Storie
brevi anzi brevissime (fine
1800-1960 circa)
di Massimo
Arcangeli (Sbranghin)
Stralci
di vita contadina dai racconti dei nonni,
degli zii e dal vissuto di un bimbo ormai
cresciuto
Nascere in silenziO
di Massimo Arcangeli
La stalla era
satura del proprio odore, il calmo ruminare delle bestie
si diffondeva rassicurante ovunque. Tommaso curvo sopra
la Buona s'intravvedeva appena, la confortava
accarezzandola e le parlava con voce bassa e calma nei
momenti più difficili del travaglio.
Maria
Maddalena aveva la fronte imperlata di sudore, in
silenzio aspettava ansiosa l'ultima violenta
contrazione. Giaceva, piccola e pallida, sull'enorme
pagliericcio di foglie di granoturco e tra una doglia e
l'altra ordinava alle cognate il da farsi. La camera per
l'occasione era stata imbiancata a calce e la fiamma del
lume sembrava raddoppiare la sua efficacia. Come in un
gioco cinese, Maddalena seguiva la strana trama del suo
parto dalle ombre che furtive si animavano sulle pareti
candide.
L'evento per
la Buona fu rapido, in sequenza nacquero due
vitelli vigorosi. Tommaso, orgoglioso, l'aiutò per quel
che poté ma la bestia era un'esperta ottima fattrice e
instancabile detergeva con la lingua ogni più piccola
parte delle sue creature.
Maria
Maddalena non fu da meno, in quanto a esperienza ne
aveva da vendere, e quasi in sintonia con la Buona
partorì il suo settimo figlio.
Crescentino,
il settimo figlio di Maria Maddalena, mio zio, alla
nascita non volle vagire, dopo le due sculacciate di
rito si contorse, mimò con il riso lo stupore di essere
nato, respirò profondamente e s'addormentò.
Al villaggio
tutti ne parlarono: un bimbo era venuto al mondo in
silenzio. I forse, i perché si sprecarono, mai nessuno
in quel luogo aveva fatto parlare tanto senza aver detto
nulla. Il parroco intervenne e stabilì che forse in
tutto ciò c'era lo zampino del Signore, impose a Maria
Maddalena, donna pia e devota, di chiamarlo come il
Santo Patrono del Comune: Crescentino, appunto.
INIZIO PAGINA
Spartire la
miseria
di Massimo
Arcangeli)
La famiglia di
Tommaso gestiva un podere a mezzadria, il fondo era
esteso, il lavoro immane, il guadagno la sussistenza
quotidiana.
Crescentino
come tutti si adattò alle miserie della vita di ogni
giorno, ma sapeva osservare e memorizzare. Ricordava il
timore che assaliva i suoi genitori al giungere del
fattore, ricordava che quando costui nominava il padrone
i suoi familiari istintivamente abbassavano il capo. Il
fattore, con il suo carro e lo stupendo cavallo dagli
zoccoli tirati a lucido con lo strutto, era il male:
s'intrufolava in ogni dove, controllava, ordinava,
bestemmiava gesticolando con le mani lisce che, come per
magia, apparivano e sparivano da sotto il nero mantello
a ruota.
Il "padrone",
quella parola magica che anche il fattore pronunciava
con preoccupazione, doveva
essere ancor
peggio del male visto che, pur non comparendo mai,
s'ingoiava quasi per intero il prodotto delle fatiche di
tutto il nucleo familiare.
Maria
Maddalena alcuni anni dopo aver procreato il decimo
figlio, morì. Avrebbe compiuto di lì a poco
quarantaquattro anni.
Tommaso le
sopravvisse a lungo e continuò a gestire il fondo fino
alla sua morte che avvenne all'età di ottantasei anni.
In quel
periodo giravano per la casa, fra figli e nipoti, generi
e nuore, ventitré persone. I più anziani si riunirono,
parlottarono animatamente fra loro e decisero di
abbandonare il fondo per tentare la fortuna all'estero o
nelle regioni più a nord.
Le divisioni
furono rapide: ogni famiglia si accollò una parte del
debito contratto con il padrone, perché costui,
inesorabilmente doveva sempre avere. Ognuno ereditò il
suo piatto, la sua forchetta e il suo cucchiaio; l'unico
bicchiere, così come il piatto per condire i maccheroni,
passò a Giovanni, il più anziano dei figli di Tommaso.
Nazzareno, il minore dei maschi, mio padre, ebbe in più
la terza parte del lungo tavolo a dodici gambe perché
aveva accettato di accudire e allevare nella propria
famiglia Rosina, la più piccola della nidiata di Tommaso
e Maria Maddalena.
I rimanenti
due terzi del tavolo furono venduti ai nuovi contadini e
il ricavato assieme al fucile ad avancarica a un solo
colpo, passò all'unico figlio scapolo, ma in grado di
badare a se stesso, Crescentino.
INIZIO PAGINA
Una
personalità particolare
di Massimo Arcangeli
Gli abitanti
del villaggio Ca' Baldaccio concordavano nel dire che
Crescentino aveva un buon carattere, era gentile ma
"rustico", di poche parole ma saggio, solitario ma
ricercato. In quel luogo di miseria era l'unico capace
di riflettere e di formulare un pensiero autonomo e
personale. "El scaff", lo scapolo, così lo chiamavano in
paese, prima che albeggiasse s'infilava velocemente i
soliti pantaloni e la camicia sbiadita di sempre a
scacchi rossi e blu. Ai piedi non calzava nulla, la loro
pianta abituata alle più ruvide superfici s'era
inspessita a formare una callosità più tenace e
resistente del cuoio; aveva però un paio di sandali che
usava con parsimonia e solo in occasioni particolari, se
li era fabbricati da solo ritagliando e sagomando nel
giusto modo il pneumatico di un veicolo tedesco
abbandonato al passaggio del fronte.
Usciva di casa
senza serrare l'uscio. Dopo aver ingoiato rapidamente un
tozzo di pane, s'avviava risalendo il fosso lungo
l'argine immergendo i piedi tra le erbe umide e le
foglie di farfara cariche di rugiada. Di fronte era la
sua meta: la linea nitida della collina, quasi un
graffio contro il cielo limpido, ne segnava il limite.
Camminando Crescentino controllava il territorio, da
anni compiva lo stesso tragitto marcando con il suo
passaggio i confini del piccolo regno, conosceva gli
abitanti di ogni pozzanghera, di ogni cespuglio, di ogni
fonte e, di tutti, i modi di vivere, gli eventi fausti e
infausti.
Giunto sul
crinale, lì dove gli occhi abbracciavano l'infinito, si
sedeva sul grosso ciottolo di arenaria, sfilava il
sacchetto di tela grezza che portava appeso al collo, ne
estraeva una foglia di tabacco, l'arrotolava
accuratamente e l'infilava in un bocchino di tibia di
coniglio, così, in attesa della sfera di fuoco, della
scintilla della vita di ogni giorno, fumava beato.
INIZIO PAGINA
La Miniera
di Massimo Arcangeli
Crescentino
viveva a modo suo. Nelle giornate terse si caricava
d'energia esponendosi per un po' ai raggi solari e
poiché nulla aveva mai posseduto scrutava fiero verso
valle i propri "confini ideali", assimilando così il suo
modo d'essere a quello d'un frugale animale
territoriale. Era, in effetti, ancora un
cacciatore-raccoglitore.
Conosceva ogni
forma vegetale, distingueva le eduli dalle tossiche e
prelevava dal mondo animale, non amando uccidere,
l'indispensabile.
Quando il
tempo lo permetteva, infilava ai piedi i suoi preziosi
sandali "Ho Ci Min", buttava di traverso sopra le spalle
un vecchio sacco di tela di juta e, munito di un
rudimentale piccone, s'inoltrava di buon'ora verso una
zona calanchiva del "suo territorio" per estrarre
minerale di zolfo dalla "sua" miniera a cielo aperto.
Qualche anno
prima, dopo un lungo periodo di piogge, una fetta di
terreno s'era staccata dal costone scosceso ed era
scivolata giù a valle fin dentro il fosso ostruendolo in
parte. La frana liberò uno strato di minerale il cui
orizzonte estrattivo era di circa cinquanta centimetri.
Crescentino subiva in quel luogo la sua metamorfosi
mutando lo stato di cacciatore-raccoglitore in quello di
minatore. Quando il gelo e la neve mordevano con rabbia
che neppure la volpe più ardita usciva dalla tana,
Crescentino accoccolato vicino al camino con la sua pipa
di tutolo in bocca di fronte alla mutevole magica
fiamma, estraeva dal minerale frantumato lo zolfo, che
sciogliendosi, a rivoli, colava prendendo la forma degli
occasionali recipienti di raccolta. Come un mago, pago
delle sue alchimie, guardava e riguardava con fierezza
il prodotto che lentamente solidificava e viaggiava con
la mente ai primi tepori primaverili quando lo zolfo
sarebbe stato ceduto ai contadini del villaggio in
cambio di alimenti.
INIZIO PAGINA
Il pranzo
di Massimo Arcangeli
L'abitazione
di Crescentino non differiva molto da quelle degli altri
abitanti del villaggio. Pur essendo lo spazio a
disposizione minimo, il vuoto prevaleva sul pieno e i
suoi mobili rigorosamente tinteggiati di rosso bandiera
contenevano solo ciò di cui non si poteva fare a meno.
Le pareti ad intonaco irregolare una volta bianco calce,
avevano assunto un aspetto grigio scuro, fuligginoso; i
vetri delle piccole finestre apparivano così opachi che
la luce che riusciva a filtrare all'interno creava solo
uno stato di permanente penombra. Anch'egli era
difficilmente identificabile quando d'inverno,
accovacciato vicino al camino, fissava ansioso,
nell'attesa di giorni migliori, le sue miserie. Sul
tavolo stazionavano in permanenza, capovolte, tutte le
sue stoviglie. Erano gli unici oggetti in grado di
brillare, igienicamente a posto, su ogni altra cosa la
polvere si stratificava sedimentando nel tempo.
Singolare e bizzarra appariva la piana del tavolo quando
Crescentino la liberava dai piatti e dai bicchieri per
detergerli. Forme rosse circolari prendevano vita
giocando a riflettere la tenue luce della stanza e
creando per un attimo un'atmosfera magica e surreale,
tali suggestioni avevano termine nel momento in cui con
millimetrica pignoleria lo scapolo faceva ricombaciare
l'oggetto alla forma sul piano.
Egli non si
era mai iscritto ad un partito, la politica
partecipativa non lo interessava, dentro di sé si
sentiva però comunista. Questa scelta intima era frutto
di osservazioni e di esperienze passate; amava spesso
ricordare a questo proposito l'episodio del pranzo
rituale che ogni anno obbligava i suoi genitori ad
invitare il fattore, la sua famiglia e il prete.
Naturalmente Maria Maddalena e Tommaso mettevano a
disposizione la casa, le vivande, il servizio. Il prete
forniva le grandi pentole per cucinare. Quando tutti
erano pieni come otri e ogni pudore era vinto dai fumi
del vino, il parroco presentava il conto: l'affitto dei
tegami.
INIZIO PAGINA
A raggiare
di Massimo Arcangeli
Quella notte
senza luna lo scapolo costruì con un ramo secco di
sambuco e la sua unica forchetta uno strano strumento.
Si arrotolò i pantaloni fin sopra il ginocchio, afferrò
la lampada ad acetilene che pendeva dal chiodo e senza
accenderla uscì di casa infilandosi nel buio più
profondo. Alzò lo sguardo per un attimo, le stelle erano
così fitte che la volta del cielo pareva poggiare sopra
le sue spalle. Come un gatto sicuro del suo fine,
imboccò il giusto viottolo e giunto al torrente entrò in
acqua e vi si immerse fino ai polpacci. Risalì l'Apsa
controcorrente per un lungo tratto. Sotto la pianta dei
piedi sentiva il piacevole contatto delle alghe verdi
fissate al substrato. Si fermò un istante, tese
l'orecchio, udì l'acqua gorgogliare nella strettoia che
ben conosceva e con un gesto automatico, veloce, strappò
dalla vegetazione, quasi fosse giorno, una fronda di
salce. La munì di un nodo all'estremo più spesso, piantò
bene i piedi equilibrando sugli arti il peso del corpo
per non scivolare e a occhi chiusi, come in un arcaico
rituale propiziatorio pensò intensamente alle sue prede
prima di iniziare a raggiare.
