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ANTONIO FABI   Quinto Rulliano Valente

 

QUINTEIDE   RULLIANEA

 

SECONDA   PARTE

 

Presentazione di DANTE

 

Giovi a Rulliano questo mio sonetto:

 anche se, un tempo, preferì l’Ariosto

 ed altri dilettanti d’ogni posto

 or lo giudico figlio mio diletto;

 e, dunque, a Me  giustamente l’accosto,

 pel suo stile impeccabile, perfetto,

 immune da qualsiasi difetto,

 melodioso all’orecchio. Leggil tosto,

 pubblico colto, su video o papiro;

 e segui le avventure e le vicende

 di un sì nobile autor, ch’io tanto ammiro.

 Date retta: sono un che se ne intende;

 e tu, Rulliano, non mutare il tiro,

 pur se taluno, talora, s’offende.

 Ciò perché non comprende,

 essendo tanto zotico e  ignorante,

 né Omero, né Rulliano e neppur

                                                    Dante Alighieri

 

In ben più di duemila anni di vita

ho avuto varie volte la ventura

di viaggiare e combatter, con ardita

vigorosa passion, senza paura,

né pel corpo, seppur non sempre forte, 

né per la mente, che non mi si oscura.

Or vi dirò delle persone morte

con le quali ebbi modo di parlare:

erano vive, sveglie e, spesso, accorte.

Non dovete, plebei vili, pensare

che l’Ade corrisponda a quell’inferno

su cui, pel gusto di terrorizzare,

v’ ingannano, nel nome dell’ Eterno,

preti e muezzin, nemici del perdono,

contrapponendogli un mondo superno.

Quel ch’ io vi porgo è un gigantesco dono,

giacché riferirò, da buon pagano,

le vere realtà, per quel che sono.

L’oltretomba è composto d’ un sol piano,

dove scorrono Stige ed Acheronte,

come attestano Anubi,  Omero e Appiano.

Non è dunque attendibile la fonte,

cui fa cenno Virgilio in prefazione,

vale a dir l’Alighieri, che Caronte

ed altre nobilissime persone

vide effettivamente, e dice il giusto;

ma sbaglia, quando fa la divisione

in tre parti, creando gran trambusto,

tra Purgatorio, Inferno e Paradiso,

collocando, qua e là, secondo il gusto,

amici o detrattori. Fo buon viso

al generoso Ghibellin fuggiasco,

ché anch’Egli tante volte m’ ha  sorriso.

Ma rischierei   un grandissimo fiasco,

se non narrasi a voi la verità

mentre, col vero, i  miei diritti intasco.

E, per il vero, inizierò da là,

dove il lupo tricipite, ringhioso,

m’ accolse con latrati d’amistà.

Fu docile, tutt’altro che furioso

il buon Cerbero, pur incatenato:

mi annusò i piedi e un guaito gioioso,

un canone a tre voci modulato,

emise  tristemente il vecchio cane;

al punto che, avendo io risparmiato,

tra le provviste, più forme di pane,

ne gettai al grazioso animaletto,

con resti di bambini e di befane.

Proseguii, avanzando sol soletto,

passeggiando così, come mi piace,

quando un guerriero dal nobile aspetto,

dal corpo immenso e con occhi di brace,

mi fronteggiò col suo sguardo di fuoco:

egli era il grande Telamonio Aiace,

il qual mi disse: “Anche tu ti fai gioco,

come gli altri che qui sono discesi,

dei mie crucci; ma giocherai per poco,

poiché tanti ne ho già fermati e presi:

Odisseo la canaglia, Enea e un Toscano,

cui, per  voler del capo, grazia resi.

Ma quanto a te, che mi sembri un Romano,

sappi ch’è ormai finita l’amnistia

e che t’ucciderò con questa mano!”.

Ed io: “Possente  Aiace, che non sia

mai compiuto il tuo dir così tremendo:

sei più leal del tuo cugin di Ftia;

il tuo dolore immenso ben comprendo.

Dimmi, piuttosto, chi è che qui comanda

per ordine del Fato, poi m’arrendo.

Ma rispondi, di grazia, alla domanda;

anche perché, se tanto mi dà tanto,

potrei forse far sì che qui si spanda

un clima meno triste: un vero incanto

per te, pel tuo desio dell’armatura

del Pelide, al qual sempre eri accanto”.

Replicò il forte Aiace con misura

(posò l’asta di ventidue cubiti):

“Ti dico ch’è oramai cosa sicura

che il Divo Giulio legionari, opliti,

semidei, grandi eroi, perfin l’Alcide

governa, con Achille, e questi siti,

in quanto è scritto che giammai si vide

un imperator (così dicevate)

tanto forte e sicur: pari al Pelide.

Ma quell’armi, anche se, ormai, sono usate,

riuscirai a darmele davvero?

Bada, Rullian: non dire spacconate!”.

Ed io al Telamonide: “Il mio pensiero

è suffragato da molte sentenze,

che produrrò in giudizio per intero:

non solo massime, che son scemenze,

ma le motivazioni, per esteso,

vale a dir la più esatta delle scienze”.

