla prevaricazione della curiosità altrui; e di Napoli,
infine, il gusto del-l'assemblage, una più colorita e, se si vuole,
espansiva compiacenza alla rappresentazione di un'allegria che, al
contrario, maschera o in ogni caso cerca di vanificare le ingiurie della
miseria e si atteggia spesso nei toni e nelle movenze della ballata popolare
quando non in quelli di una più agra e movimentata « opera dei pupi ».
Di suo, Gambedotti vi
ha aggiunto intanto, in una con la pazienza quasi artigianale e
probabilmente caratteriale del suo far pittura ed essere uomo,
quell'attitudine al tratto deformante che però, s'è accennato, non è mai
dileggio quanto piuttosto un sentimento di partecipazione umana spinta ai
limiti della connivenza; e poi il piacere sin provocatorio d'esibire se non
il bagaglio della sua cultura almeno quello delle sue « affinità elettive
», da Piero della Francesca a Breguel il Vecchio e finanche a Bosch: e una
istintiva preferenza alla simbologia (la lumaca emblema d'un tempo che
scorre ma non muta nulla; gli uccelli anticipo di più mostruosi e feroci
volatili lanciati dall'uomo a solcare i cieli): e, soprattutto, quel modo
ch'è solo suo e tutto suo di « incidere » il colore, di graffiarlo e
scarnificarlo — si direbbe che usi il bulino più che il pennello —,
conferendo così ai rapporti cromatici un contrassegno che mescolandosi al
rigore compositivo dei singoli quadri caratterizza la sua pittura con
un'impronta tanto personale e suggestiva.
... Chi dice che la
fantasia non ha più diritto di cittadinanza nella società che viviamo?
Gambedotti ce ne offre la più rutilante smentita. Di più: artista del suo e
nostro tempo, della fantasia egli ha fatto non tanto o non soltanto la sua
sigla ma la sua poetica, e ce la propone come una specie di estrema Thule o
di ultima spiaggia, rifugio e insieme miraggio dell'uomo d'oggi sempre più
succube, in un mondo che non ha più sicurezze e certezze, dell'avanzata
tecnologica e sempre più vittima dei fanatismi della violenza.
In occasione della
personale a "La Scogliera" Vico Equense Napoli, 20 - 30
agosto 1985
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Friedhelm
Röttger
(1975)
Subito nella sua
pittura si ha il senso dell'architettura del Rinascimento, si avverte
l'atmosfera umana del Cinquecento, ma anche il demoniaco, fantastico mondo
di Bosch e Brueghel. E come in De Chirico, anche nei quadri di Gambedotti
si nota un certo effetto attraverso il confronto dei contrasti e del
contenuto delle forme
Per lui è la forma
umana che, chiusa disgregata e quindi, con l'ausilio di pezzi da
costruzione, ricostruita e perciò rimossa nel proprio movimento, prende
coscienza di se stessa e della propria libertà, agendoin un proprio motivato
scenario.
Strani utensili vi
sono in essi contenuti, anche il paesaggio è manipolato a questa guisa, dove
le masse si intersecano, i quadrati scavano
Astrusi corpi volanti
occupano il cielo, l'epoca della tecnica viene qui portata fino all'assurdo.
In tutto questo si
trova l'uomo.
Ecce homo! Un uomo, oppure strade o vicoli. Il suo aspetto, in
particolare nel viso, è duro senza individualita
I volti degli uomini
di Gambedotti sono mascherati, sono il prodotto di una massa senza
caratterzzazioni. Solo i maschi si riconoscono, uomini maschi, con elmi,
cinture, o ingioiellati con attrezzi da lavoro di ogni genere, o da soli o
in gruppo, ognuno non ha niente a che fare con l'altro, appare comunque
isolato.
Gambedotti dipinge
minuziosamente, senza pasta e le diverse campiture vengono trattate alla
maniera del graffito, realisticamente e minuziosamente riporta cosi la
supercivilizzazione in una nuova barbaria.