Era questo un
tipo di pesca che si praticava solo quando l'acqua
superava a malapena i ciottoli arrotondati che giacevano
sul letto del torrente. Proprio lì, nel punto più
angusto dove il flusso liquido, spumeggiante avanzava
sviluppando maggiore pressione, i barbi, le anguille, i
cavedani, le scardole si ammassavano per pasturate come
pecore. Dopo l'attimo mistico "Scentin" sfilò dalle
spalle l'artigianale fiocina, accese con uno zolfanello
la "centilena" e con lenti movimenti, simile alla
mantide in caccia, tese il suo agguato. Confusi dai
raggi luminosi, quasi in catalessi, i pesci
s'incantavano a quel sole insidioso e non appena la luce
riflessa dal ventre argentato di una grossa preda ne
tradiva la presenza, veniva trafitta dall'inesorabile
arpione. Un attimo di trambusto e il pesce già pende
infilato nel lungo ramo di salce.
INIZIO PAGINA
La quercia
vetusta
di Massimo Arcangeli
Si sentiva
malinconico quel giorno, anche lì, nel limitato mondo
che ben conosceva, ogni cosa stava irrimediabilmente
cambiando.
Il villaggio
si era svuotato, gli abitanti rimasti a condividere il
piacere di una vita semplice e difficile si contavano
sulle dita di una mano.
I nuovi ritmi
obbligavano a non pensare e l'orologio che si ostinava a
non comprare imponeva tempi serrati anche a chi non
l'aveva. Il sole, abituale mezzo per scandire le
operazioni della quotidianità non contava più nulla.
I suoi greppi
erano ancora intatti, i suoi confini inalterati, intorno
però non più un campo coltivato, non un orto, non alberi
da frutta, la campagna stava tornando a sodo. Un'orda
selvaggia di ginestre, di madreselva, di rovi, di
sanguinello si riappropriava dei coltivi, occultando per
sempre le fatiche dei suoi avi.
"Che
tristezza", pensò Crescentino, "Quanto spreco!" ribadì
mentalmente, e, come perso, sentì collassare su di sé il
vuoto dei nuovi ideali. Con il capo volto a mezza costa,
guardò l'enorme quercia che svettava per metà al di
sopra del crinale della collina contro il cielo blu. Una
folata di vento animò la chioma vetusta, il largo tronco
gemette, le sue smisurate radici s'aggrapparono ancor di
più all'immane zolla; Crescentino esitò prima di
crollare poi, quasi fosse la madre, gli urlò le proprie
angosce.
INIZIO PAGINA
Flora
di Massimo Arcangeli
Nulla faceva
presagire la gravità della ferita. Un taglio sottile,
profondo, un taglio dolce provocato da chissà quale
strumento abbandonato fra le alte stoppie, gli aveva
leso la caviglia. Crescentino neanche ci badò. Chino
sotto il fascio di grano appena spigolato proseguì verso
casa, inconscio che già era in atto l'inizio della fine.
Il maligno gioco della morte penetrato in quello stupido
graffio s'apprestava alla partita. I vecchi rimedi, i
decotti, gl'infusi, i cataplasmi di Achillea, di
Alchemilla, di Bardana non portarono alcun lenimento. La
piaga blu-viola e purulenta lievitava a vista d'occhio,
lo zio e il suo bagaglio di conoscenze empiriche era
impotente, la medicina tradizionale sconfitta. Un
vicino, entrato in casa per fare "due parole" , lo trovò
febbricitante disteso sul piancito. Cercò di rincuorarlo
parlandogli con tenerezza ma lo scapolo non reagì.
All'ospedale
dove fu ricoverato si riprese un po', cercò senza mai
parlare lo sguardo dei parenti che a turno lo accudivano
vivendo con mestizia la breve degenza.
Una notte
d'improvviso l'infezione degenerò. La febbre s'impadronì
del suo corpo, si sentiva leggero, etereo, quasi
evanescente. La mente ebbra senza più costrizioni,
scavalcando ogni schema razionale vagò libera. Rivide
immagini già viste, rivisse emozioni già provate, sua
madre, suo padre, i suoi fratelli senza tempo e senza
età animavano lo schermo dei suoi sentimenti. Dagli
anfratti più reconditi della memoria riaffiorava
un'immagine persa. Crescentino si sentiva turbato e
felice: proprio come allora Flora era lì, nascosta dalla
fratta di tamerici, in bilico accoccolata sopra la
trave, s'era calata le mutande per urinare. La fanciulla
intuì di essere osservata e maliziosa allargò le gambe
per mostrare la fica.
Mia madre, che
lo sorvegliava, vide lo zio che sorridendo ruotava su un
fianco, pensò che stesse migliorando. Era stato quello,
invece, l'ultimo sorriso.
INIZIO PAGINA
Indagine
dialettale
Filastrocca
popolare che veniva cantata
ai bambini
mentre si faceva la staccia
di Simonetta
Fucili
Dindolon dalla
catena
Di' ma babo
ch’venga a cena
Se a cena en ce
vol ‘nì
Daj un calc e lasc'le
gì
Lasc’le gì a
rugulon
Gió p’i foss de
Fosombron
Fosombron è ‘na
cità
Acident ma chi ce
sta
Ce sta ‘ncha la
mi' sia
Acident anca ma
lia
Ce stann tutt’ i
mi' parent
i cascassa tutt’ i
dent.
Dindolon dindolon
Le campan de
Fosombron...
INIZIO PAGINA
ENGHIDO
Indagine
dialettale
(Racconti di vita
degli anziani)
di Simonetta
Fucili
Guido era un
omino che, oltre a saper parlare solo il dialetto, aveva
difficoltà di pronuncia. Se gli chiedevi il suo nome
lui rispondeva: Enghido, così tutti lo chiamavano
Enghido.
Le suore di un
convento di Urbino lo chiamavano spesso per fargli fare
dei lavori manuali. Un giorno aveva bisogno di ungere
la sega per fare uno dei soliti lavori per le suore.
Allora chiede alla suora che lo guardava:
Enghido
- en cin en gas e ugna en sega (un cuncin de grass per
ugere la sega)
Suora
- come?
Enghido
- en cin en gas e ugna en sega (un cuncin de grass per
ungere la sega)
Suora
- non capisco! che cosa vuoi?
Enghido
- Un cass en fega (un cass
ch’te frega)
Suora
(con viso severo) - Guido non si dicono le parolacce!
Enghido
- en cin en gas e ugna en sega
en pisci..un cass en fega pisci prò! (un cuncin de
grass per ugna la sega en el capisci, un cass te frega
el capisci, però)
INIZIO PAGINA
O bel clivo
sfiorito Cavallino
Un viaggio nel passato:
Castel Cavallino negli anni '50
Anna Maria Capellacci Maria Grazia
Borgiani Maria Denis Forlani
A tutti coloro che si
ritrovano in queste pagine
ci scusiamo per le inevitabili omissioni
e per le eventuali imprecisioni,
poiché sono ricordi di tanti anni fa...
Si ringraziano per
l'aiuto, la collaborazione e la disponibilità
Bianca Perugini e Marzia Ugolini.
Introduzione
Molto spesso succede che la vita, gli
anni, il tempo scorrano veloci e noi sempre indaffarati
tra il lavoro, la famiglia, i figli e i mille impegni
quotidiani, spesso non ce ne rendiamo neanche conto. Si
arriva poi ad una certa età, quando ci si può permettere
una pausa di riflessione sul tempo trascorso, ecco che
riemergono i ricordi e ci si accorge di quanti
cambiamenti si sono susseguiti negli anni.
Dalla mia casa di Urbino, dove vivo da
tanti anni, si scorge all'orizzonte Cavallino, il
paesino dove ho trascorso la mia fanciullezza e
adolescenza, piccola frazione a sette chilometri da
Urbino.
Un tempo il paese si ergeva solitario
sulla collina, come un castello isolato lontano dalla
città, da qui forse il nome di Castel Cavallino. Adesso
già da lontano lo si vede circondato da case e villette,
sorte qua e là come funghi ai piedi di un albero.
L'idea mi viene all'improvviso! Ho voglia
di rivedere quei luoghi a me molto cari e vivi nei miei
ricordi, per rendermi conto dei mutamenti avvenuti e per
confrontare quello che è Cavallino oggi rispetto a
quello che era ai miei tempi.
Mi avvio verso Gadana, altra frazione di
Urbino da dove si arriva al bivio per Cavallino ("el
Bossle").
Il luccicante autobus dell'AMI,
semivuoto, mi sorpassa ed ecco i ricordi che riaffiorano
e che saranno oggetto di questo libro, che, senza alcuna
pretesa, vuol ricordare il tempo e la vita di questo bel
paesino, tra gli anni cinquanta e sessanta.
INIZIO PAGINA
Luoghi
Un tempo, salendo verso il paese, la
prima casa che si incontrava era quella di Castellucci,
che viveva con la moglie e con i due figli, nostri
compagni di scuola, poco più in su c'era l'Ospedaletto,
dove abitava Spadoni con la moglie Erminia e due figlie.
Continuando a salire per un lungo tratto, non c'erano
più abitazioni, ma solo sterpaglie al lato della strada.
Proseguendo ancora, si arrivava ad un piccolo incrocio
dove c'erano un gruppetto di case, la prima era di De
Angelis, mentre la seconda più grande era di Bernardini,
quello del negozio di scarpe, detto "Cin Cin" che viveva
con la moglie Ione e i figli Umberto, Lidia, Luisa e
Claudia. Seguiva la casa della Effeta, una signora
vedova, che viveva con il figlio Ilario, e la casa di
Carloni, che viveva con la moglie Tina e con cinque
figli: Gilberto, Elio, Franca, Anna ed Ercole.
Mi avvio verso destra e noto che, dove
una volta c'erano i campi coltivati, ora c'è un campo
sportivo dove i ragazzi giocano a calcio.
La prima casa che incontro è la "Pollinara",
dove abitava un certo Gaspare con la moglie e i tre
figli e lì vicino ecco il Cimitero. Il lungo viale,
limitato ai lati dai cipressi, è sempre lo stesso, le
vecchie mura sono state allungate con delle nuove, il
vecchio cancello cigola ancora, ma quello che si vede
all'interno è molto diverso da allora.
Ora ci sono i "tombini" e le tombe nuove
e ben curate, anche il prato è molto curato e pieno di
margherite. Pochissime sono le lapidi a terra. Un tempo
a destra dell'entrata c'era un Campetto, dove erano
sepolti solo bambini; al contrario di adesso la
mortalità infantile era ancora notevole. Più avanti
c'erano tante altre tombe a terra e non esistevano
ancora i "tombini". Girovagando per il viale interno del
cimitero, ogni ritratto che scorgo attaccato ai marmi,
mi è familiare, perché, in un modo o nell'altro,
ciascuno di questi personaggi ha preso parte agli
episodi della vita del paese.
Esco con malinconia dal cimitero,
malinconia che si dissolve subito alla vista della
grande chiesa parrocchiale di "S. Cassiano". Ora
completamente ristrutturata e riportata alle vecchie
origini, un vero gioiello di architettura romanica. Ai
nostri tempi era completamente diversa; all'interno era
intonacata e dove ora c'è il presbiterio c'era la
sagrestia. Dopo la dottrina noi bambini ci divertivamo a
suonare le campane, facendo l'altalena con le corde e i
più grandicelli ci mettevano paura con un teschio che
stava dentro un antico mobile.
Continuo il mio pellegrinaggio e arrivo
davanti alla "Pieve", una casa contadina, dove abitava
la famiglia Serafini con tanti figli. Uno di questi
veniva a scuola con me e si chiamava Sergio o "Pistel".
Da qui comincia il vialone cintato di biancospino, in
mezzo al quale una volta sorgevano piante di melograno e
di lillà.
Non ci sono più i gelsi pieni di more
bianche e rosse che a noi bambini procuravano dei gran
mal di pancia per le abbondanti scorpacciate.
Di fianco alla chiesa c'era la casa del
parroco, Don Arturo, una casa con un grande cortile dove
noi giocavamo spesso, divertendoci a tirare l'acqua
fuori dal pozzo con una strana pompa a mano.
Nel retro, oltre la camera del prete,
c'era un grande salone dove andavamo alla dottrina.
