SAGGI CRITICI |
Il chiarore nel profondo
di Umberto Palestini
(Curatore della mostra e del catalogo)
Il richiamo del mare è un punto fermo della mia anima:
il suono granuloso della risacca,
la superficie infinita del mare che brilla di luce propria...
Pavel Florenskij
Athanor è un cerchio dal cuore oscuro dentro il quale si sviluppano bianche e impalpabili tracce di fumo. Combustioni e candide volute delimitano l'oscurità trasfigurando lo spazio nell'iride mutevole di uno sguardo interrogante,
0 nell'oblò, offerto alla vista, durante viaggi interiori su imbarcazioni veleggianti nella notte. Il termine athanor rimanda allo strumento-cardine della tradizione alchemica, dove gli impuri metalli si trasformavano nel lucente oro, ma anche, secondo la concezione del pensiero ermetico, allo spirito umano e alla sua volontà di congiungersi con le forze universali per raggiungere il modello di una superiore sensibilità etica: un mezzo di purificazione e un laboratorio per la ricerca della luce interiore. Metafora di uno strumento speculare all'indagine pittorica di Ettore Frani, incentrata sull'eliminazione delle scorie tese ad occultare l'essenza per far risplendere le infinite modulazioni delle corrispondenze.
1 recenti lavori dell'autore ribadiscono alcuni temi nodali affrontati da sempre con rigore estremo: la spiritualità e il mistero, l'eterno andare e la fascinazione dei miraggi, l'incessante cammino dalla tenebra al candore, l'energia in perenne mutazione e i luoghi dell'essere, l'illuminazione e il segreto racchiuso nell'ombra. Il modello espressivo di Frani si nutre di sottrazione, della scarnificata essenzialità che diventa mistica del visibile e segue la via di una rarefatta atmosfera in costante dialogo con l'immagine. Un linguaggio in bilico tra astrazione e figurazione, materializzato in opere dove approdano il lirismo e i panorami essenziali della poesia. Tradotto con mezzi ridotti al minimo e cromatismi distesi su tonalità che accolgono, oltre al bianco e nero, accenni di sfumature seppiate, l'universo evocato dall'artista, nella sua coerente unità, non cade nella trappola dell'uniforme, ma dispiega un arazzo composto da molteplici variazioni e accenti.
In Autoritratto come specchio egli crea uno spazio pervaso dall'oscurità, un grumo bituminoso cosparso di polvere e impurità dai contorni smerigliati, irradianti freddi riflessi ferrosi come in un Odilon Redon astratto. Uno spazio dell'inquietudine dove le presenze sono ostaggi raffigurati nel tentativo di divincolarsi dalle tenebre lacerando la superfice per illuminarsi con accecanti contrasti, o sono masse informi appena rischiarate da flebili luci, cherubini della notte galleggianti dentro opachi abissi. Possibile balsamo, una figura femminile dagli occhi chiusi, persa dentro visioni che conducono all'estasi; ritratta in modo evanescente, mostra una sensuale spiritualità priva di enfasi teatrale, mentre un chiarore sceso dall'alto ne rischiara il volto. Nell'opera Radura la luce rivela una porzione di prato erboso, altrimenti inghiottito dentro una carbonizzata atmosfera. Le radure torneranno nei lavori di Frani echeggiando lo spirito heideggeriano che lega lo spazio, dove gli intricati percorsi boschivi si diradano per offrire impreviste aperture alle illuminazioni: un territorio di svelamento dell'essere slegato da ogni identità topografica e trasformato in luogo mentale, avventura spirituale.