L'orrendo, l'inumano
non viene però fatto trapelare e si vede in dettagli terrificanti
Gambedotti ci dà la
sua visione in modo chiuso compatto in enigmi che vogliono essere svelati,
nell'estraneamento della cosa, in forme ripetute penetranti.
Cosi compaiono, quasi
come motivo conduttore in ogni quadro, tubi in forma di uccelli volanti,
strumenti, quali bastoni che possono essere mitragliatrici allo stesso
tempo, ratti infine nelle zone inferiori dei quadri il curioso, lo strano, è
sempre al centro di questa moderna pittura.
L'idea diventa
quadro, senza intenzioni letterarie.
L'espressione di
Gambedotti e tutta da vedere.
(Dalla presentazione
in catalogo in occasione della mostra alla Kunstgaiene Esslingen,
Stoccarda, 1975)
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Giovanni
De Carlo (1974)
Chi vuoi capire le opere di
Nicola Gambedotti non si illuda di poterlo fare con un semplice, affrettato
sguardo, né creda di coglierne l'essenza sottoponendole a un esame
superficiale. Se, dunque, ne vuole intendere l'intimo significato sarà
necessario che si soffermi dinnanzi a esse per qualche istante, che scruti
fra le righe della rappresentazione, che identifichi i vari, spesso troppo
numerosi oggetti, riportati sulla tela.
E' questo, senza dubbio, il
segreto per entrare nel mondo fantastico, quasi surreale dell'artista, per
raccogliere l'invito alla prosecuzione di un tema che lo
stesso ha iniziato già nel momento del concepimento della sua opera. Si
tratta di una caratteristica rara, o meglio, comune soltanto agli
artisti veri, degni di tale nome per la concezione tutta
particolare che hanno dell'arte vista come unico, valido stimolo per
aprire un discorso sia pure contraddittorio con l'osservatore. Un
dialogo ad ogni modo che lasci alla cultura e alla sensibilità
di ciascuno il compito di trarne le debite conclusioni.
Nato a Urbino quarantatrè anni or
sono, ha iniziato la sua attività nel campo della xilografia continuando lo
sviluppo dei suoi temi preferiti con la pittura. Un passaggio avvenuto
senza forzature perché spontanea conseguenza di una esigenza scaturita
dal desiderio di conferire alle figure un cromatismo e una vita che la
semplice impressione di uno stampo, anche se sapientemente inciso, non era
in grado di conferire. Figure di cavalieri che richiamano alla mente, nel
medesimo istante, la serena compostezza contenuta nelle opere di molti
quattrocentisti e la suggestiva, quasi istrionesca, atmosfera di un'epoca
recente o, addirittura, appartenere a un futuro ancora lontanissi-mo, nobili
signori dal tratto austero, dagli abiti di foggia antica, con strani
copricapo che nulla hanno di umano, ma che proprio per questo ben
sintetizzano il dramma della esistenzialità dell'essere.
Passato e futuro, dunque, si
fondono nella ispirazione del Gambedotti con un procedimento suggestivo non
certo privo di tormento come tormentata è la vita dell'uomo. Una creatura
vittima dei suoi eterni difetti, dei suoi insanabili (almeno
apparentemente) mali, delle sue passioni divoratrici.
Una commedia nella quale i due
maggiori protagonisti sono l'essere e il tempo in un alternarsi di
sensazioni, dove l'ultimo atto si riallaccia al prologo con un
procedimento conseguenziale, monotono, capace pure di mettere in luce la
profonda amarezza provata dall'artista nel rappresentare una realtà in
continua, ma soltanto illusoria, evoluzione.
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Sergio
Paglieri
(1971)
?
All'«Arte Club» (vico Loggia
Spinola 8 r.) Nicola Gambedotti di Urbino presenta opere figurative che
oltre il descrivere singolari personaggi da «armata Brancaleone» sono
tutto un «ricamo» di graffiti, di movimenti di materia, di riflessi
modernissimi.
N(?).