A volte era possibile anche fare delle
escursioni sul campanile della chiesa, col risultato di
uscirne fuori tutti sporchi
e impolverati. Dietro la chiesa ci
abitava un contadino che aveva una figlia, di nome
Fiorina.
Proprio in questa chiesa ho fatto la mia
Prima Comunione. Ai miei tempi la Comunione era un
grande evento, le femmine usavano indossare dei vestiti
bianchi, lunghi, con tanti pizzi e merletti. I vestiti
si passavano da una bambina ad un'altra. A me era
capitato uno dei vestiti più belli, preso in prestito da
un'amica che aveva avuto a sua volta dalla cugina Isella,
alla quale era stato regalato da persone abbienti.
Dopo la Comunione, che veniva fatta
rigorosamente a digiuno, il prete usava offrire la
colazione ai bambini nel salone della chiesa, si
mangiava pane e mortadella e squaglio di cioccolata.
Poco lontano dalla chiesa c'era quello
che noi chiamavamo "Bersò", si trattava di un luogo dove
c'era un grosso pino, citato anche dal Pascoli in una
sua opera. L'albero aveva una grandissima chioma dove
d'estate andavamo sempre a giocare sotto la sua ombra.
Ora non c'è più, è stato colpito da un fulmine qualche
anno fa e col suo tronco sono stati ricavati dei sedili
e dei tavoli per il pic-nic.
Ritorno verso il centro del paese,
oltrepasso il piccolo borgo di case all'incrocio e
arrivo al "Palazzo del Prete", palazzo chiamato così,
perché costruito sotto la stretta vigilanza di Don
Arturo. Il "Palazzo del Prete" per noi bambini era un
luogo bellissimo, nuovo, aveva tante stanze ed era
circondato da un grande prato.
Il primo piano era adibito a Scuola
Materna, mentre al secondo piano c'era la Scuola
Elementare e al piano terra un piccolo teatro, dove si
organizzavano delle recite, sotto la guida della
signorina Derna, una maestra d'asilo.
Nella sala del teatro, a volte, Don
Arturo trasmetteva qualche film con il proiettore, ad
esempio io ricordo benissimo il film "Bellezze in
bicicletta".
Alcune stanze erano occupate da tavoli e
manichini perchè era stato istituito un corso di taglio
e cucito per le ragazze più grandi. Alcune di queste
ragazze arrivavano anche da Urbino in bicicletta. Il
corso era diretto dalla signorina Eleonora di Orciano.
Nel pomeriggio era stato istituito anche
un doposcuola, dove insegnava la signorina Marisa
Gentilini, che arrivava con la sua vespa e un grande
sacco pieno di pizzette e panini con marmellata a
scacchetti duri, per farci fare merenda.
Si può dire che noi ragazzi di Cavallino
abbiamo passato tutta la fanciullezza attorno a questo
stabile.
INIZIO PAGINA
La scuola
Prima di venire trasferite al "Palazzo
del Prete", le tre aule della scuola elementare erano
sparse nel paese in diverse abitazioni private. Un'aula
si trovava nel palazzo di Italia Scipioni, un'altra
sopra il locale del prete, dove in seguito verrà
sistemata la televisione e una presso Bernardini.
Le maestre venivano da Urbino. Nelle
stagioni calde arrivavano in vespa, mentre nei mesi
invernali le portava il taxi, guidato dal signor
Giorgini. Le maestre erano: la signora Giovanna Angeli,
la signora Giuseppina Lazzari e la signora Amelia
Franchi, sostituita poi dal maestro Fini.
A scuola si andava vestiti col
grembiulino nero e il colletto bianco con relativo
fiocco: rosa per le femmine e azzurro per i maschi. Le
classi erano molto numerose, a quei tempi esisteva la
pluriclasse cioè, una classe unica che raggruppava
bambini di età diverse. Oltre a venire dal paese, molti
ragazzini arrivavano dalle case di campagna, allora
tutte abitate. Si usavano cartelle di cartone rigido, di
colore marrone, piccole, portate tipo valigetta per le
femmine e a tracolla per i maschi.
E rimasto nella mia mente l'odore
particolare, che emanavano le cartelle e che negli anni
non ho più sentito. Alcuni ragazzi avevano le cartelle
di stoffa, fatte in casa dalle loro mamme o nonne.
In inverno indossavamo degli scarponcini
con la para, i ragazzi di campagna, invece usavano una
specie di zoccoli in legno con pelle rustica sopra,
unita al legno con tanti piccoli chiodi, puntati su
strisce di latta molto spesso riciclate dai
barattoli di conserva, tanto che se ne
leggeva il nome. Il motivo per cui utilizzavano gli
zoccoli era il seguente: venendo dalla campagna, erano
costretti a camminare molto per arrivare a scuola e
questi erano più resistenti delle scarpe.
Le aule erano riscaldate con delle stufe
di terracotta, alimentate a legna. Le maestre durante le
lezioni si portavano sempre dietro lo scaldino, un
recipiente di coccio col manico, che veniva riempito di
braci ardenti e serviva per scaldare le mani.
Le cartelle non erano molto grandi, ma
capaci di contenere le poche cose che servivano: un
libro di lettura, due quaderni, uno a righe e uno a
quadri, una carta assorbente, una matita, la gomma per
cancellare, un cannello colorato sul quale venivano
puntati i pennini e una scatola di colori pastelli,
solitamente "Giotto" da sei. I quaderni erano con la
copertina nera e i fogli bordati di rosso. In terza
elementare si aggiungeva il sussidiario, libro unico con
nozioni generali di storia, geografia, aritmetica e
scienze. I banchi di scuola avevano incorporati dei
calamai con l'inchiostro. In prima elementare si usava
solo la matita e nei primi mesi si scriveva solo nel
quaderno a quadri grandi.
Il programma dei bambini di prima
prevedeva una serie interminabile di pagine con
stecchetti orizzontali, verticali, diagonali e tondini,
seguivano altre interminabili pagine di letterine
minuscole e maiuscole in corsivo.
In seconda elementare si arrivava all'uso
della penna ad inchiostro, questo per i ragazzini
inesperti era una vera impresa. L'inchiostro schizzava
ovunque e le carte assorbenti riuscivano a malapena a
tamponare le tante macchie, i quaderni diventavano
luridi, per non parlare delle tante "orecchie" negli
angoli del quaderno che si creavano appoggiando i
gomiti. Chissà perché i ragazzi di oggi non le fanno
più?
I nostri grembiuli diventavano lucidi e
lisi sui gomiti con l'usura.
Ricordo le prime lezioni di geografia e
soprattutto quando la maestra ci portava al
"dopolavoro", perché da quel punto si poteva vedere un
panorama fantastico: ci mostrava i monti, il fiume
Foglia e la sua valle, le colline intorno e,
all'orizzonte, lontano, il mare.
La maestra a volte allungava anche
qualche scapaccione agli scolari più turbolenti e non
aveva alcuna pietà per Franco, perché avrebbe dovuto,
secondo lei, dare il buon esempio, essendo figlio del
maestro Italo. Le maestre una volta avevano un ruolo
riconosciuto di vere e proprie educatrici e potevano
permettersi le maniere forti con il benestare dei nostri
genitori che le sostenevano sempre.
Nonostante avessimo iniziato il ciclo
scolastico senza alcuna preparazione, le maestre sono
riuscite a licenziarci dalle scuole elementari quasi
tutti ben preparati, lasciandoci inoltre un buon
ricordo.
Negli anni cinquanta non c'erano mezzi di
trasporto fino al paese, si utilizzava la vecchia
corriera di Marcheggiani, che collegava Urbino con
Casinina e che passava al bivio menzionato per Cavallino
al mattino alle 6.30.
Per noi ragazzi, che andavamo a scuola a
Urbino, era una vera alzataccia per essere puntuali
all'appuntamento con la corriera, dopo aver percorso i
due chilometri fino al bivio a piedi. L'autista del
tempo era Alfio Buratta, uomo molto gentile che, quando
ci capitava di essere in ritardo, ci veniva incontro con
la corriera, arrancando in retromarcia. Tutto questo
finì con l'arrivo del nuovo autista Nando, che invece
spesso ci lasciava a piedi, nel vero senso della parola,
non si poteva certo aspettare la prossima corriera,
perché non c'era e quindi si andava a scuola fino a
Urbino a piedi. Per tornare a casa dalla scuola, la
corriera partiva dal teatro Sanzio di Urbino,
attraversava la piazza, saliva per S. Lucia e poi andava
diretta fino al bivio per Cavallino. Là puntualmente
c'era Bruno il postino, che aspettava la corriera per
ritirare il sacco della posta con la sua vespa.
A quei tempi la strada non era asfaltata
ed era molto polverosa, qualche ragazzo più grande di
noi, con il motorino, trainava dietro un grande ramo
appositamente, per tirarci addosso la polvere.
L'ultima corsa serale della corriera per
il ritorno da Urbino era alle 16.30, chi non riusciva a
prenderla cercava di aggregarsi a Bernardini, l'unico in
paese che aveva l'automobile e che rientrava a casa,
dopo la chiusura del negozio di scarpe, con la
giardinetta supercarica.
Pluriclassi a Cavallino: a) "da
Gualtiero" e b) al "Palazzo del Prete"
Bambini davanti al "Palazzo del Prete"
Il doposcuola con l'insegnante Marisa
Gentilini
Panorama visto dal "Dop lavor"
INIZIO PAGINA
Le vacanze
A giugno finiva la scuola e iniziavano le
vacanze, a quei tempi per vacanze si intendeva solo il
periodo che andava dalla fine di un anno scolastico
all'inizio del successivo. L'ultimo giorno di scuola, la
maestra ci salutava non prima di averci caricati di
compiti da svolgere durante le vacanze. Compiti che,
puntualmente, non venivano mai terminati.
L'idea di trascorrere le vacanze al mare
o in montagna non ci sfiorava nemmeno, neanche
conoscevamo questi luoghi, almeno fino a quando, negli
anni seguenti, alcuni enti pubblici hanno organizzato
colonie estive per bambini.
Per gli adulti non esistevano vacanze,
anzi, era proprio il periodo estivo l'ideale per
poter fare qualche lavoretto e raggranellare qualche
soldo in più. Le donne prestavano spesso il loro aiuto
ai contadini per mietere il grano, mentre gli uomini
formavano la squadra, che collaborava con Ciaroni per la
trebbiatura con la "macchina da batta"; questi
lavoravano continuamente giorno e notte in tutti i
poderi della zona.
Io ero solita passare qualche settimana
dalla nonna, che viveva lontano da Cavallino con i
figli, le nuore e i nipoti. Era una famiglia contadina e
per me era un'occasione per ritrovarmi con gli zii e i
cugini.
Nel periodo della mietitura, gli uomini
si alzavano allo spuntare del sole e si avviavano verso
i campi a tagliare il grano. Noi ragazzini li
raggiungevamo nel pomeriggio per dare le "bracciate", un
lavoro più leggero e adatto a noi. Si trattava di
raccogliere fasci di spighe di grano già tagliate e
portarle agli uomini, i quali formavano
dei grossi "covoni" legati con le "rocce". Oltre al
lavoro, era un momento di grande divertimento per noi,
che tenevamo sempre d'occhio la stradina dalla quale
sarebbe arrivata la zia con un grande cesto con la cena
da consumare sul posto. Si stendeva una grande tovaglia
"el mantil" sulla "seccia" e si mangiava seduti in
terra.
Le pietanze erano sempre le stesse:
fagioletti in quantità e fette di "lombett" o salame
fatto in casa; il tutto accompagnato da grosse fette di
pane anche questo di produzione casalinga.
Finita la cena, noi ragazzini tornavamo a
casa, mentre gli adulti continuavano a lavorare fino al
calar del sole.
Dopo diversi giorni di duro lavoro nei
campi i "covoni" venivano caricati su grossi carri,
trainati dai buoi e portati fino all'aia di casa. Con i
covoni veniva costruita una grossa "barca" pronta per
essere trebbiata. La famiglia era in fermento perché
presto avrebbe avuto il risultato della propria fatica.
Le donne erano indaffarate a cucinare
l'oca, allevata per l'occasione e a preparare
ciambelloni e crostate. La nonna era addetta alla pasta,
faceva rigorosamente le tagliatelle tagliate a mano e
tutte uguali.
Quando Ciaroni, con la sua squadra di
uomini, aveva installato la "macchina da batta" rossa,
collegata al trattore con un cinturone, incominciava la
trebbiatura. Tra la polvere di paglia e di pula si
incominciavano a contare le "minel-le", dei contenitori
che misuravano la quantità di grano.
