150° Anniversario dell'Unità d'italia URBINO 1860 di raffaele molinelli |
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Questa
pubblicazione è stata promossa e curata S.T.E.U. - Stabilimento Tipografico Editoriale Urbinate Urbino 1961
Per l'occasione è stata allestita da LUIGI MORANTI una Mostra Celebrativa
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PRESENTAZIONE di CARLO BO Le relazioni, i documenti e il catalogo della Mostra che qui sono raccolti si riallacciano idealmente a quello che è stato lo spirito della Libera Università di Urbino non solo negli anni del Risorgimento, dico negli anni di esplosione e di definitiva risoluzione, ma anche in quelli della preparazione. Fu allora che la nostra piccola Università accolse professori in esilio e in fuga da Bologna e consentì che la libertà di pensiero fosse esercitata e salvaguardata. Non è stata cosa da poco, direi anzi che il coraggio d'allora dovrebbe restare come un monito e un invito per le nuove generazioni. Se la storia ha un senso per gli uomini, è proprio questo: collaborare attraverso le generazioni alla creazione di un'anima e di uno spirito. Cambiano le condizioni, cambiano le regole, naturalmente cambiano i mezzi che Dio mette a nostra disposizione ma i problemi di fondo restano gli stessi. Ora se ci riportiamo indietro di un secolo — e sia pure sulla spinta di una celebrazione — vediamo facilmente che l'uomo matura lentamente e matura proprio contro le costrizioni, le superstizioni e l'intolleranza. Dalla piccola Università di allora, così stretta nell'obbedienza a una regola ben precisa, è partita una scintilla che sarebbe stolto dimenticare negli arnesi da retorica ed è giusto invece alimentare come un segno di rispetto dell'uomo e della vita. Infine, se è vero che l'Università deve provvedere a formare gli uomini e non soltanto delle macchine, la lezione deo professori che stavano in cattedra un secolo fa non ha perso nulla della sua forza. Puntava sull'uomo, proprio come alle nostre ore migliori noi vorremmo suscitare intorno all'immagine dell'uomo libero il consenso stesso del cuore. D'altra parte non c'è altro mezzo di riscatto che questa forma di collaborazione. Proprio come tentava di cantare lo studente urbinate del 1831, esattamente come facevano quei professori in esilio e - non dimentichiamolo — quei colleghi che avevano aperto le loro porte e sfidate le misure di repressione. Resti almeno, negli anni duri che ci aspettano, la forza di guardare esempio e di seguirlo. Carlo Bo PREMESSA Lo storico Luigi Salvatorelli affermava di recente che dalle conferenze e dai convegni commemorativi di questi ultimi due anni emergeva questa verità: "il Risorgimento non è stata l'opera di una ristrettissima minoranza, agitantesi al di sopra di un popolo indifferente e ignavo", ma che invece è stata l'opera della maggioranza della classe politicamente attiva del paese, maggioranza appartenente a tutti i ceti sociali con una fortissima aliquota di popolo.
Ogni tatto politico, diceva il Salvatorelli, specialmente poi se è rivoluzionario, possiamo aggiungere noi, è svolto dalla "parte numericamente minore di un popolo, mentre la maggioranza adempie al compito quotidiano, senza cui la vita si arresterebbe"; e questa massa, diciamo, è in posizione di indifferenza, di ostilità o di attesa e si acconcia ad accettare gli eventi. La maggioranza del popolo italiano si trovò nel Risorgimento su questa posizione ed una buona parte di essa, possiamo ben dirlo, più che essere indifferente od ostile, aspettò e accolse con soddisfazione gli avvenimenti. Della minoranza politicamente attiva la maggior parte, ed è ovvio, la miglior parte, fu unitaria e nazionale e in essa ci fu una larga partecipazione popolare. Le nostre Marche confermano pienamente queste affermazioni. Borghesi e aristocratici costituirono qui il gruppo patriottico dirigente, ma accanto ad essi vi furono vasti gruppi popolari attivamente impegnati. Nelle società segrete e nei primi moti e congiure troviamo elementi popolari; nel moto di Macerata, come ci dicono gli Spadoni, "gli aggregati .... che risultarono all'autorità inquirente furono tali e tanti che, se si fossero dovuti arrestare tutti le carceri non sarebbero state sufficienti a contenerli...".