Alicorno
(1971)
Nicola Gambedotti è, più che
pittore, incisore: nato a Urbino quarant'anni fa, insegna presso l'Istituto
d'Arte di Napoli. Ha partecipato a numerosissime mostre e vinto molti
premi. La sua matrice di incisore si vede anche nei suoi oli: descrive
figure con una straordinaria cura di particolari (nei quadri piccoli: nei
grandi, si perde), e dà un po' l'idea di seguire l'insegnamento del Duerer.
Le sue scene sono sempre di personaggi strani, come di crociati buffi
e tragici, soprattutto tragici. C'è una desolata tristezza, nei
volti che Gambedotti dipinge, uno stupore disarmante, sotto cappelli
non credibili, o elmi, o chissà che cosa. E le mani reggono un arma, che non
vuol più sparare. Il colore è meditatissimo, il disegno eccellente. I
prezzi per i quadri di maggiori proporzioni non superano le
trecentocinquantamila lire.
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A. M.
Secondino
(1971)
?
Nicola Gambedotti ha in corso
all' «Arte Club » — vico della Loggia Spinola 8 r. Napoli — una « personale
» con opere attuali ed altre appartenenti agli anni precedenti, attestando,
nell'iter evolutivo della visione, una indiscutibile maturazione tecnica.
In effetti, i dipinti di epoca
anteriore appaiono ancora legati ad un rigido figurativismo, dal quale
l'artista si è completamente svincolato, approfondendo esaurientemente le
doti di mestiere, con particolare studio dell'elemento cromatico che
acquisisce ora suggestivi effetti di patina antica per una raffinata
elaborazione con preziosità di sovrapposizioni.
Dal valido ordito coloristico
prendono vita le immagini che rappresentano momenti di particolare
intuizione dell'artista, volto ad affermare una verità universale accentrata
sull'animo umano, sulla psicologia dell'individuo e sulle vicende
esistenziali.
Sono figure che, pur
nell'apparente distacco, hanno una carica emotiva straordinaria.
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Giovanni B.
Frangini
(????)
Nicola Gambedotti: alla
ricerca di una mitologia umana
Un mondo, quello di Nicola
Gambedotti, nel quale i riferimenti con situazioni strettamente legate al
nostro tempo, come si rileva in opere quali «Giovane guerrigliero» o
«Settembre nero», chiaramente riferibili al momento attuale; è invero un
mondo atemporale, teso a realizzare una nuova mitologia con la quale
stabilire una nuova condizione di vita.
I suoi quadri diventano racconti
dove l'esistenza umana è soggetta ad elementi particolari (come la chitarra
nel «giovane guerrigliero») che richiamano alla memoria cose come antiche
armature, acconciature o illusioni di gusto rinascimentale, per dimostrare
che l'uomo di ieri, è uguale a quello di oggi e che probabilmente lo sarà
domani. La narrazione dell'esistenza ove paura e incertezza, instabilità e
miseria si contrappongono in evidente conflitto, inquadra l'uomo e ce lo
presenta in continua attesa di un mondo migliore.
Nicola Gambedotti realizza queste
sue composizioni con una tecnica raffinata, fatta di colore, di interventi
con il bulino, oppure con patinature, dimostrando una seria competenza nella
fase operativa veramente qualificante.
Da tempo, forse da sempre, il
marchigiano Nicola Gambedotti ha trovato il ritmo giusto o, meglio, la
disjanza giusta per contemplare e condensare, tra allusione e ironia, le più
disparate e suggestive "citazioni" socio-culturali che sottendono, col
benestare della poesia (epigramma o lauda, indifferentemente), la sua
emblematica e fascinosa mitologia figurale: di qui l'indubbia abilità di
Gambedotti nel far coincidere puntualmente, all'interno del suo meccanismo
linguistico di alta precisione, la spietata e "candida" lucidità della
definizione pittorica con l'ambigua (volutamente e felicemente ambigua) e
raffinata ricorrenza delle identità e delle alternative del gran teatro
delle memorie, dei pudori, delle nostalgie, delle cadute e delle
resurrezioni.
La Vela viale Storchi 28
tel. 218279 Modena
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Corrado
Marsan (????)