Se alla fine si superava "el cent", cioè
cento quintali, la sirena della trebbiatrice lanciava un
suono che si sentiva in tutte le vallate intorno.
Nonostante la grande stanchezza, alla fine tutti
mangiavano, bevevano e ridevano soddisfatti.
Finite le operazioni per la raccolta del
grano, si ricominciava con il granoturco, anche questo
raccolto a mano e tra-
sportato dai campi all'aia con la
"treggia" che lasciava solchi lucidi sulla strada. La
"sfogliatura" e la "sgranatura" si facevano
prevalentemente di notte e si organizzava una grande
veglia tra i vicini.
Venivano posizionate delle lampade in
vari punti dell'aia, alcuni adulti sfogliavano le
pannocchie e altri le sgranavano con strani aggeggi di
ferro. Chiacchiere e risate si susseguivano,
accompagnando il lavoro. Noi ragazzini ci divertivamo a
fare salti tra le foglie soffici del granoturco che
sarebbero servite poi per imbottire materassi
scricchiolanti e per dar da mangiare alle "vacche".
Questi sono spezzoni di vita contadina
spettacolari, mi tornano in mente oggi, quando in un
campo di grano, vedo un anonimo trattore che, da solo e
in poche ore, sostituisce quello che allora era una
faticosa e festosa tradizione.
INIZIO PAGINA
Gli abitanti
Un tempo nei paesi le persone si
chiamavano con i soprannomi, tanto che a volte i veri
nomi ci erano del tutto sconosciuti, per questo motivo
in seguito citerò molti soprannomi dei personaggi
rigorosamente in dialetto: chiedo umilmente perdono di
questo, ma da bambina li sentivo ripetere continuamente.
Continuando il mio giro verso Cavallino,
attraverso il grande prato del "Palazzo del prete" e
incontro le case, che erano di Antonietta e di Elena
"del Brascle", due signore anziane, che vivevano coi
mariti.
Più avanti nella curva c'era un piccolo
sentiero che abbreviava la strada per il paese, lì c'era
la casa di "Chiarabini" e di sua moglie, perpetua di Don
Arturo e suo figlio Duilio, unico professore a cui ci si
rivolgeva, se si aveva bisogno di qualche lezione di
latino e di italiano. Proseguendo per la strada maestra
si arriva al paese, che inizia con una grande casa
chiamata "Doplavor", un tempo ritrovo serale per la
gente che tornava dal lavoro. Qui prima abitava Pucci
con Lisa Orazi detta "Lisa de Canisciolti", in seguito
il figlio Oriano con la moglie Tina che erano appena
tornati dal Belgio, dove si erano trasferiti per lavoro;
questi avevano due figlie: Amneris e Nadia.
Seguiva la casa della "Gigia de Marchin",
che viveva col figlio Mario e la nipote "Nitta", la
Gigia era famosa perché "sbrangava" gli oggetti di
coccio.
Passato il sentiero, si arriva sotto le
mura del castello do-
ve un tempo c'era una piazzetta "aia", il
nostro abituale ritrovo per giochi e chiacchiere, che
proseguivano a lungo, finché la "Blicca", che abitava
accanto non era stanca di sentirci e, dopo averci
sgridato, ci gettava l'acqua addosso.
Di fronte all'"aia" c'era la casa di
Vincenzo e Rina la cui figlia Bianca, era una di noi.
Vincenzo amava la caccia e per questo motivo teneva
davanti casa tante gabbie con uccelli da richiamo che
noi, puntualmente, ci divertivamo a disturbare.
Subito dopo c'era la chiesa, anzi la "chiesolina"
perché piccolissima, l'unica nel paese, dove si andava
alla benedizione serale, mentre la Messa si celebrava la
domenica nella chiesa parrocchiale di "S. Cassiano". Il
campanile era staccato dalla chiesetta e stava nello
stabile di fronte, si suonava la campana per mezzo di
una cordicella che scendeva radente al muro.
Sulla destra attraverso un antico arco,
sul quale è rappresentata la testa di un conte, dal cui
nome forse deriva Cavallino, si entrava nel paese. Qui
abitava la Montaspro, signora vedova, con le figlie Tina
e Quinta, che facevano le magliaie.
Nel retro della chiesa, dopo l'arco,
abitava "Gig el calsolar", che si sarebbe trasferito in
seguito al "doplavor". "Gig" ci aggiustava le scarpe
rotte, perché dovevano durare a lungo, metteva delle
lunette di ferro sulle punte e sui tacchi, tanto che al
passaggio sui ciottoli si sentiva un gran rumore. A quei
tempi ce n'erano di scarpe da aggiustare e "Gig" era
sempre oberato di lavoro! Nonostante il gran da fare,
non si asteneva dal discutere con tutti di politica e
della sua avversione per certi giornali.
Sulla destra, dopo l'arco, c'era la casa
delle ostetriche del paese che venivano mandate dal
Comune; a quei tempi infatti le donne partorivano in
casa.
Subito a ridosso della chiesa c'era la
casa "de Batanai" dove viveva con la moglie Renata e le
figlie Olga e Paola. Attorno alla casa c'era un piccolo
podere che mi fa ricordare il bel campo di fave, dove
noi muniti di pane e sale, eravamo soliti andare a fare
merenda, sdraiati in mezzo alle piante per nasconderci
dalla "Batanaia" che controllava la piantagione dal
muretto.
Dall'altro lato della strada c'era una
serie di fondi. Oggi questi fondi si sarebbero chiamati
garage, ma al tempo non c'erano automobili e venivano
utilizzati per accatastare la legna e per allevare
galline, conigli, piccioni e qualche maiale. Sulla
sinistra c'era un muretto, interrotto da una scaletta,
che scendeva verso i gabinetti e i lavatoi pubblici,
situati sotto le mura.
Si arriva nella piazza, quella che
chiamavamo "piassa", cioè un largo spazio tra le case da
cui partivano quattro vicoli. La prima casa sulla destra
era di Delmo dove viveva con la moglie Rosina e il
figlio Elso, professore di disegno. Nel suo fondo
c'erano due pecore, ultimo residuo ovino del paese.
Seguiva la casa di Mario "d'Ghiselli"
dove abitava con la moglie Maria, la figlia Maridorè e
il nipote Tonino.
Infine la casa della "Netta d'Giocond",
una signora che viveva sola e che aspettava l'estate,
per ricevere la visita della figlia Ermenelinda e delle
nipoti: Iris e Osmide, che vivevano a Forlì.
In fondo alla via c'era la casa
dell'Italia, una casa molto grande e con molte stanze,
una delle quali era stata adibita ad aula scolastica.
L'Italia viveva con i figli Franco e Ribello (molto
simpatici e spiritosi), la nuora Dina e la nipote Iside.
La via terminava in un'altra piccola
piazza dove, sotto il campanile, vivevano Riviera e la
Ede con i figli Olsano e Atos e la famiglia di Dante con
la moglie Bice e la figlia Luciana che faceva la sarta.
Di fronte c'era la casa di Biagiotti Duilio, che ci
abitava quando tornava dalla Sardegna con la moglie
Iolanda e i figli Romano, Franco e Valter. Tornando
indietro, c'era la casa di Ottavio
Capellacci dove viveva con la moglie "Delcisa del Belin"
e i figli Gigi, Floriano e Laura, una nostra carissima
amica. Laura era una bambina molto timida e paurosa
tanto da piangere, quando vedeva la sua ombra dietro di
sé. All'interno c'era una scala di legno che portava al
piano di sopra dove abitavano Macco, la moglie Desolina
e un nipote Evaristo. Accanto c'era la casa di "Alber-ton"
dove viveva con la moglie Lisa e i figli Eliseo e Norma,
mentre sopra vivevano Torquato e la Londa con il figlio
Stello, sua moglie Clide e la figlia Catia. Più avanti
c'era la casa di Getullio e della moglie "Cutolina";
questi venivano raggiunti d'estate dal nipote Tino con
la moglie e le figlie Ivana e Elsa che vivevano a
Genova, dove si erano trasferiti, per motivi di lavoro.
Al piano terra invece viveva l'Esterina,
una vedova che si vantava, e a ragione, di essere "galantuoma",
questa frequentava spesso "Baldin el strolig" (il
chiromante del luogo); essendo analfabeta, come molta
gente a quel tempo, pagava 10 lire a chi le scriveva le
lettere alla figlia Clara, che viveva in Francia. C'era
poi la casa di "Canavla" dove viveva con la moglie Peppa
e la figlia Carla.
Tornati in piazza, c'era la casa di Bruno
"el Postion" dove viveva con la moglie Vangela "la
Petrossa" e con i figli Enzo, Oscar e Gabriella. Seguiva
la casa de "Baldin vecch" ("Capei aguz") dove abitava
con la moglie Ersilia e i figli Luigi, Maria e Luisa.
Proseguendo c'erano i fratelli "Tugnin de Rimedi" e
"Ciani", soprannominato "Cinciangle" che erano scapoli.
In seguito la casa è stata abitata dalla "Sanpiossa",
una signora sola, perché il figlio Alessio viveva in
Svizzera. Il vicolo terminava con la casa di Luisa,
rimasta vedova molto giovane.
Tornando indietro, si arrivava alla casa
di Capellacci "el Trombettier", che viveva con la moglie
Albina e cinque figli: Anna Maria, Denis, Flavio,
Claudio e Sonia, altri due figli Nadia e Donato nacquero
molto più tardi in un'altra casa,
perché quella era pericolante, infatti
una volta è caduto il tetto sopra gli abitanti della
casa senza fare danni alle persone, fortunatamente!
Vicino c'era la piccola casa, della signora "Peppona",
donna sola di cui non ricordo altro.
Ancora oltre c'era la casa di Matilde che
viveva col figlio, la nuora Assunta e i nipoti Amedeo e
Meris. Di fronte alla piazza ci abitava "Baldin"
Ramaioli con la moglie Ersilia, ("bona com el pan") che
offriva sempre il caffè a tutti, il figlio Pino e le
figlie Ebe, Bruna e Angela. L'altro lato della casa
apparteneva a Ricco e alla moglie Iolanda che vi
abitavano solo in estate perché vivevano a Pesaro.
Nell'angolo a sinistra c'era una casa molto alta di Gino
dove viveva con la moglie e la figlia Graziella. Ricordo
poco di questa famiglia perché si è trasferita prima a
Urbino poi a Pesaro e la casa è stata in seguito
demolita; ricordo che noi ragazzini assistevamo alla
demolizione dei vecchi muri, tirati con le corde. Al
posto della casa demolita è stata costruita una nuova
palazzina, la cui metà era abitata da Ettore e Angela
con le figlie Maura e "Manu" e l'altra metà da Gidio e
Giselda con le figlie Fulvia e Irene.
Accanto a questa c'era la casa della "Filomma
del Casin" ("Ciaccamalta") e quella di Girelli, poi
quella "de Cassian" dove abitava con la moglie Bruna.
Salendo per una scala, al di sopra di
queste case, viveva l'Elvira "de Pioppi", una signora
vedova con tanti figli dei quali solo "Angiulin",
Settimio e Quinto erano rimasti a Cavallino.
Nella stessa via c'era la casa di "Milina",
dove viveva con i nipoti Giordano e Luciana. "Milina"
raccontava che le venne tolto il diritto di voto, perché
venne sorpresa a rubare legna secca da ardere sul fuoco.
Sopra abitava "Scond" con la moglie "Lisa del Gnoc" e le
figlie Rosanna e Loretta.
Poi c'era la casa di Gidia, che aveva due
figlie più grandi di noi e ricordo che spesso si andava
a casa sua a mangiare i biscotti con l'anice nel giorno
della festa della Madonna.
Si arriva per un'altra piazzetta, dove
c'era il forno e il deposito dell'acqua, una costruzione
di cemento dove salivano i ragazzi più grandi per rubare
le noci a "Capot". Di fronte al forno, abitava Borgiani
"Pantoffla" con la moglie Irma e i figli Marcello e
Grazia; Roberto è nato più tardi in Urbino.
A fianco c'era la casa di "Minghin" dove
viveva con la moglie Nunziata e il figlio Giannino.