Panorama di Urbino (da una stampa della fine del sec. XIX). Nella congiura del Belardinelli a Jesi e nei moti del 1831 troviamo pure appartenenti ai ceti popolari. Nel 1833 a Macerata, dopo lo sbarco francese ad Ancona, alcuni popolani vengono condannati per i loro sentimenti nazionali e liberali. Operai marchigiani partecipano alla spedizione dei fratelli Bandiera e marinai di Ancona a quella di Pisacane. Studenti e giovani operai si arruolano a centinaia nell'esercito che va a combattere in Lombardia nel 1848. La sola Ancona partecipa alla guerra del 1848-9 con 3.282 volontari. La massima parte dell'Armata Romana era composta di operai e artigiani, sì che un nobile, rivolgendosi ai ricchi e agli aristocratici della sua città, poteva dire: "Ma fra quei combattenti vi erano forse di voi? nessuno o pochissimi". In gran numero partecipano i marchigiani alla difesa della Repubblica a Roma e all'assedio di Ancona e quasi tutti sono popolani. Nella seconda guerra di indipendenza Fano, Pesaro, Ancona, Pergola, Macerata, Loreto inviano centinaia e centinaia di volontari. Nel 1860, poi, hanno luogo l'insurrezione di Pergola, la marcia dei patrioti su Urbino e la spedizione dei "Cacciatori delle Marche". Nelle imprese garibaldine troviamo operai e artigiani della regione; nella campagna del 1867 dell'Agro Romano un'intera colonna è composta di anconetani e jesini. A proposito della partecipazione alla spedizione dei volontari di Jesi, uno storico poteva scrivere nel 1890 : "Tutti gli idonei al maneggio di un fucile, tranne i vecchi e coloro che per fiacchezza o precoce senilità di animo a quelli sono da paragonarsi, tutti corsero a cimentarsi in quella improvvisa campagna". L'impegno attivo dei marchigiani nell'azione risorgimentale è attestato anche da questo fatto: verso la fine del 1853 e agli inizi del 1854 nelle carceri di Ancona, Fermo e Ascoli erano detenuti ben 242 marchigiani imputati per reati politici: numero assai rilevante se si pensa che la popolazione della regione era allora di circa 922 mila abitanti. La partecipazione attiva delle classi popolari urbane è documentata da tutti gli elenchi dei cospiratori, dei condannati, dei volontari, giacenti negli archivi. Per le campagne, invece, si ha notizia di un solo episodio : a Porto di Fermo la polizia scopriva nel 1841 una società rivoluzionaria di una trentina di persone, nella maggior parte contadini, guidata dal mazziniano conte Ferri ; gli arrestati, 24, venivano condannati due anni dopo a 15-20 anni di galera. Questa partecipazione di contadini ad una cospirazione è un fatto assai raro nella storia risorgimentale. Quanto all'atteggiamento della grande massa della popolazione marchigiana, scriveva il Bonanni nel 1860 che nella regione si potevano a stento individuare due partiti, il clericale e il radicale, ma che la grande maggioranza deplorava ambedue. E ciò era senz'altro vero perchè chi si impegna attivamente nella lotta politica, specialmente se aspra e dura, va sempre incontro a misconoscimenti e deplorazioni, ma la gioia popolare, l'entusiasmo del "basso popolo" nei giorni della liberazione o in occasione di altri avvenimenti, come, ad esempio, la proclamazione della Repubblica Romana, ci sono attestati da varie fonti, anche di parte avversa. Il Risorgimento nelle Marche si presenta perciò non come un movimento di ristrette élites, ma come un moto popolare di ampie proporzioni, in cui una frazione di punta opera, rischia e paga di persona e la grande maggioranza della popolazione urbana, ed anche, in primo piano, le classi popolari, parteggia e approva quell'opera di distruzione dell'esistente regime politico. Tutto ciò va detto non tanto per valorizzare l'apporto dell'una o dell'altra classe all'opera risorgimentale, ma perchè questa è la verità storica: tutto il Risorgimento sta a dimostrare la decisa volontà del popolo italiano, espressa dall'opera della stragrande maggioranza del suo ceto politico e dalla aspettativa calma od ansiosa di buona parte della sua società civile, di creare uno stato nazionale fondato sulle principali libertà civili e politiche proprie della società moderna. Esaminando le vicende risorgimentali di Urbino e della zona circostante, nel 1860, troveremo la migliore conferma a queste asserzioni.
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