L'espressività e l'attendibilità
di queste pagine di Gambedotti si manifestano, dunque, all'insegna di un
ansioso e insolito " itinerario di passione " un itinerario — certi segni
e certe unghiate di colore, ad esempio, che d'un tratto si irritano o si
adagiano come per riesumare e riabilitare, ad uso e consumo della nostra
presunta disponibilità al dialogo e al dibattito, un'ennesima versione dei
"canti dell'innocenza" o le stupefacenti calcomanie di un raffinatasimo
"anonimo del Quattrocento" - caratterizzato, di arabesco in arabesco, da
un ineffabile grado di solennità, di magia e di crudeltà (una crudeltà che
non ha niente a che vedere, è sottinteso, con quella professata dal
civilissimo Artaud), una solennità, ancora, spesso minacciata o
deliberatamente aggredita (Gambedotti dimostra di possedere, in simili
frangenti, una non comune dose di autocritica) e tuttavia resistente,
come tenuta coi denti o, più delicatamente, con la forza
dell'intelligenza.
E Gambedotti continua, tra
cronaca nera e cronaca gialla, a predicare l'amore per gli oggetti, per gli
arredi e per certi "personaggi" reperibili, forse, nei capoversi meno
conosciuti della "chanson de geste" o delle "leggende del Graal" sì che
nell'intimità del suo occhio critico si distinguono, chiaramente, le due
anime e le due voci dell'artista. C'è il Gambedotti sacerdotale che proclama
i suoi dogmi, che tiene un tono magniloquente e che incastona, su tavole e
tavolette, i suoi inni di battaglia e le sue invettive lapidarie: il
Gambedotti "racinien". E c'è, accoppiato, il Gambedotti trovatore che si
diverte a glossare e che, di tarsia in tarsia, cancella o stravolge dediche
rientrate e fa il risvolto farsesco al sublime. Un discorso tutto sommato,
in partita doppia, contrappuntato a umori alterni e conseguenziali un
canzoniere, in forma di rebus o di "puzzle", che il pittore viene componendo
col fermo proposito di riscrivere o di ritessere un nuovo elogio del
"fantastico" e del satirico ' (e, sotto sotto, del "metafisico" e del
"surreale"). Ma anche un giornale di bordo stilato col preciso intento di
arrivare, al di la dei "d'apres" e delle schermaglie culturali, al recupero
di un mondo profano, più vicino - nelle sue miserie e nelle sue grandezze,
nei suoi paradossi e nelle sue similitudini - all'uomo dei nostri giorni e
alla sua storia quotidiana. E queste violentemente plastiche e contrastate,
sono le immagmi di una "realtà" che Nicola Gambedotti inquadra e ci
consegna, tra progetto e destino, nell'istante del trapasso dal futuro al
passato, dall'ideologia alla cronaca o, concludendo, nell'istante in cui
l'impeto della violenza si fonde, come per incanto, con la contemplazione
della pietà.
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Corrado
Marsan
(????)
Nel segno del fantastico e del
satirico, del sacro e del profano, dell'identità e dell'utopia. Dies irae.