La via terminava con la casa della Prima
e del marito "Pitrin", il fotografo. Era una bella casa
con un grande terrazzo (el bersò), ricoperto in parte da
un pergolato, vicino al cancello c'era un roseto che a
primavera era tutto fiorito. La casa era divisa a metà
tra i genitori e il figlio Geo, il quale viveva lì con
la moglie Delfa e i figli Denis e Paolo. Nel terrazzo si
andava spesso a giocare con Denis, una di noi. Geo
faceva il muratore, ma nel tempo libero e la domenica,
tagliava i capelli agli uomini, ai bambini e a qualche
donna del paese; aveva imparato il mestiere di barbiere
da suo padre, "Pitrin el fotografo" il tuttofare.
A destra del forno c'era la casa "de
Capot", dove viveva con la moglie "Crulenda", il figlio
Dario, la nuora Clide e la nipote Candida. Di fronte
abitava una certa famiglia Villa, composta da Gianni e
la moglie Pasquina, anche loro sono emigrati presto e la
casa è stata abitata poi da "Gidio dia Vali" con la
moglie "Tresina de Chepervitta" e i figli Isaura e
Giordano "Sciapeo Matt".
Nel vicolino dietro abitava Dante con la
moglie Ebe "de Scanna" e il figlio Giancarlo. Anche
questa famiglia se ne è andata presto e la casa è stata
poi abitata dalla famiglia de "Turin de Mari" composta
da lui, dalla moglie Dela e la figlia Bruna. Vicino, in
cima a una scaletta, c'era la casa dell'Italia e "Peppin"
che venivano da "Che' Falcon".
Scendendo le scalette, a sinistra,
abitava Belinda, una signora sola, accanto Quinto "de
Pioppi" con la moglie Delia e il figlio Ivan.
A destra abitava la famiglia di "Mingon
de Che' Lorf " con la moglie Assunta, le figlie Osmide,
Franca e Tonino, detto per la sua forza "Tarnaga". Mi
ricordo che "Tarnaga", quando giocava nella squadra di
Cavallino, metteva tanta forza nel calciare il pallone
che si doveva sospendere la partita per decine di minuti
per andare a cercarlo.
In fondo abitava la "Ligera" o
"Vigliacca", con la moglie. La "Ligera" o "Vigliacca",
in realtà si chiamava Giovanni e non so neppure perché
lo avevano soprannominato così; erano soprannomi così
buffi, tanto che noi bambini, anime innocenti, andavamo
sotto le sue finestre a chiamarlo ad alta voce.
Il gruppo di case terminava con quella
dell'Elvira ("la Blicca") che aveva quattro figli:
Tonino, Daria, Clide e Iride.
Nei primi anni cinquanta in questa casa
c'era l'asilo e la maestra era la signorina Pina Micelli,
sostituita per alcuni mesi da Irma, la madre di una di
noi. La cuoca era "la Blicca".
I miei ricordi sono un po' confusi, ma ho
in mente la minestra coi fagioli, sopra la quale
venivano a galla tante "cosine" bianche, forse i germi
dei fagioli, spero! ! ! ! Mi ricordo anche, quando ci
veniva dato la mattina a digiuno, un cucchiaio di olio
di fegato di merluzzo, seguito da un pezzo di limone, se
ci penso ancora un momento mi viene da vomitare.
La via principale era quella delle mura e
iniziava con la casa di Franchi dove abitava "Ciamec"
con la moglie Gina e i figli Vitto e Franco detto "Bigin".
Di fronte c'era il vicolino "dia Ziffra" dove abitava la
"Manetta de Ziffre" e sopra di lei la "Rosa d'Ido" con
la figlia Maria, da poco arrivati da "Che' Bel'Acqua".
Il vicolo continuava con la casa di Pep Rossi dove
viveva con la moglie Vangela, c'era poi la casa di
"Ricco d'ia Vali" dove viveva con la moglie Linda e la
figlia Maria, accanto a questa c'era la casa di Balducci
Alfonso, dove viveva con la moglie Irma e i figli Paola,
Vanda e Lidiano.
II vicolo terminava con la casa "dia
Tilde de Sipassa", dove viveva con la figlia Vanda,
accanto a questa c'era l'osteria "de Scond".
Nel lato opposto del vicolo c'era la casa
de "Gvanella", dove viveva con la moglie Adele; poi
c'era quella di "Piron" dove abitava il maestro Italo
con la moglie Teresina e i figli Franco (che piaceva ad
alcune di noi ragazzine) e Giorgio. Seguiva la casa di
Gino, dove viveva con la moglie Gianna e i figli Giorgio
e Gilberto. Giorgio era un ragazzino scuro di carnagione
e di capelli, molto vivace e simpatico, Gilberto, suo
fratello, aveva sempre fame e mi ricordo che spesso
veniva a casa mia a chiedere pane e zucchero. Con loro
viveva anche una anziana parente, la "Gigia sorda".
Accanto c'era la casa della "Micca" e del
marito detto "el Gatt"di cui ho un vago ricordo.
Prima del vicolo c'era un locale, dove
andavamo a vedere la televisione, mentre sopra c'era una
grande stanza adibita inizialmente ad un'aula
scolastica, poi alla sezione del Partito Comunista
locale.
Passato il vicolo ci sono tuttora una
serie di fondi, in uno di questi lavorava la Prima che
aveva un grande telaio per tessere lenzuola e coperte,
mentre poco più in là c'era l'osteria di "Minghin". In
fondo alla via abitava la signora Rosa "Pradarella" che
viveva sola.
Uscendo fuori dalle mura, iniziava la
periferia, se così si può dire, chiamata "il monte". Al
"monte" c'erano solo due case: quella di Drelli dove
abitava con la moglie Evangelina e i figli Alfremido,
Everardo e Livia, aspirante cantante, l'altra casa era
di Abramo dove viveva con la moglie e la figlia Dirce.
Data la grande concentrazione di gente al
centro del paese, è chiaro che la vita si svolgeva tutta
tra le poche vie del centro storico.
Affacciandosi dalle mura, si gode adesso,
come allora, di un bellissimo panorama fino a vedere,
nelle giornate limpide, ad est anche il mare. Scrutando
le colline intorno a Cavallino, si vedono le vecchie
case di campagna, allora erano tutte abitate, mentre
oggi sembrano tanti ruderi cadenti. Abbassando
lo sguardo si vede la casa "de Mie", dove
viveva con la moglie Emma e i figli Silvia e Tarcisio.
Lì vicino c'era "Che' Rosin" dove abitavano i Balducci
con cinque figli: Pippo, Franco, Lindo, Augusto e
Luciano. Poco lontano c'era la casa dei Ciaroni,
conosciuti da tutti, perché avevano le "macchine da
batta" e i trattori; erano due fratelli che vivevano
insieme, Zeno con la moglie Gina e i figli Giuliano e
Marcello, "Cilo" con la moglie Iole e le figlie Carla e
Anna. C'erano altri casolari di campagna e ciascuno
aveva il proprio nome:
"Che Pervitta" abitata da Gildo e Albina
e la figlia Vina, condannata a vivere su una sedia a
rotelle a causa della poliomielite
"La Clumbara" abitata da Cecchini e le
figlie Anna e Alice
"Che Falcon" dell'Italia e Peppin (prima
che venissero ad abitare nel paese)
"Chel Brusciat" della famiglia
Conferenzieri con i figli Flavio e Meris
"Chel' Frate" della famiglia Giovannelli
con la figlia Vanda
"Che Bel'Acqua" della famiglia Ciaroni
che aveva cinque figli e della famiglia Carpena con i
figli Lidiano e Tina
"Casa Camillini" con i figli Gianfranco,
Rosalba e Piergiorgio
"Chiscardell" della famiglia Maccaroni
prima e poi dei Tancini
"Peo" dove abitava il Gobbettino
portafortuna
"Che Cirion" della famiglia Ceccarini
"Che' Spaducc" della famiglia Stafoggia
coi figli Gina, "Gvanin" e Marisa
"La Castagneta" di Romagnoli, con i figli
Gino detto "Trinca" e Maria
"Rumanin de sopra" della famiglia Carloni
"Rumanin de sotta" della famiglia Rossi
"Pasaia" della famiglia Ceccaroli (Cicuncugnla)
"Che Lorf" della famiglia Marcelli con
tanti figli
"Che Bett" della famiglia Ambrogiani con
i figli Rosalia, Giuliano e Leonilde
"La Vali" delle famiglie Magnani coi
figli Edgardo e Oria-nò (che in seguito fu sindaco di
Urbino), Santi con i figli Elio e Sanzio
"Niculin" della famiglia Amadori con le
figlie Dina e Loredana
Argomenti da
approfondire:
Alcuni "burdei de Cavalin"
La classica "vespa"
Arco nella porta di entrata del paese
Particolare dell'arco, "la Chiesulina"
INIZIO PAGINA
I personaggi
I personaggi che emergevano nella vita di
Cavallino erano veramente numerosi, a partire da Don
Arturo, il nostro parroco, arrivato nella parrocchia di
"S. Cassiano" da Colbordolo durante la guerra. Era un
prete tradizionale e ha avuto il suo da fare, per tenere
unito un paese storicamente di idea politica molto
diversa dalla sua. Nonostante gli inevitabili contrasti,
riusciva ad essere benvoluto da molti ed è stato un
riferimento per noi giovani. Ci ha seguito negli anni,
dal Battesimo agli altri sacramenti con severità, ma
anche con comprensione. Nei primi anni dopo la guerra
distribuiva alle famiglie più povere dei pacchi, che
contenevano gallette, marmellate, formaggi e burro.
"Alberton" era la guardia del paese e
aveva il compito di accendere i lampioni la sera che,
prima dell'arrivo dell'elettricità erano alimentati a
petrolio. Era anche lo spazzino e girava accompagnato
regolarmente dal cane "Tef", con la scopa di melica
sopra la carriola e il badile. Dava l'impressione di
essere una persona burbera, in realtà era abbastanza
cordiale e praticamente era il tuttofare del paese. Al
suo pensionamento gli era succeduto il figlio "Cassian".
Le sarte del paese e, non solo, erano le
sorelle Ebe, Angela e Bruna "de Baldin", la Maria de
Ricco e la Bruna "de Ciamec" dalla quale molte ragazze
si recavano, per imparare il mestiere.
II postino Bruno, con la moglie Vangela,
per il loro mestiere conoscevano tutti in paese, oltre a
consegnare la posta,
pagavano le poche pensioni e curavano i
pochi risparmi dei più fortunati.
"Gig el calsular" aveva una gamba di
legno, già all'età di quattordici anni lavorava come
contadino, ma un incidente sul lavoro lo rese zoppo
della gamba destra. Per questo motivo, dovette
abbandonare la campagna, per diventare calzolaio. Le sue
più grandi passioni, oltre alla politica, erano la
caccia e l'apicoltura (se chiudo gli occhi sento ancora
l'odore e il sapore del suo miele).
Era una persona molto intelligente, che
leggeva e voleva confrontarsi con gli altri; la sua
bottega, infatti, era diventata il "salotto culturale e
politico" di Castel Cavallino. "Gig" è stato un grande
antifascista e un partigiano, per questo, durante la
guerra, la sua famiglia era guardata a vista. Adesso una
Via di Cavallino porta il suo nome: "Mari Luigi". Anche
la moglie Clelia era una donna alla quale piaceva molto
leggere e discutere su tutti gli argomenti ed era molto
combattiva, era sempre in prima linea quando si trattava
di chiedere e difendere i diritti soprattutto delle
donne.
La Prima, era una signora dai capelli
tutti bianchi, raccolti sulla nuca; era solita lavare la
testa con Omo e, a chi le domandava il perché, lei
rispondeva: "perché più bianco non si può!!!". Si
chiamava così perché era la primogenita di sette figli e
per questo non era stata mandata a scuola, doveva
aiutare la famiglia. Aveva un telaio per tessere che
teneva in un locale nella sua casa al centro del paese
e, quando si sentiva il tic-tac della spoletta che
andava avanti e indietro, significava che era arrivata
la primavera.
Altri due personaggi importanti erano i
maestri Italo e Ilario, il primo era solito leggere il
giornale per tutti all'osteria, al tempo c'erano molti
analfabeti e anche noi ragazzini che capitavamo durante
le letture rimanevamo meravigliati perché leggeva tanto
bene, mentre noi eravamo ancora alle prese con le
sillabe.
Il maestro Ilario era molto più giovane,
aveva appena iniziato ad insegnare in frazioni molto
lontane e sperdute che raggiungeva con il morotino.