Ne fu convinto e restonne disteso

quel grand’uomo, anzi quel robusto spettro:

volle pagar, ma nulla ancor gli ho preso.

La lancia sollevò come uno scettro;

mi congedò e quel che vidi appresso

nessun canterà mai con miglior plettro.

Scortato da un simpatico valletto,

che  dicea esser stato cavaliere,

venni condotto subito all’ingresso

d’un gran palazzo, centro del potere,

dove Cesare e Achille erano pronti,

gia informati, via fax, dal lor portiere,

a ricevermi, ansiosi pei racconti

che attendevan da me, ultimo  mortale,

ben più aggiornato di tutti quei tonti,

che prima avean salito quelle scale.

“Ave Caesar, ave divino Achille!

Sono un console  - dissi – un po’ speciale,

che, come voi, ha vinto più di mille

battaglie, scope, briscole e ramini,

conquistando città, popoli e ville”.

Ma Achille disse: “Lei non s’avvicini;

consegni, prego, prima un documento;

paghi il biglietto e non faccia casini”.

Al che rimasi piuttosto sgomento;

ma il Divo Giulio risolse il problema,

riconoscendomi e,  più che contento,

così parlò: “Il grande Achille non tema

questo visitator privo dell’arco.

Io lo conobbi, un tempo; ed il sistema

della sua strategia m’aperse un varco,

nelle mie tattiche  in tante battaglie.

Ascoltiamol, Pelide: ei non è parco

di preziosi consigli; e le canaglie

batte con l’armi e con la lingua; bada:

lasciando d’esse sol pezzi e frattaglie”.

Replicò il Pieveloce: “Se t’aggrada

non farò più nessuna opposizione:

sentiamolo e, poi, vada come vada”.

“Devo dirvi –iniziai – che la cagione

che mi ha portato qui, al vostro cospetto

è la curiosità; non v’è questione

diversa dal saper, pel mio progetto,

 chi qui comanda e chi vi ha comandato.

 Alessandro e Scipione sono a letto?

 Perché di loro nessuno ha parlato?”.

 Al che Cesare disse: “Come vedi,

 abbiam ripristinato il consolato:

 Achille ed io siamo gli unici eredi

 del potere divino che promana

 dal Fato, al quale tu certo non  credi.

 Ed hai ragione perché è una panzana;

 è più credibile  quel che d’Efesto

 sta in ciascuno di noi e tutto spiana”.

 Il biondo Tessalo aggiunse poi questo

 circa il Macedone; cose diverse:

 “Non fu Alessandro né saggio, né onesto,

 poiché, se pure è ver che giammai perse,

 fu autore d’un grandissimo e vil scempio

 quando diè fuoco alla reggia di Serse.

 Quanto a Scipione, egli è di buon esempio

 per tutti i carrieristi d’oggi e d’ieri.

 Passa il suo tempo tra la casa e il tempio

 e gioca a scacchi, spesso e volentieri,

 col grande Annibale, anch’ei non attratto

 dai troppi onori e dai troppi piaceri”.

 E Cesare: “Rullo, ora sei soddisfatto

 del nostro resoconto; ecco una biro,

 più la pianta dei luoghi e il mio ritratto.

 E, se per caso ti perdessi in giro,

 ti do il mio numero di cellulare:

 quindici tre quarantaquattro. Tiro

 ora la tenda, ché ho molto da fare

 col mio collega. Ora gira il villaggio

 e il numero, t’avverto, non scordare”.

 Tal colloquio mi diè viepiù coraggio:

 dopo uno sguardo alla preziosa mappa,

 m’avviai, fischiettando, con un paggio,

 che Cesare, per una prima tappa,

 m’aveva messo al fianco oltre a un  un ebreo.

 Ma dissi: “Andate,  la pipì mi scappa,

 e, da solo vagando, più mi beo”.

 Poscia, guardando meglio quel soggetto,

 lo riconobbi: era il grande Pompeo.

 Raggiunsi quindi un grazioso laghetto,

 poco profondo, da cui molte teste

 emergevan con un alto berretto.

 Qui, di colpo, sentii odor di peste

 provenir da quell’acqua non termale,

 ma pestifera, appunto. Con la veste

 turai il naso e domandai a un tale

 cosa significasse mai quel bagno.

 Ei mi rispose: “E’ il settore papale

 ed io sono Pasquino, né mi lagno

 di osservar da vicino questa scena,

 che conferma il mio scrivere terragno.

 Non provo, stanne certo, alcuna pena

 per questi falsi successsor di Pietro;

 anzi, il loro soffrir mi rasserena”.

“Mio buon Pasquin  - dissi  guardando retro –

ma chi è  quel  Papa che, nell’altre valli,

 sta con Mozart, Beethoven  (non più tetro),

 con Bach, con Cherubini e con Cavalli?”.

 “E’ un’eccezione  - rispose Pasquino –

 è un Papa buono: è Angelo Roncalli”.

 Salutata, con un perfetto inchino,

 la bella statua dal verbo pungente,

 proseguii, come un frate pellegrino,

 questo viaggio davvero sorprendente.