Labirinti, catacombe, ghetti, tribunali dell'inquisizione, giardini dei
supplizi, teatrini della crudeltà, ballate in onore del Gran Macabro di
ghelderoniana memoria e sogni premonitori popolati di finti giullari, di
consiglieri fraudolenti, di apprendisti stregoni e di ineffabili Cavalieri
dell'Apocalisse: per chi suona (o risuona la campana ? Per un superstite
profeta dell'Età dell'Oro alle prese con l'emblematico e grottesco Guerriero
Tecnologico, per il Vecchio Marinaio alla ricerca di un leggendario cimitero
subacqueo, per l'Ultimo dei Moicani, per il Principe dell'epopea
rinascimentale o per il Narciso che ci portiamo dietro, da sempre, come
fosse un amuleto da esibire in situazioni di emergenza ? Tra annosi
dilemmi, editti rientrati e strani interludi — direbbe l'Anonimo Urbinate —
ecco che affiorano e si rivelano, lungo un ansioso e civilissimo itinerario
di passione, le nuove carte segrete e i nuovi trofei del fascinoso
canzoniere dei paradossi e delle similitudini di Nicola Gambedotti; quattro
pagine — intitolate, non a caso, « le stagioni » — che concorrono a
denunciare, aldilà dei consueti «d'après» e delle schermaglie culturali più
o meno ammaestrate, il declino doloroso delle Barriere dell'Innocenza e dei
residui Paesi delle Meraviglie e, di contro, l'avvento di fittizie e
retoriche luminarie celebrative e di allucinanti e assurde parate
goliardico-clericali. Fortunatamente, però, il silenzio eloquente del mare
ci ricorda che è necessario e doveroso imparare a scrutare e a leggere ben
oltre le mura merlate dei castelli e dei palazzi ducali; proprio come
scrutavano e leggevano il ciclo gli astronomi distesi, per ore e ore, sui
terrazzi notturni di Babilonia. Qui, comunque, il gioco delle parti e degli
enigmi continua, tra dediche ed epitaffi, senza incertezze di sorta; dagli
scacchi ai tarocchi e viceversa, mentre un redivivo e paziente folletto
bruegeliano ci invita, con gesti inequivocabili, a ripercorrere insieme il
chapliniano cammino della speranza. È la legge, inalterabile, della
reversibilità del reale; tanto del reale nel suo specifico quanto
dell'allusivo e illusivo «reale immaginario». Va da sé. infatti, che queste
non sono altro che struggenti decalcomanie e scorci simbolici di una realtà
contestata che Gambedotti inquadra e ci consegna, col beneplacito
dell'Oracolo, nell'istante del trapasso dal presente al futuro, dall'eros
all'horror vacui, dalla cronaca all'ideologia; o, concludendo, nell'istante
in cui l'impeto della violenza si fonde, come per incanto, con la
contemplazione della pietà. E, ad ogni cambio di stagione si ripete,
puntualmente, l'antico prodigio del «recitar cantando».
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P.A.
(????)
Nicola Gambedotti e i suoi
gnomi olandesi
Considerato uno dei massimi
esponenti dell'arte incisoria
Nicola Gambedotti
contrariamente a quanto si possa pensare non si è diplomato a Napoh ma nel
paese di Raffaello precisamente nella colta Urbino; una cittadina che sforna
spesso e volentieri future personalità di spicco nella cultura mondiale. Ma
Gambedotti è nato a Roma quasi per caso dice lui perchè a Roma non ci sono
vissuto per niente. La mia patria è Napoli e qui ho insegnato per ben
quarant'anni nell Istituto d'arte a ridosso di Piazza Plebiscito. Una vita
trascorsa con i grandi maestri del primo Novecento Da Chiancone a Striccoli
da Verdecchia a Casciaro e tanti altri. Io ero il più piccolo d'età,
racconta Gambedotti, e venivo fresco di diploma da Urbino e trovarmi in un
ambiente nuovo a fianco di firme già collaudate nell ambiente artistico era
per me un onore un poco imbarazzante. A mano a mano però presi confidenza e
la mia esuberanza giovanile contagiò gli altri colleghi e divenimmo amici.
Non posso dimenticare le scorribande di sera nelle pizzerie o nella scelta
di posti dove di domenica si poteva andar a dipingere. Lunghi itinerari
viaggiando a bordo di una vacillante Seicento. E cosi non mancavano le
estemporanee di pittura. Allora di posti meravigliosi dove poter dipingere
ce ne erano tanti intorno alla città e, tra questi lavori all'aria aperta ed
occasionalmente altri divertimenti che non sto a dire, la vita trascorreva
felice. Tanto che amo Napoli nonostante il cemento l'abbia quasi soffocata.