Capot e la "Crulenda" erano altri due
personaggi tipici. "Crulenda" era molto religiosa e nel
pomeriggio radunava un po' di ragazzini per andare alla
"Bindision", a recitare H rosario.
"Capot" era un uomo economicamente un po'
più fortunato degli altri ma, nonostante questo, era un
po' tirchietto. Sua nipote Candida, una nostra cara
amica, era figlia unica. Di fronte alla loro casa c'era
un orticello recintato, chiuso con un cancello, nel
mezzo c'era un grande noce sui cui rami era fissata una
corda per l'altalena; il nostro sogno era quello di
farci un giro, ma ogni volta che ci avvicinavamo al
cancello Candida urlava a squarciagola: "Non! Non! Chi
burdei me toccne el cancel! ", era la nostra
disperazione! ! ! !
Personaggio importante era anche il
medico condotto dottor Lupi, che abitava a Schieti, ma
aveva l'ambulatorio anche a Cavallino, prima dalla "Milina",
poi in una stanza, nella casa di "Capot". Arrivava a
Cavallino due volte alla settimana con una grossa moto.
Era un signore un po' grasso e molto gioviale. Ha avuto
il suo da fare nel periodo delle malattie infettive:
morbillo, "schiopet" (varicella), "orecchioni" e "tossa
trista" (pertosse). Di solito noi ragazzi ci ammalavamo
tutti contemporaneamente perché stavamo sempre insieme.
Quando noi bambini eravamo raffreddati e
avevamo un po' di tosse, le nostre madri ci mettevano
sul petto dei fogli di carta blu, usati per avvolgere
alimenti, unti con lo strutto. Spesso ci curavano anche
con qualche cucchiaino di magnesia "S. Pellegrino".
"La Gigia sorda" era una signorina
anziana, che abitava col nipote Gino "dia Gianna", era
solita intromettersi nei vari discorsi ma, essendo
sorda, capiva sempre i "fischi per i fiaschi" e si
arrabbiava spesso urlando fortissimo. Cammi-
nava dondolando sempre in mezzo alla
strada con le sue gambe storte, per fortuna che a quei
tempi non c'erano auto in giro altrimenti avrebbe fatto
una brutta fine!
"Canavla" beveva qualche bicchiere di
troppo e quando era alticcio diventava un pò litigioso.
Il più divertente era Clini che parlava
sempre con tono serio, ma diceva delle cose che facevano
"morire dalle risate" tutti. Una volta con la vespa andò
a sbattere contro un motorino, il malcapitato lo
rimproverò, dicendogli che avrebbe dovuto suonare (il
clacson, intendeva), lui seriamente gli rispose:
"Suonare? Mica sapevo che ti piaceva la musica!". Un
giorno all'osteria raccontava a tutti: "Ho masat mez
ba-ghin, clatra metà salta da stalla"; altre volte
girava per i vicoli del paese urlando: "pesce donne!!!",
le donne scendevano per comprare il pesce ma, non
vedendo il solito camioncino, capivano subito che era
passato Clini.
C'era anche l'Albina de Capellacci che,
nonostante il gran da fare con i tanti figli piccoli,
trovava il tempo per fare le punture a tutto il paese,
assisteva chi partoriva (data la sua grande esperienza)
e a volte anche a chi moriva.
INIZIO PAGINA
Racconti
(Due racconti riferiti a memoria dal Sig.
Luigi Mari, di anni 92, letti durante la sua gioventù
sul giornale "Aurora")
La Rassegnazione
Il prete dice: rassegnati; io ti dico:
ribellati, la rassegnazione è la virtù delle pecore,
perfino i muli non si rassegnano e tirano i calci.
Il Calvario del contadino
Il contadino è stato sempre un non
considerato, i padroni l'hanno sfruttato a sangue, i
preti gli hanno insegnato a soffrire con rassegnazione.
Piegato sull'aratro e curvo sulla vanga, ha lavorato e
sudato nel campo, ha affrontato le intemperie
indifferentemente come se la sua fibra fosse d'acciaio.
I mediatori e i mercanti di carne umana
l'hanno venduto per misera mercede sulle piazze.
II povero contadino fu chiamato
"villano". "Sei tu o contadino sconsiderato e
maltrattato che produci il frumento per fare il pan
bianco? Sei tu che coltivi le viti per fare gli spumanti
vini? Sei tu che fornisci di latte, di verdure di ogni
ben di Dio il genere umano? Basterebbe che tu
abbandonassi i buoi e fuggissi il campo perché la
miseria colpisse tutti gli uomini e la fame entrasse in
tutte le case".
Il contadino tese l'orecchio. Mai aveva
sentito un grido di guerra che sfidava un mondo. Chi ha
parlato? La voce dei socialisti.
Un tempo aveva parlato anche Cristo, ma
la Sua voce si è spenta nel tempo e i preti hanno
dimenticato il Maestro.
INIZIO PAGINA
La vita di
paese
Le case nel
paese di Cavallino erano quasi tutte a due piani,
piccole stanze sovrapposte, unite da una scaletta di
legno. In alto, dove finiva la scala, c'era un coperchio
che copriva il buco e si chiamava "batusc". I pavimenti
erano quasi tutti in mattoni, molto spesso sconnessi,
tra i quali filtrava sempre l'aria. Raramente c'erano
persiane alle finestre e d'inverno i vetri si
ghiacciavano, formando dei disegni che sembravano delle
tende di merletto.
Il riscaldamento proveniva dal camino o
dalla stufa a legna, mentre per riscaldare il letto, si
utilizzava il "prete", un trabiccolo di legno aperto in
mezzo, dove veniva messa la "monaca", una bacinella di
terracotta con dentro la brace. Il prete veniva messo
sotto le coperte poco prima di coricarsi. Con questo
sistema di riscaldamento semplice e naturale, si
facevano lievitare il pane, che veniva fatto ogni
settimana, e le famose e buonissime cresce di Pasqua.
Le case una volta erano piene di
spifferi, nelle giornate di tramontana in alcune stanze
a noi donne si alzavano addirittura le gonne dall'aria
che entrava e, quando pioveva, nelle stanze a tetto si
mettevano dei secchi per raccogliere l'acqua.
Il paese era una grande famiglia, alcuni
abitanti erano parenti tra loro, le porte delle case
erano sempre aperte o al massimo chiuse col saltarello
di ferro. Non c'erano porte chiuse a chiave, in effetti
a quei tempi non c'era niente da rubare e il problema
dei furti non era proprio contemplato. Ricordo che
d'estate, al posto delle porte si mettevano le tende
colorate. Nessuna casa in paese aveva
all'interno il bagno o il lavandino, ci si lavava nel
"badi" e si faceva il bagno in un mastello. D'estate
capitava spesso di vedere, lungo le mura, le file di
mastelli pieni d'acqua che si scaldavano al sole.
Il problema maggiore però era il
gabinetto.
Per le necessità notturne si usava il
vaso da notte ("urinai" ), che veniva tenuto sotto il
letto, oppure nel comodino, chi lo possedeva. Di solito
in casa c'erano dei secchi di smalto bianchi con un
coperchio forato in centro, per raccogliere le urine di
tutta la famiglia. Ogni mattina era un viavai di donne
che andavano a svuotare i secchi nei gabinetti pubblici.
I gabinetti pubblici erano due turche,
situate ai margini del paese sotto le mura; ricordo
ancora il disagio, soprattutto d'inverno per il freddo e
d'estate per il forte cattivo odore.
Denis, una di noi, era solita andare al
bagno la sera e, siccome aveva paura del buio, chiamava
sempre Grazia, la quale con grande pazienza
l'accompagnava e stava davanti alla porta ad aspettarla,
e, per questo motivo Denis ancora le è grata.
La carta igienica non so neanche se
esisteva al tempo, ma ci si arrangiava con quei pochi
giornali in circolazione che, prima di arrivare ai
bagni, erano passati di mano in mano per la lettura.
Altra soluzione era il riciclo della carta paglia,
utilizzata per avvolgere pasta o zucchero che si
compravano a peso da "Scond" e "Minghin", ma questa era
cosa abbastanza rara, il più delle volte ci si puliva
con le foglie dei sambuchi e delle acacie che erano
intorno ai gabinetti e per questo motivo erano sempre
spogli.
Le case erano sprovviste di acqua
corrente e di luce nei primi anni cinquanta, quindi le
donne partivano al mattino con grandi orci e andavano a
prendere l'acqua a "Che' Rosin", un podere nelle
vicinanze, dove c'era una vena d'acqua e il Comune aveva
costruito un grande deposito; la fatica per quelle donne
era enorme, considerando il fatto che il ritorno, con
gli orci pieni e pesanti, era tutto in salita. Gli orci
spesso si rompevano e venivano portati a "sbranghè"
dalla "Gigia de Marchin".
Alcuni, più fortunati, avevano nel fondo
un pozzo, per raccogliere l'acqua piovana, che non era
potabile, ma molto utile per diversi usi all'interno
delle case.
Per lavare i panni, si usava il sapone,
mentre per il "bucato grosso" si utilizzava una
procedura molto efficace: le lenzuola insaponate
venivano messe in un mastello di legno con un buco
sotto, venivano poi ricoperte di cenere del camino e
sopra si versava acqua bollente; l'acqua color marrone
che usciva dal mastello si chiamava "ranno", che veniva
riciclato, per lavare i panni colorati o i capelli.
Dopo il lavaggio, le lenzuola uscivano
bianche e profumate e venivano stese sull'erba in cima
al "monte".
L'arrivo, dopo qualche anno, dell'acqua
potabile in paese è stato accolto da tutti con grande
festa. Era stato costruito un grande deposito davanti
alla casa della Prima ed erano state incastonate nelle
mura di cinta due fontanelle, che servivano per tutto il
paese.
Il Comune aveva fatto costruire anche
cinque lavatoi pubblici con relativo rubinetto vicino ai
gabinetti.
Con la novità delle fontane anche il
lavoro delle donne si era notevolmente alleggerito, non
mancavano però le discussioni sul turno, per accedere
all'acqua, perché i posti erano soltanto cinque ed era
necessario fare la fila.
Prima dell'arrivo dell'elettricità, il
mezzo di illuminazione nelle case era la candela,
qualcuno usava anche le lampade a carburo e i lumi a
petrolio. Questi ultimi in effetti illuminavano molto
più della candela, ma lasciavano per tutta la casa un
cattivo odore di olio bruciato.
Le donne, per stirare i panni, usavano un
ferro dove all'interno veniva messa la brace ardente.
Questo ferro oggi è pezzo di antiquariato.
Col tempo è arrivata anche l'elettricità
che ha portato molte innovazioni. È stata installata una
grande cabina elettrica vicino alla casa di Drelli.
Ora "Alberton" con un semplice gesto
(spingere un bottone) poteva accendere tutti i lampioni
del paese e dire addio per sempre ai lumi a petrolio,
con un interruttore Cavallino era tutto illuminato!
Ogni abitazione aveva la sua luce
elettrica e i lampadari consistevano in piatti di
lamiera smaltata con lampadina a basso voltaggio, ci
sembrava di "toccare il cielo con le dita" !
Iniziavano a circolare le prime radio,
che trasmettevano notizie, musica e sport, seguito
soprattutto dagli uomini del paese. Ricordo bene le
discussioni sul ciclismo fatte sul muretto tra Stello,
Giannino, Liseo, Cassian, Getullio e Tonino; chi
parteggiava per Bartali, chi per Coppi e si facevano
pronostici e scommesse sulle tappe del Giro d'Italia.
Noi ragazzini più giovani parlavamo
sempre di cantanti e di musica; Isaura aveva una
passione sfrenata per Claudio Villa e altri la seguivano
anche se con meno entusiasmo. A qualcuno piaceva Gino
Latrila o Natalino Otto. Si ascoltava alla radio anche
il Festival di S. Remo con l'orchestra Angelini e i
cantanti Nilla Pizzi, Tonina Tornelli e Carla Boni.
Un giorno Don Arturo annunciò che avrebbe
comprato la televisione.
Noi ragazzi non l'avevamo mai vista, non
sapevamo nemmeno cosa fosse né come funzionasse. Il
giorno che è arrivata in paese la televisione, tutti
stavamo ad osservare curiosi il modo in cui veniva
installata quella scatola nera. È stata portata nella
"sala del prete" ma è stato poi difficile la scelta del
piano d'appoggio, che doveva essere necessariamente in
alto per dare a tutti la possibilità di vederla.