L' Autoritratto del 2007 segna una svolta. L'oscurità lascia il posto ad una texture solcata da striature impalpabili, tra l'affresco e la sindone. La ricerca si concentra sulla tecnica della velatura e apre la strada alla creazione di panneggi concepiti come sipari chiusi sul mistero del mondo. Saranno lente e meticolose stratificazioni pittoriche radianti a donare al reale un riparo contro la brutale crudeltà dell'evidenza. Un risultato formale che in Audi, filia si lega all'ascesi cristiana richiamando il trattato cinquecentesco di San Giovanni D'Avila in cui il tema della purificazione diventa centrale. Le superfici velate si rivestono di impronte e macule, di tracce trasudanti umori: sedimenti di una liturgia che, nell'unzione, riveste il gesto di un valore consacrante. L'artista è l'adepto, il servitore di uno sguardo mosso dal desiderio di contatto, che anela alla religiosità in grado di accogliere l'Altro, in un eterno percorso di avvicinamento. Il velo si rende permeabile e compaiono, trasfigurati, i "viandanti", uomini in cammino dentro universi senza confini in cerca di loro stessi mentre inseguono le tracce e i disegni del Divino; avventurieri dello spirito alla scoperta delle prime radici, le fondamentali ragioni dell'esistenza. L'ininterrotta erranza è nutrita di attese e di apparizioni capaci di infondere lo stupore generato dall'approssimarsi al nucleo pulsante del sacro. L'immagine, varcata la soglia del figurabile, dispiega le ali e fa risuonare lo spazio attraversato dall'energia segreta del trascendente. Questi incontri schermati allontanano con grazia la decifrazione definitiva e offrono l'incanto di una fede che non teme i misteri trovando dimora nella complessa articolazione formale dei dipinti.
Con i polittici Ettore Frani compone una straordinaria partitura visiva dialogante con le architetture degli antichi retables, opere-scrigno aperte alle molteplici interpretazioni. In Terra Luce Latte, la parte esterna, costruita sull'essenziale scansione di uno spazio rischiarato da un luminoso orizzonte lontano, regala la silente meditazione sull'eterno in sintonia con le sottostanti predelle dove immensi panorami esprimono la magnificenza del creato. L'atto istintivo che porta ad aprire le opere ne svela il cuore segreto, rende i polittici soglie poetiche, diorami interiori vivificati dall'energia propulsiva del vento o da moti ascensionali sorti, come magiche epifanie, da acque calme. L'immagine regna sovrana, e diventa il soggetto di un inedito interrogare in cui articolate volumetrie provocano impreviste relazioni e incrociano nuovi percorsi di senso. La struttura dei polittici permette all'autore un costante intreccio di motivi, temi, figure e sviluppa un circolare eterno ritorno di continue emersioni, abbandoni, riprese iconografiche. I bianchi veli, simbolici atti di nascita, mutano in respiri, nel soffio vitale che permette alla pittura di essere scoperta di un'autentica realtà "altra", secondo la visione di Pavel Florenskij. Gli elementi iniziano a danzare, si affidano alle turbolenze dei venti impetuosi, vengono accarezzati da refoli leggeri descrivendo la forza vivificante degli spiriti aerei. In Attrazione celeste il moto ascensionale si libra verso luminosità zenitali. Micro particelle d'acqua, liquide perle illuminate da una luce sovrannaturale, sono attratte da un'energia travolgente, scalano invisibili pareti e conducono lo sguardo al cielo. Questi lavori rendono l'acqua un emblematico riflesso dell'anima e richiamano nel titolo l'espressione coniata dalla poetessa Marina Cvetaeva nella cui poesia Boris Pasternak aveva visto spalancarsi l'abisso di purezza e forza; parole che definiscono la sentita traduzione visiva concepita con raffinato splendore da Ettore Frani. Da questo momento la verticalità ascensionale si misura con l'universo permeato da una potenza inestinguibile, segno del nuovo sentimento espresso dall'artista verso l'umano e la Natura. Appaiono figure dal volto celato, sfumate in bianchi vapori o rivolte ad ombrose prospettive. Scintille e braci, distesi flussi di immense marine e risacche della memoria, nidi intrecciati con amorevole cura, picchi rocciosi e cime inviolate, vortici tumultuosi di piumate leggerezze invadono lo spazio e manifestano una poetica colma di desideri e gravide promesse.
