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La luce della pittura di Castellani

Floriano De Santi

III.  Realismo magico

Dopo aver saputo leggere con adesione profonda negli spartiti rutilanti del futurismo, il giovane Castellani aveva da mettere a frutto il patrimonio del suo post-impressionismo. Paradossalmente, negli oli Un giardino a Cesena del '17 e Ritratto della madre del '20, è ai fauves che guarda, non ai cubisti. Essi, per primi, avevano scoperto che il colore non è un elemento aggiuntivo col quale ricoprire, smaltare, vivificare uno spazio già creato dalla linea, dall'impianto prospettico dei volumi o dal chiaroscuro, ma esso stesso può essere posto in una situazione spaziale, che è creare lo spazio in un rapporto diretto.

Castellani ha sempre amato Matisse più di Picasso; il rapporto vero, anche se non subito apparente, lo ha con lui, e fin dagli inizi della sua nuova pittura tonale. Mentre Matisse, però, mette in moto una girandola sfolgorante di colori puri, e la sua luce è abbacinata, violenta, gridante, Castellani accosta, quasi timidamente, in un sommesso mormorio, colori tonali, nei quali cioè la luce è soffusa, lenta, misteriosa e non si sa dove nasca se non da una sorgente sprofondata alle estreme radici della materia e affiorante, uniforme e smorzata, dopo aver attraversato oscuri spessori.

Preso l'avvio da quella Erfindung, dall'invenzione di Matisse ridotta alla misura delle sue necessità spirituali, Castellani inizia la serie infinita delle variazioni tonali. Resterà sempre miracoloso a vedersi il modo come la materia vive in capolavori quali Canale della Giudecca del '27 e Venezia, San Vidal dell'anno seguente, come assorbe ed emette la luce; come vibra sottilmente il colore; come sull'accordo della scala cromatica, si alza un tramando misterioso di sensi, si propaga un vibrare delicato di luci, si accampa solenne «il limite in cui le cose diventano altre (non dico ambigue, ma la loro realtà diventa, con un breve scatto, magica, e proprio la chiarezza della loro individuazione aiuta le liriche metamorfosi)»  (12). I toni vivono uno in funzione dell'altro, si rispondono a distanza, si modificano negli accostamenti, creano così l'unità dell'opera, la sua atmosfera e il suo spazio emotivo che in questa stagione veneziana si accosta per certi versi a quello di Virgilio Guidi.

Mentre in tutta l'Europa la pittura approda sulle secche di un classicismo ricostruttore della forma, che sembra voler portare salvezza e ordine ai tempi perigliosi e caotici, Castellani, insieme a pochi altri, fa il più lungo passo possibile nella direzione contraria. Gli anni erano, in Italia, quelli dei «Valori plastici», poi della «Ronda»; si stava preparando il «Novecento», nasceva il fascismo. E tutti questi fatti, tra i quali corrono più strette connessioni di quanto solitamente non appaia, formavano una Stimmung culturale che, pur trovando il suo parallelo e forse la sua giustificazione in quella europea, ne rimaneva però superata quanto a impegno morale e risultato stilistico. Anche certe imprese, che potevano recare qualche autenticità di nascita, come «Strapaese», erano viziate dal «richiamo all'ordine» mussoliniano, dalla paura che si producessero turbamenti.

 

Il lungo lavoro per produrre un'opera d'arte
Disegno, 1921, mm 194 x 152 .  Valori geometrici nel movimento di una stiratrice. Idem .  Valori geometrici nel movimento di una stiratrice.

Studio dei valori geometri del movimento di una stiratrice, 1918-19, disegni

Studio più dettagliato, 1928

Opera finale (CLICCA)

 

Comincia pure per Castellani una breve stagione di quadri «neoclassici» o, meglio, di «realismo magico», nei quali ogni cosa è immobile in un equilibrio così arrischiato che basterebbe un soffio a interrompere. Nell'Autoritratto del '25 e nel Ritratto di bambina del '27 non c'è solo la purezza dell'antica pittura italiana o la sostanza solida di una forma portata alla sua definizione più assoluta - come è stato ovviamente detto - ma anche, a volte, penetrato dagli interstizi di uno spazio che sembrerebbe a tenuta perfetta, l'alito leggero e inquieto di un'atmosfera magica. In queste e in altre opere (tra cui giova ricordare Ritratto del padre del '26 e Le stiratrici del '28, esposto quest'ultimo alla XVII Biennale di Venezia) (13), la linea percorre il colore gèmmeo e mentale separando nelle figure quanto, al contrario, è continuo nella tensione policroma del fondo.