Nicola Gambedotti è un uomo dall'aria mite, dalla giovialità contaminante,
corpo esile e barba incolta. Occhi vivi e penetranti nonostante l'aria di
un ragazzo vivace e simpatico. Pronto alla battuta quanto schivo nel farsi
avanti la modestia dei grandi artisti prevale sul considerevole talento
quasi vergognoso di farsi avanti e dire "Io sono" non lo dice e credo non lo
dirà mai. La modestia è il suo essere artista. Una qualità dell'uomo che
fa ancora più grande la sua arte. II genio è cosi, non chiede confronti, non
lotta per mete, non fa a gomitate per raggiungere ipotetici traguardi. E
visto che il nostro Gambedotti ci ha spinti a respirare l'aria pura
dell'Olanda del XII secolo diciamola tutta: i suoi personaggi andrebbero ben
collocati in un paesaggio di Vermeer, a parte forse di spegnere un pò i
colori, come la "stradina" o la veduta di Delfi la città che diede i natali
a Vermeer. Forse il nostro Gambedotti ha sbagliato secolo per nascere,
fortunati noi che invece possiamo strigergli anche la mano ! La tecnica
acrilica, l'incisione bulinata, i colori vivaci su gnomi rappresentativi di
un mondo fiabesco, di un mondo di sogno in netto contrasto con quello
attuale dove è tutto mercificato. Gnomi olandesi quale libera
mterpretazione del pensiero. Uomini che non vogliono crescere ma rimanere
nel loro mondo piccolo e amichevole, sereno e lucente con i suoi colori
sgargianti dal cromatismo staccato e netto nella sua funzione decorativa.
Lo sguardo attonito sotto la
pioggia come un avvenimento traumatico per chi è abituato a vedere sempre il
sole. Il buon Seminatore, il contadino che semina, un lavoro di routine che
non gli da un espressione particolare, un cielo azzurro che fa sfondo appena
picchiettato di nubi bianche pronte ad essere portate via dal vento e
dissolte nel nulla. Tuttavia l'elemento che predomina è lo gnomo che in
posizione eretta accetta di essere il protagonista del futuro evento della
raccolta.
Alberi coi rami stroncati dal
vento nella "Nevicata" dove gli gnomi si confondono coi bambini che
profittano della neve per giocare. Ma attenzione c'è uno steccato quale
simbolismo di una eterna divisione tra gioco e realtà. Non è un caso che la
mano del maestro ha voluto separare i due mondi l'uno fatto di spensierata
allegria e ingenuità e l'altro che rappresenta la casa e le responsabilità
oggettive.
Ciò che più colpisce nei
giocatori di carte è lo sguardo interrogativo degli stessi giocatori che si
scrutano a vicenda quasi a voler leggere l'un nell'altro le carte che
possiede a differenza delle due figure in piedi che estatiche aspettano la
fine della partita per servire da bere. Tutti sono vestiti con abiti che
sembrano armature medievali. Forse siamo nelle campagne ai tempi
dell'Orlando Furioso ma non c'è nulla che possa far presagire un invasione
una guerra o altra calamità. Siamo sempre nel mondo fiabesco di Gambedotti.
Un mondo dove i giocaton di bocce pare stiano affrontando una partita
decisiva del loro avvenire. Un insieme di persone che circondano la
minuscola pista, attendono l'esito pronte ad applaudire i vincitori. Gazze
ladre o merli che volteggiano e portano messaggi di pace. Un insieme di
gradevoli sensazioni che l'arte di Gambedotti ha reso sublimi. Ma un
autentica meraviglia l'abbiamo con "La Giara". Un acrilico bulinato su
tavola della misura di 44x34. Un autentico capolavoro. I personaggi sono
tanti che circondano una giara come fosse caduta dal cielo. Non mancano gli
uccelli postini di buon nuove. Siamo sempre in campagna ma questa volta c'è
anche uno scorcio di mare.
Tutto sembra fermo in attesa di
un evento straordinario o la meraviglia è rappresentata solo dalla giara che
troneggia nel bel mezzo degli gnomi. Non ci è dato sapere ma ciò è
chiaramente irrilevante a fini di una valutazione dell'opera. La donnina in
primo piano ha sottobraccio un giornale, un fascicolo, comunque delle carte
che pare custodiscano il segreto di una giara tanto grande per le loro
dimension fisiche. Ecco lo sguardo di attesa degli altri che vorrebbero
sapere qual'è l'origine della giara. Una delle sette meraviglie del mondo
? O un dono mandato dal cielo? Un divino regalo degli Dei. Forse. Come
divina è l'opera composta e gli Dei, rappresentati dal Gambedotti con la sua
produzione, fanno da cornice.