Finalmente è arrivato il momento
dell'accensione, sullo schermo all'inizio è apparsa solo
la scritta "RAI", seguita dopo poco tempo dal
"TELEGIORNALE".
Il giornalista che leggeva le notizie era
un signore, con le orecchie "a sventola" che annunciava
fatti avvenuti in Italia e nel mondo. Noi bambini non
capivamo molto di ciò che diceva, ma il fascino
dell'apparecchio nuovo ci teneva incuriositi, davanti
allo schermo. Al termine del telegiornale c'era
l'intervallo, durante il quale si sentiva una musichetta
e si vedeva un paesaggio pieno di pecore. Finalmente
arrivava lo spettacolo "Lascia o raddoppia", condotto da
Mike Bon-giorno con la valletta Edi Campagnoli, una
bella ragazza bionda, ammirata dagli uomini del paese.
Da quel giorno ogni sera ci si dava
appuntamento, per andare a guardare la televisione
"nella sala del prete", portando da casa le sedie.
Don Arturo aveva incaricato 1'"Italia de
Pepin" per le operazioni di accensione, spegnimento e
manutenzione dell'apparecchio e, se qualcuno si
avvicinava un po' troppo, era una tragedia.
Col tempo Don Arturo si era organizzato
per migliorare la saletta, diventata ormai un luogo di
aggregazione importante e molto frequentato; aveva
arredato la sala con molte sedie per gli spettatori e a
ciascuna famiglia veniva chiesto un contributo di 20
lire per le spese dell'abbonamento RAI e della luce.
A quei tempi nel paese esisteva un solo
telefono che era all'interno dell'Ufficio Postale,
quindi per comunicare a distanza, si trovavano le
soluzioni più semplici e ingegnose. Ricordo che una
volta l'Albina de Capellacci, volendo avvisare la madre
che stava per partorire, evento abbastanza frequente nel
suo caso, ha steso un lenzuolo bianco nel campo di "Mie"
e la madre, che viveva nella collina di fronte e
aspettava il segnale, la raggiunse subito.
INIZIO PAGINA
I mestieri
A Cavallino c'erano due soli negozi,
quello di "Scond e dla Lisa del Gnocch" e quello di "Minghin
e la Nunziata". I due uomini erano fratelli, ma si
facevano concorrenza.
Il negozio di "Scond" vendeva generi
alimentari, ma era anche osteria e tabaccheria. Appena
si entrava si veniva assaliti da odori molto forti:
tabacco, tonno, alici baccalà, vino ecc.
Dal soffitto pendeva un po' di tutto:
baccalà, cartelle di cartone per la scuola, biscotti
all'anice infilati in un bastone fatto ad uncino,
candele e scope.
Sul grosso bancone da un lato c'era una
grande affettatrice a mano con vicino una stadera, quasi
moderna, con due piatti, uno per pesare la merce e uno
per i pesi; dall'altro lato del bancone c'erano esposti
pezzi di lardo sotto sale, bidoni pieni di strutto,
barattoli di conserva, di alici e di tonno sott'olio.
Vicino alla affettatrice c'erano due mortadelle, una
grossa, rosa e profumata e una più piccola e più scura
ma a buon mercato.
Nello scaffale posteriore c'erano i
tabacchi: con sigarette, sigari, cartine, trinciato e
fiammiferi. Le sigarette venivano vendute anche sfuse.
Più in basso c'erano le ampolle di olio di oliva e di
olio di sansa e, sotto il bancone, c'erano i cassetti
pieni di pasta, zucchero, riso e farina. Tutti questi
prodotti venivano venduti sfusi e incartati con carta
paglia.
Sulla destra c'era un tavolo con le
damigiane di vino bianco e rosso e accanto le varie
misure in vetro: da un litro, da
mezzo litro (foglietta), da un quarto e
tanti bicchieri da osteria. Dall'altra parte della
stanza, vicino alla finestra, c'erano i tavoli per
giocare a carte. Gli uomini giocavano a "Briscola",
"Scopa", "Tresette" e qualche volta alla "Morra" che,
non so bene il perché, ma era un gioco vietato per
legge. Tra i giocatori non mancavano le discussioni,
alimentate, tra una partita e l'altra, dai troppi
bicchieri di vino.
I clienti dei negozi non erano soliti
pagare in contanti, si usava "el librett" cioè un
taccuino dove si segnavano tutte le spese che venivano
poi saldate a fine mese, qualcuno pagava con le uova,
era una specie di baratto.
Nelle sere d'estate si stava meglio nel
negozio-osteria di "Minghin", perché "Gianino" metteva
fuori dei tavoli, dove veniva servita l'anguria a fette,
conservata in una grotta freschissima; inoltre esponeva
anche le bibite come la gassosa, l'aranciata e la birra,
ma noi ragazzini raramente avevamo soldi per poterle
comprare.
Per altri tipi di merci venivano in paese
gli ambulanti una volta alla settimana. Arrivava "el
pesciarol" col camioncino che gridava: "Pesce donne!" e,
per dimostrare che il pesce era veramente fresco, se lo
mangiava crudo; le donne scendevano da casa col piatto
in mano per comprare sardine, vongole e sgombri, altro
tipo di pesce non era conosciuto.
Frutta e verdura erano portate dal "Gnoc"
con il suo ape, ricordo che faceva il tassello nelle
angurie, per far vedere che erano mature e granulose.
Per i vestiti c'era "Gaspre de Schiet",
che vendeva anche le stoffe in grande quantità, una
volta i vestiti venivano cuciti in casa, così come le
sottovesti e le mutande. Altro venditore di stoffe era
Veterani, mentre Giulioni veniva con la maglieria,
entrambi provenivano da Urbino.
Per le scarpe ci si serviva da Gualtiero
direttamente a casa sua.
Le famiglie che abitavano nelle case di
campagna, avendo
difficoltà ad arrivare a far spesa in
paese, erano rifornite da "Orlando d'Gadana", che
passava con il cavallo e la biga e vendeva di tutto un
po'.
Circa a metà degli anni cinquanta,
Cavallino sembrava un paese di sole donne, gli uomini,
per buona parte dell'anno, si assentavano per lavoro.
Immancabilmente però a Natale e a Pasqua erano di
ritorno e così tutte le famiglie si riunivano per
l'evento.
Le donne, anche se restavano a casa,
avevano il loro da fare. A fine maggio, molte di loro
uscivano di casa prima dell'alba e andavano nei campi a
mietere il grano dai contadini che abitavano vicino al
paese. Si partiva dalle zone più calde di Schieti,
quelle più esposte al sole, per finire la stagione nei
dintorni di Cavallino. La ricompensa era solo un po' di
grano e qualche sacco di farina.
Ricordo che la mamma, quando tornava a
casa, la prima cosa che faceva era quella di mettersi i
piedi in acqua, io l'aiutavo a lavarsi e mi accorgevo
che aveva le gambe tutte graffiate dalla "seccia" (i
gambi del grano secchi che rimanevano nel campo dopo la
mietitura).
Noi bambini invece andavamo a "spigare"
cioè a raccogliere le spighe rimaste nel campo, dopo la
mietitura, che servivano per dare da mangiare alle
galline.
In inverno faceva tanta neve e gli uomini
facevano le "rotte" con i badili, cioè piccoli corridoi
in mezzo alla neve, per poter camminare. Le nostre mamme
si raccomandavano di camminare lontano dai muri delle
case per paura che cadessero i "candlott", cioè le
stalattiti di ghiaccio, dai tetti. Nonostante il freddo,
noi bambini trovavamo sempre il modo per divertirci,
raccoglievamo la neve nei bicchieri, ci aggiungevamo un
po' di vino rosso e zucchero, inventando così i gelati
più buoni del paese.
Bambini dell'asilo nell'aia della "Blicca"
Pluriclasse "da Gualtiero"
INIZIO PAGINA
I giochi
I giocattoli allora non c'erano o erano
veramente rari, ma noi riuscivamo comunque a divertirci
con l'uso della fantasia che invece non mancava mai.
La piazzetta accanto alla "Blicca" era il
nostro principale ritrovo, lì passavamo ore e ore a
giocare a "Mondo" o "Casella", a palla e alle "piastre".
Le bambole erano di pezza, ogni giorno facevamo il giro
dalle sarte per cercare qualche avanzo di stoffa, per
cucire i loro vestiti.
Un altro gioco durante il periodo
pasquale era il "Fora-verd": raccoglievamo delle
foglioline di bosso e le tenevamo sempre in tasca,
quando ci si incontrava in giro, ci si salutava
con le parole "Foraverd" e si rispondeva con la frase
"Fora el tua che el mia en perd!". Naturalmente perdeva
chi in quel momento ne era sprovvisto e doveva subire
una penitenza.
Molto spesso giocavamo a "Cut"
(nascondino) tra le case, i vicoli e sotto le mura dove
c'erano delle scalette di canne, per far passare polli e
galline che noi inevitabilmente demolivamo, facendo
arrabbiare soprattutto la "Nunziata de Min-ghin". A
volte cercavamo in giro i pochi giornali che
circolavano, per ritagliare le foto di attori e
cantanti, per poi scambiarcele, come fossero figurine.
Noi bambine organizzavamo pranzetti,
facendo scorpacciate di rucola selvatica e lupini.
Ricordo anche che avevamo fatto delle casette sul
"greppo" tra le acaci e giocavamo a fare le mamme.
Facevamo finta di fare la pasta e di cuocerla;
le stoviglie naturalmente erano dei
sassi, pezzi di legno o di coccio raccolti sotto le
mura; i bicchieri (rubati dalla Grazia) erano quelli che
l'ignara Irma aveva acquistato con i dadi Liebig. Quando
avevamo qualche soldino, in genere 5 o io lire,
compravamo le bustine di viscì (l'idrolitina): erano 2
bustine per un litro di acqua. Insieme alTidrolitina
compravamo anche i "mignin", ossia dei biscotti simili,
ma molto più buoni, ai wafer di oggi (almeno così mi
sembra!).
A volte ci divertivamo a fare la liscia
al "monte", strisciando col sedere nel tufo, quante
gonne lise e mutande si strappavano! Quante sgridate,
quando tornavamo a casa! ! ! ! !
Altre volte capitava di fare anche
qualche marachella, come quando abbiamo mangiato tutti i
"getti" delle viti a Drel-li o, quando abbiamo rubato le
mele a Ciaroni e l'uva alla "Sanpiossa". Quando i
malcapitati riferivano tutto ai nostri genitori erano
botte.
In primavera andavamo a raccogliere i
fiori da portare alle maestre; scendevamo a gruppi al "Foss
del Gnar" a cercare le viole e, quando eravamo stanchi,
ci fermavamo a bere l'acqua, che scorreva tra i campi di
grano ancora incontaminati.
Un pasto prelibatissimo erano i "dolcini"
che crescevano selvatici nei campi, ne mangiavamo tanti
e ricordo che ci si screpolavano tutte le labbra, perché
il gambo è ricoperto da una peluria urticante.
I passatempi preferiti dagli uomini del
paese era il gioco delle carte e il gioco delle bocce;
il giocabocce si trovava sotto le mura, subito dopo
l'osteria di "Scond". La domenica e le sere d'estate il
giocabocce era pieno di uomini, alcuni giocavano, altri
facevano il tifo e altri ancora criticavano ad alta
voce, e a volte anche con parole un po' spinte.
Alcuni giocatori erano molto appassionati
a questo tipo di gioco, tanto che si raccontava che
Quinto "de Pioppi" avesse giocato tutto il pomeriggio
nel giorno del suo matrimonio.
INIZIO PAGINA
Le feste
A Cavallino si organizzavano molte feste
paesane. La festa della Madonna si teneva nel mese di
maggio. Questa era molto attesa, perché capitava qualche
volta di rimediare anche il vestito nuovo per
l'occasione.
Nei giorni precedenti la festa, grandi e
bambini andavano coi cesti a raccogliere i fiori di
ginestre, acacie, papaveri e rose con i cui petali si
decorava il tragitto del corteo che portava in
processione la Madonna. Con gli stessi petali si
componevano le scritte "VIVA MARIA" e "SALVE REGINA".
Gli uomini preparavano la legna per fare
i "mars", cioè i falò e la paglia per fare le "cincee".