Ciò avviene separando le silhouettes, o non piuttosto facendo vibrare in una tensione unica, in un campo magnetico metafisico, in obbedienza plastica complessiva, l'accidente oggettivo?  Qui traspare il gran lavoro, l'intrinseca fatica di Castellani che cerca il proprio definitivo ubi consistam. il realismo magico, sì - fino allo stilema Le tre donne, dipinto ad olio smarrito«serenamente classico» (14) del Ritratto di famiglia del '26 -, e la tradizione tattile toscana sino al divino Piero, ma anche, io direi, la lezione del cézannismo «corretto» di Derain: presente sotterraneamente in una simile pennellata che all'uscita vittoriosa dall'esercizio accademico vibra magmatica di tutta una manualità che si fa mentale. È infatti la mano della mente - se posso osare - che deposita sulla tavola Pietà del '26 una pennellata a tocco breve, sfrangiata nell'esito d'insieme (lo schiumare ad esempio di un amarissimo prato nelle Tre donne del 1926-'27). Un lieve strascico del pennello, denso di pigmenti profondi schiacciati per ogni dove sulla tela, agitato in ogni direzione ma non insistito nel suo percorso, che era di Derain e che qui trova il limite alla propria esaltazione in quell'«ordine plastico» nel quale frattanto si era andato annidando un mistero metafisico che aveva condotto il nostro pittore fin lì: a scoprire il mistero della natura «nelle sue cause».La scuola del pittore, 1927-28, olio su tela, mm 1200 x 840.  Rimane solo una parte.  (CLICCARE QUI PER VEDERLA)

È un rovesciamento, un revirement di termini risaliti lentamente fino alle fonti. Mentre la natura proseguita nella sua effettualità produce un'impressione, la natura risalita dalla sua casualità produce il valore duraturo di una cromia che si sta ideando mentre rimonta alle fonti stesse della visione. Ed è da dire che nell'idea in fieri la visione si stacca dalla mera casualità del motivo naturalistico. Ma bisogna aggiungere che in Castellani tale risalita alle fonti non implica un movimento progressivo quanto, nella sua lentezza razionale, una progressiva presa di coscienza storica, che serve non ad aderire con «grande autorità» al movimento del «Novecento» - come qualcuno sin troppo frettolosamente sostiene (15) - bensì a creare l'impianto della composizione per calarvi forme solide, indistruttibili, ben definite.

San Leo, 1928, disegno, mm 217 x 287In anni così difficili di restaurazione formale e moralistica, Castellani si pone con la sua tavolozza contro le pompe e le tendenze del tempo, a toccarne invece la vera anima, per cammini liberi, ma misteriosi e nascosti. Inventa lo spazio, la materia, la luce, l'armonia dei toni: diventa arcaico (La creazione dell'uomo e Le offerte di Caino e Abele, entrambi del '26), a volte malinconico (Le bagnanti del 1926-'27), avvicina figure combuste, dall'ombra contro lo schermo del fondo che ha assorbito i bagliori soffusi di una notte chiara, come per un colloquio di evocazioni fantastiche (La favola del '27); dissolve parvenze leggere, fuggevoli nuances delle cose, nel dolce lume del mattino (la serie Impressioni del 1928-'29); fa trascorrere onde lucenti sulla delicata superficie dell'acqua di mare (Venezia, 1926); schiaccia e distende gli alberi sui muri, i muri sul cielo, in un intarsio ricchissimo di toni digradanti, verdi, bruni, rosa, celesti (Case a Stra del '28 e Le rocce di San Leo del 1928-'29). Ogni cosa ridotta alla sua essenza poetica e significante al di là della propria sostanza, capta il movente primigenio che aziona l'immaginazione del pittore e la sorregge nella ricerca di un fare analogico capace di trascrivere, nel tempo immobile della pittura, il tempo in divenire dell'esistenza naturale.

 

(12) Marco Valsecchi, Le sirene in città, Il Giorno, 23 marzo 1968.

(13) Castellani ha partecipato con dipinti ed acqueforti alle biennali di Venezia del '26, del '28, del '30, del '34, del '36, del '48, del '52, del '54 ed, infine, del '56.

(14) Silvia Sassi Cuppini, Leonardo Castellani e la pittura, “Notizie da Palazzo Albani”, n. 2, Urbino, 1985, p.29

(15) Pietro Zampetti, Pittura nelle Marche, Firenze, Nardini Editore, 1991