Marcel Proust con uno scritto tra
l'altro disse di Joannes Vermeer: « Un piccolo lembo di muro gial lo ... di
una bellezza che basta a se medesima ... Un giudizio calzante anche per
Gambedotti.
COLLOQUIO CON L'ARTISTA
Incontro il maestro pittore ed
incisore Nicola Gambedotti nello studio di Napoli dell'Ingegnere Corduas.
Ha portato con sè alcune foto di sue opere che sono state riprodotte in
questa pagina. Alcuni originali fanno bella mostra di sè appesi alle pareti
di questa associazione. Con fare sempre sorridente e cordiale mi guarda
interrogativamente come se stesse per dire allora queste domande me le fa o
no?
Non c'è fretta. Prima il caffè
corto fumante quasi amaro ordinato al bar della galleria amabilmente
offertoci dall'anfitrione Ing. Corduas. Finito di sorbire l'ottimo caffè,
dove avevo aggiunto un altra zolletta di zucchero, inizio la conversazione
con questa prima domanda.
Nella sua lunga camera d'artista,
ha mai dipinto dal vero riproducendo fatti reali, cosi come si vedono, cioè
un figurativo moderno, senza ricorrere ai sogni e alle fantasticherie ?
«Si senza dubbio. La mia pittura
è iniziata proprio con il figurativo moderno sulla scia dei grandi maestri
napoletani, cioè della scuola napoletana, perché loro come me provenivano da
altre regioni italiane. Verdecchia, per esempio ,era abruzzese»
Crede negli autodidatti ?
«Nella stona dell'arte ce ne sono
pochi, anche se egregi. La scuola ha sempre formato artisti di grande
valore. Prima c'erano le famose botteghe d'arte dove il maestro insegnava a
dipingere ma più che il colore insegnava la prospettiva. Oggi ci sono gli
istituti d'arte, i licei, le accademie o anche scuole di pittura private ove
i giovani o meno giovani vengono formati e forgiati al disegno ed alla
prospettiva necessaria come base di una buona pittura. Poi la fantasia
dell'artista fa il resto. Il colore, l'impasto del colore, le varie
sfumature cromatiche non si insegnano, sono appannaggio della sensibilità
dell'artista»
Lei mi parla di forme e di
prospettiva, ma ci sono e ci sono stati grandi maestri dell'arte che un bel
momento non hanno tenuto conto nè della figurazione nè della prospettiva,
come spiega tutto ciò ?
«Si è tutto vero ciò che dice ma
lei non tiene conto di un importante considerazione, quella cioè che questi
grandi maestri se in talune opere non hanno rispettato volutamente le
sembianze umane e la prospettiva ciò era dovuto al fatto che essi non
ritenevano in quel contesto necessario ai fini dell'opera uno schematismo
dottrinale. Essi rompevano il passato esaltando invece l'insieme ed il
colore. Ciò non vuol dire che essi non conoscessero la forma e la
prospettiva. Solo che volutamente non l'hanno usata.
Cambiamo argomento e passiamo al
suo amore per Napoli. Non prova comunque nostalgia per Urbino?
«Si sente nostalgia per qualcosa
o per la terra natia quando lì si lasciano degli affetti amici persone care
ambienti familiari dove si è vissuti e che ti lasciano ricordi struggenti.
A me dopo tanti anni mezzo secolo di vita passato a Napoli i ricordi si
sono affievoliti ma non certo obliati. Quando mi prende il sentimento della
noslalgia dico a mia moglie di preparare la valigia e si parte. Ma gli
affetti, le grandi amicizie, i familiari e quant'altro forma la vita
interiore dell'uomo sono qui in questa terra stregata di Napoli dove ormai
ho affondato le mie radici».