 Ma, girando d’istinto verso manca,

 mi afferrò il collo  una mano stringente.

“Credevi di potere farla franca?

 - mi disse Aiace simile a un Titano -

 Il tuo parlare gli occhi, invero, imbianca:

 tu sei un mentitor,  vile e marrano!”.

 Chiesi all’immenso eroe solo un minuto;

 e, tanto per salvare il deretano,

 chiamai Cesare: gesto molto astuto,

 perché questi rispose al primo squillo.

 Gli raccontai quanto m’era accaduto,

 ed egli, all’altro capo: “ Stai tranquillo;

 Achille dice che l’armi divine

 Aiace avrà fino all’ultimo spillo.

 Quanto a Odisseo, pel suo cervello fine.

 gli darem quelle d’Aiace d’Oileo,

 ignobil stupratore di bambine”.

 Il Telamonio un grande otre di lieo

 con un dito soltanto alzò da terra

 e, postolo su un masso disse: “O Deo!

 Delle mie sofferenze qui ed in guerra

 paga or lo scotto! Prendi questo nappo,

prode Rullian, ché la gioia m’afferra,

e non occorre svitare alcun tappo;

beviamo, dunque, alla mia redenzione,

ma facciam presto, poiché, dopo, scappo”.

Mi commossi per la consolazione

ch’ avevo procurato e per il gusto

provato dal figliol di Telamone.

Bevvi e compresi perché pure Augusto

gli avesse dedicato una tragedia,

scritta quando, oramai, era vetusto:

 non s’alzava dal letto e dalla sedia.

Per fortuna la lesse Mecenate

e la bruciò; ma pure ancor lo tedia.

Riprendo, dunque, le mie passeggiate,

usando la cartina cesariana,

con passo buono … e incontro Mitridate,

un celeberrimo voltagabbana,

d’alto ingegno, perché d’alto lignaggio,

che osò sfidar la potenza romana.

Mi riconobbe; poi, resomi omaggio,

mi rammentò le gesta di Lucullo

ed il suo ultimo terreno viaggio.

“Lucullo era leal, Pompeo era un bullo”,

 concluse Mitridate e accommiatossi,

dicendo ch’era atteso da un fanciullo.

Rimasi lì, pensoso, in carne ed ossi,

poi, sempre riflettendo, lento pede,

ripresi il mio cammino tra quei fossi.

Pervenni, se la mappa ancor fa fede,

a una radura dove, con sorpresa,

vidi – e mi fe’ piacer-  Glauco e Diomede.

Era in atto tra lor  grande contesa:

indossava il Tidide l’armi d’oro,

l’altro di bronzo, ed avea la pretesa

d’annullar quel contratto che tra loro,

sull’armi, appunto (il che non è un mistero),

presso Troia vi fu con gran decoro.

Diceva il forte Licio: “Sai ch’io ero

completamente sbronzo quella volta;

rendimi le mie armi, masnadiero!”.

E l’altro, bellicoso: “Tu l’hai tolta

senza pressioni mie, senza fattura,

la panoplia; e non fu una scelta stolta,

ché, per Giove! è notizia imperitura

che t’avrei fatto a pezzi col mio brando,

io che ho sconfitto Marte! Vuoi sventura,

sciocco barbaro asiatico? Sta andando

verso la fin la mia nota prudenza:

ti do un €uro, perché stiamo trattando”.

Vedendo me, Glauco esclamò: “ Eccellenza!

Venga lei a risolver la concione,

con una saggia, equa e giusta sentenza”.

Ma io non volli: “C’è la Cassazione

- dissi a Glauco  -   per quel che tu brami,

avendo già io espresso un’opinione.

E non occorre la legge “Cirami”

per far giustizia; pertanto mi astengo,

sussistendo dei dubbi sui legami

tra me e Diomede. In tal senso prevengo

ogni possibil forma di sospetto.

Ed or, processualmente, al dunque vengo:

a Achille  e a Cesare gli atti rimetto,

che, con Ciro, Hattusìlis e Ramsete,

Sezioni Unite, daranno il verdetto.

E tu, Diomede, via quelle monete!

Mettile in tasca:  sai che son leale:

 son giudice e stratego, non un prete.

 Ho dimostrato d’essere imparziale;

 e ti ricordo che l’ordinamento

 fa obbligatoria l’azione penale”.

 Il figlio di Tideo, senza commento,

 capì l’antifona di tale  segno.

 Ma, mentre Glauco stava poco attento,

 chiamai Diomede e, con fermo contegno,

 per non sprecare il mio lavoro invano,

 dissi: “Ragazzo, staccami un assegno”.

 Egli lo fece da onesto cristiano;

 e credo che il farà dieci altre fiate,

 né io rifiuterò: non son villano.

 Ma ora son le ventitré passate

 e pongo fine alla seconda parte,

 poiché le dita son già addormentate.

 La terza comporrò, se Giove e Marte,

 Apollo, le sue Muse e il saggio Ermete

 m’aiuteran, con Eracle – Melcarte,

 a far per Te, Lettor, rime ancor liete.

 

(Correzione aggiornata al 18/4/2003)