La festa dei fuochi si svolgeva il sabato
sera davanti al "Doplavor", i "mars" venivano accesi
lungo la strada, mentre alle "cincee", che erano croci
di legno rivestite di paglia, veniva appiccato il fuoco
poi di corsa venivano portate fino alla chiesa. Il
vincitore di questa sfida era chi riusciva ad arrivare
in chiesa per primo con la "cincea" ancora accesa. Non
c'erano premi in palio, era solo una questione di onore
e forse qualche biscotto in più.
Dopo la festa andavamo tutti dalla "Gidia",
dove si mangiavano i biscotti all'anice, i pannociati e
si beveva l'aranciata.
La processione invece si faceva la
domenica pomeriggio, si partiva dalla chiesina e si
faceva tutto il giro delle mura fino a tornare al punto
di partenza. In testa al corteo c'era una croce portata
a mano da "Tugnin de Rimedi" che faceva il sagrestano,
seguiva poi il quadro della Madonna, sostenuto
dagli uomini. Al passaggio del corteo le
donne usavano stendere alle finestre le coperte
migliori.
La festa più importante era quella della
Madonna del Giro, che però si svolgeva solo ogni dieci
anni nella chiesa parrocchiale con tanto di archi
fioriti e fuochi artificiali.
Il Carnevale per noi era una grande
festa, ci mascheravamo con i vestiti dei nostri genitori
e andavamo al "Ciccol". La scelta dei vestiti era molto
scarsa, per cui ci mascheravamo sempre o da vecchio o da
vecchia, da sposa o da sposo.
Il "Ciccol" consisteva nel girare
mascherati per le case di campagna, rimediando qualche
pezzetto di lardo, di strutto o di pancetta, molto
spesso delle uova, qualche cresciola e le "baldinacc".
Una volta Marcello e Floriano,
all'insaputa delle loro madri, sono andati al "ciccol" e
sono tornati tardi la sera, tanto da allarmare quasi
tutto il paese; hanno evitato la meritata punizione solo
perché hanno minacciato di rompere tutte le uova
rimediate durante il giro. Invece Oscar si era ammalato
durante il carnevale e, non volendo rinunciare al suo "Ciccol",
ha fatto il giro da solo una settimana dopo, spiegando a
tutti la sua disavventura, ma è tornato a casa a mani e
tasche vuote.
Altro evento molto sentito era la festa
dell'Unità che si svolgeva in cima al "monte" in piena
estate. Le donne del paese qualche giorno prima
iniziavano a preparare i dolci: ciambelloni, crostate e
biscotti, mentre durante la festa cuocevano sul posto le
cresce sfogliate; le più laboriose erano la Bice, la
Irma, la Tresina dia Vali, la Sterina, la Delfa, la Lisa
"del Gnoc", la Gianna e altre.
C'era chi impastava, chi spianava col "rasagnol"
e chi cuoceva. Gli uomini invece avevano altre mansioni,
preparavano i capanni con la legna e i bastoni, per
farci dei chioschi, dove si vendevano la crescia, i
dolci, il vino e altre bibite.
In un altro capanno c'era la delizia di
noi bambini e la disperazione delle madri: la pesca.
La maggior parte dei premi consisteva in
caramelle o dolci, a volte c'era qualche giocattolo, ma
di poco valore, in particolare ricordo le palline fatte
di stoffa a spicchi colorati con attaccato un lungo
elastico.
In mezzo ai capanni era stata costruita
una pista in cemento, per poter ballare, e di sera si
ballava fino a mezzanotte "e passa", accompagnati da un
signore con la fisarmonica. Ricordo tanta allegria tra
la gente, alimentata forse da qualche bicchiere di vino.
Non c'erano soltanto i paesani alla festa dell'Unità, ma
vi partecipava tanta gente, che veniva dai paesi vicini
con i loro motorini o le vespe o le lambrette. C'erano
persino le autorità, alcuni dirigenti del partito locale
e anche il Sindaco di Urbino Mascioli, che era
originario di Cavallino.
L'otto di Marzo si festeggiava la festa
della Donna, l'UDI (Unione Donne Italiane) di Urbino
mandava dei rami di mimosa e la rivista "Noi Donne" che
venivano distribuiti a tutta la popolazione femminile.
Il tutto si svolgeva nella sezione del Partito
Comunista. In quella occasione si mangiavano dolci fatti
in casa, si discuteva dei problemi delle donne con una
rappresentante dell'UDI. Per noi ragazzine era una
propria e vera festa perché alla fine ballavamo al suono
della musica della radio.
Ma le feste più sentite erano la Pasqua e
il Natale.
Prima di Pasqua c'era il rito delle
grandi pulizie generali delle case, detto "pulizie di
Pasqua"; ciò avveniva prima che il prete passasse a
benedire le case. Si vedevano le massaie con il
fazzoletto in testa, il battipanni in mano per sbattere
i materassi per la maggior parte fatti di "crine" o di
foglie di granoturco, solo alcuni fortunati li avevano
di lana. Prima di Pasqua si faceva la famosa crescia al
formaggio.
Da tutte le case, anche le più povere,
usciva il profumo del lievito, anche questo fatto in
casa.
La cottura veniva fatta nell'unico forno
al centro del paese e bisognava stabilire dei turni; per
l'accensione e il controllo
del forno ("è ora da infornè perché è
dventat bianc") era addetta la Irma, una signora molto
esperta e disponibile che vi abitava davanti. Succedeva
però che le cresce a qualcuno lievitavano prima e a
qualcuno dopo, per cui i turni spesso venivano stravolti
e questo creava sempre delle piccole discussioni.
Ricordo il profumo di cresce che si
sentiva per tutto il paese, mentre il giorno del Sabato
Santo era forte l'odore della vaniglia, perché era il
giorno dedicato alla cottura dei dolci: ciambelloni,
crostate e pasta margherita.
Il forno naturalmente non era utilizzato
solo nel periodo pasquale ma tutto l'anno. Tutte le
donne una volta facevano il pane in casa e a volte
cuocevano anche la crescia al rosmarino, fatta con la
stessa pasta del pane, stesa in una padella con sopra un
filo d'olio e il rosmarino.
Era tutto così buono che una volta cotto
finiva prima ancora di raffreddarsi.
Davanti al forno c'era un grande sasso,
proprio sotto la finestra di casa della Irma, che
serviva per appoggiare le varie padelle. Un giorno
Ottavio "dia Delcisa" aveva appoggiato sul sasso una di
queste teglie in attesa di essere infornata, nel
frattempo la Irma ha svuotato il posacenere dalla
finestra, ricoprendo la crescia. Nessuno si era accorto
del fatto e la crescia è stata infornata.
Che risate quando è uscita cotta! Tutti
si chiedevano chi avesse potuto fumare dentro il forno.
Ad ogni modo, tolte le cicche, la crescia è stata
mangiata ugualmente!
La domenica di Pasqua si andava alla
messa rigorosamente a digiuno, come voleva la Chiesa.
Quel giorno era un'occasione anche per sfoggiare vestito
e scarpe nuove, chi poteva.
Il Natale era la festa più sentita dai
bambini. A scuola scrivevamo i nostri bei propositi per
l'anno nuovo in una letterina, che veniva poi messa
sotto il piatto del babbo durante il pranzo di Natale.
Verso il 15 di dicembre andavamo al "foss
dia Vali" a raccogliere il muschio, per noi e per Don
Arturo; partivamo in gruppetti con i "canestre" in mano.
Il muschio più ricercato era quello bianco, che si
trovava solamente al "Monte" -i Parioli di Cavallino;
questo tipo di muschio serviva per fare i monti e il
tetto della capanna. La capanna era fatta con i
"ciocchi" (pezzi di legno).
Per le figurine del presepe Don Arturo ci
regalava un foglio grande pieno di personaggi, che noi,
prima incollavamo su un cartone con colla fatta di
farina e acqua, poi ritagliavamo, lasciando in fondo un
piedistallo: erano bellissime!
L'albero di Natale era un ramo di
ginepro, tagliato sempre nella macchia "dia Vali"; non
era scintillante e ricco di luci come oggi siamo
abituati a vedere, perché noi appendevamo ai rami
caramelle colorate, mandarini, fichi secchi, fiocchi di
cotone, qualche nastro colorato e infine gli davamo una
spruzzatina di farina per simulare la neve.
La notte di Natale si andava a Messa, in
chiesa era freddissimo, noi bambini recitavamo davanti
al presepe le poesie natalizie imparate a scuola.
Il momento più bello però era il pranzo,
perché sotto il piatto del babbo si metteva la famosa
letterina.
Il babbo fingeva di non sapere niente e
non alzava mai il piatto, noi aspettavamo con
trepidazione perché, dopo averla letta e commentata, ci
ricompensava con pochi spiccioli, che per noi erano una
fortuna.
La Befana è la festa dei bambini. La sera
del 5 gennaio si cercava la calza più grossa del babbo e
la si appendeva al camino. La mattina presto si correva
a vedere cosa aveva portato la Befana e si gioiva
davanti a mandarini, caramelle, fichi secchi, "mignin",
golie, qualche pezzo di carbone, i giocattoli erano cosa
rara. A una di noi una volta è capitato di trovare un
ramo secco perché, quando faceva i capricci i genitori
la minacciavano, dicendo: "Te dag sa la ruschia"!
La pista da ballo al "Monte"
"La girandola" fuoco d'artificio alla
festa della Madonna
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Conclusione
II mio girovagare tra i vicoli e le
pia2zette di Cavallino si sta per concludere, ma sento
che mi manca qualcosa ancora da raccontare, qualcosa che
una volta faceva parte del paese: il rumore.
Il rumore della vita di tutti i giorni
che anche se stavamo in casa ci faceva capire cosa
succedeva fuori.
A partire dalla mattina presto, si
sentivano sbattere i bi-doncini del latte che portava la
Cleofe ai bambini, si sentivano i sospiri delle donne
che andavano a prendere grossi orci d'acqua alle
cannelle, il cigolio del carrettino di Alber-ton che
spazzava.
Più tardi si sentiva il rumore delle
donne che battevano il lardo per fare il soffritto, i
bambini che piangevano, che ridevano, che correvano per
i vicoli, battendo sui sassi con i ferri delle scarpe.
La gente chiacchierava sulle porte di
casa, alcune donne sbattevano i panni alle pozze. Si
sentiva la voce del postino che chiamava forte il nome
dei destinatari della posta.
Ogni tanto si udiva un urlo: "Cut!" dei
bambini che giocavano a nascondino.
All'ora di pranzo o di cena si sentivano
le voci delle madri che, dalla finestra di casa,
chiamavano i figli, mentre in lontananza si sentiva il
rumore del telaio della Prima e quello dei ferracci di
Ghiselli.
Ai miei tempi le vie ed i vicoli erano
senza nome, ma noi sapevamo come fare riferimento ai
vari luoghi:
"el Bossle" era l'incrocio dove passava
la corriera, "la Pa-chella" era un gruppo di case nelle
vicinanze, il resto dei vicoli avevano il nome di chi li
abitava: "el Vicol d'ia Ziffra", "el Vicol de Canavla" e
quello "d'ia Ligera".
Adesso a Cavallino sono rimasti
pochissimi abitanti, molte persone che vi abitavano sono
morte, altre si sono trasferite altrove. I miei amici
del paese e i miei compagni di scuola sono sparsi in
altri luoghi, i pochi che sono rimasti abitano in
casette di periferia, non c'è più il gruppo compatto di
una volta, chi più chi meno si vedono raramente.
Ora l'aia dei nostri giochi è diventata
un giardino, i locali annessi alla parrocchia sembrano
un piccolo residence, il "Palazzo del Prete" è scuro e
abbandonato come un rudere, non c'è più la scuola
elementare, non c'è più neanche un negozio che vende la
mortadella!
In compenso le vecchie case sono state
ristrutturate, i sassi sostituiti con selciati perfetti,
la strada di breccia è stata asfaltata.
Ora l'autobus del Comune passa a tutte le
ore, i lampioni si affacciano da tutti gli angoli, ma si
affacciano anche i pochi abitanti rimasti al passaggio
di ogni persona, forse sperano di rimediare qualche
chiacchiera o di sentire un po' di chiasso.
Non è più il mio Cavallino!
È rimasta l'Angela che, come faceva
sempre sua madre, si affaccia sulla porta e dice "Vuoi
un caffè?".
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