MOSTRE E QUOTAZIONI
Non possiamo ovviamente citare
tutte le mostre d'arte del maestro Nicola Gambedotti per il solo fatto che è
una vita che ha sempre dedicato all'arte e ci vorrebbe più di un giornale
per elencarle tutte; ne citeremo solo alcune tra le più importanti e
rappresentative della vita di questo grande artista contemporaneo. Varie le
tappe, vari i lusinghieri successi che hanno coronato la sua brillante
carriera. Dall'annuario d'arte moderna "Artisti Contemporanei 2000
riproduciamo questi dati:
Pittore/Incisore: Figurativo di
ricerca
Quotazioni: da un milione a
cinque milioni di lire
Mostre: "Premio Marzocco" a
Firenze
Gallena Forni ad Amsterdam
Kunstgallene
Eslingen Museum of arte (Davtona)
Fond. Gulberkian di Lisbona 1999
Palazzo dei Congressi di Lugano
Le sue opere figurano in
collezioni private e pubbliche presente nei più qualificati annuari e
cataloghi d'arte. In breve la sua arte è stata così descritta: "Scenari
medievali di vaga ambientazione nordeuropea arricchiti di impercettibili
elementi di contaminazione moderna costituiscono il mondo fantastico,
satirico, del sacro e del profano, l'agognata violazione dei confini
spazio-temporali. Nicola Gambedotti: Cavalieri dell'Apocalisse, Tribunali
d'inquisizioni, Giardini dei supplizi e ancora Ghetti, Labirinti, Catacombe
oltre il loro significato allegorico accrescono la dimensione narrativa di
una pittura sulla quale la grande maestria nella tecnica dell'incisione
propria dell'autore lascia una traccia inconfondibile caratterizzando il
tratto e lo stile di un artista eccelso»
[Da un articolo su
giornale ....]
VAI INIZIO PAGINA
ANNUARIO
d'Arte Moderna "Artisti Contemporanei 2000"
Gambedotti Nicola
Roma, 28 settembre 1931
Dati specificativi: N S N
L G
Referenze: Associazione Culturale
Napoli Nostra
80100 Napoli - Via Serio, 4 -
Tel. 081/400954.
Domicilio: 80131 Napoli - Via G.
lannelli, 45/C
Tel.: 081/5794759.
Formazione artistica: Diplomato
all'Istituto d'Arte di Urbino.
Pittore/Incisore: Figurativo di
ricerca.
Tecniche: incisione.
Soggetti: paesaggi e figure.
Quotazione: L. 1.000.000 /
5.000.000.
Mostre e Rassegne d'Arte: "Premio
Marzocco" (Firenze) - "Gal. Forni" (Amsterdam) - "Kunstgallerie" (Eslingen)
- "Museum of Arts" (Davtona) - "Fond. Gulbenkian" (Lisbona) - 1999 "Palazzo
dei Congressi" (Lugano).
Critica: citato dalla Stampa
specializzata, testimonianze di: Corduas, Venturoli, Marsan, Prisco, Rottger,
Ruyo, Amodio, Solmi, Veronesi, Tombari, Calabrese, Trotta, Pasquali,
D'Antonio, Lubrano ed altri.
Le sue opere figurano in
collezioni private e pubbliche.
Presente nei più qualificati
annuari e cataloghi d'arte moderna.
"Scenari
medievali di vaga ambientazione nord europea, arricchiti di impercettibili
elementi di contaminazione moderna, costituiscono il mondo fantastico,
satirico, del Sacro e del profano; l'agognata violazione dei confini
spazio-temporali di Nicola Gambedotti. Cavalieri dell'Apocalisse, tribunali
dell'inquisizione, giardini dei supplizi, e ancora ghetti, labirinti,
catacombe, oltre il loro significato allegorico, accrescono la dimensione
narrativa di una pittura sulla quale la grande maestria nella tecnica
dell'incisione, propria dell'autore, lascia una traccia inconfondibile
caratterizzando il tratto e lo stile un artista eccelso". (Crocefissione,
acrilico, 33x6).
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