La ricerca di Frani esprime il sentire di un autore totalmente devoto alla sua missione, un amanuense dello spirito intento a trascrivere l'incommensurabile profondità dell'origine, che sembra ritrovare nel trittico Fortezza quel cristallo di respiro in perenne attesa in fondo al crepaccio dei tempi, per dirla con Paul Celan. Nel percorso di avvicinamento al prezioso dono della spiritualità, l'artista, custode del segreto, esplora i territori dove l'assenza non dialoga con il vuoto, semmai, con il nulla da cui proviene il tutto, con l'ineffabile espresso da un'immagine originata dall'interiorità. Frani si fa guardiano dell'indicibile e materializza sulla superficie universi abitati dalla profondità. La sua indagine si nutre dell'inattuale gesto che appartiene alla religiosa devozione del monaco; il gesto totale... a occhi chiusi, dentro il mondo descritto da Claudio Parmiggiani.
Quest'ultimo lega l'arte, l'acqua e il profondo quando dichiara: l'arte è come l'acqua... si spiega con l'acqua... Guardare dentro un'opera è come osservare sé stessi sulla superficie dell'acqua; tutto è chiaro e tutto è nel profondo. Il chiarore cercato nel profondo descrive perfettamente la pittura di Frani, il quale fa incontrare arte e filosofia, riveste l'immagine d'incanto poetico, esprime la religiosità inscritta nell'imperativo morale. Un atteggiamento ispirato alla concezione del mondo che rinnega l'esibizione plateale dell'opera e le usurate categorie estetiche, per sintonizzarsi sulla spiritualità quale nutrimento per la vita interiore. Anche Andrej Tarkovskij, parlando del suo capolavoro, Lo specchio, sottolineava come il fine fosse mostrare gli elementi morali insiti nell'arte e nella vita e quelli che, in senso filosofico e non estetico, riguardano l'atteggiamento dell'arte nei confronti della vita. L'opera si trasforma così, per chi la realizza e chi l'osserva, in una sorta di atto morale purificatore.
Con la sua arte Ettore Frani ha sempre cercato di rendere concreta l'esperienza della purificazione percorrendo la strada che conduce l'anima vagante alle fonti originarie, dove l'uomo potrebbe placare la sete d'assoluto. Una pittura orientata, secondo le ispirate parole di Edmond Jabès, verso le sorgenti... per trovare il varco del proprio avvenire.
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Ettore Frani: verso l'esperienza del mistero e delle sue intuizioni
di Leonardo Bonetti
Una delle interrogazioni che ricorrono di fronte alla pittura di Ettore Frani, dentro al cuore della sua rivelazione, è se l'opera sia, nella sua essenza, una manifestazione simbolica o, al contrario, una pura concentrazione ermetica. Se, cioè, la sua proliferazione immaginale agisca come un rinvio a questioni che affondano nel mito secondo costellazioni già sperimentate o, per converso, rappresenti una prova colloquiale, un brano intrinseco al mistero dell'essere, alla sua esperienza cogente, vivissima, insondabile.
Il motivo per cui la prima ipotesi si mostra da subito come incongrua o, con ogni evidenza, insufficiente, è legato al fatto che nelle opere di un'artista come Frani, il più antico tra i moderni, si concentra tutta la potenza di una visione parziale e incondizionata. Un lacerto o brano rivelato sin dal suo nascondimento, a partire dalla negazione della sintassi, del procedere per premesse e conseguenze. Un metodo ellittico, il suo, capace di proiettare dentro l'ambulacro di un edificio immaginale una luce che permea i soggetti, li illumina e ne scaturisce intimamente. Un quadro-camera oscura dove la visione si compone come parte di un tutto. Ricettacolo di vita geologica, risultato di movimenti nello spazio e nel tempo in vista di un segreto sub-naturale all'incrocio tra mistero ed esperienza, cornice di irrealtà capace di renderlo immortale.
E l'assunto, allora, è questo: vive, in ogni opera di Ettore Frani, un'intuizione e non una profezia. La sua arte non parla del mistero o per il mistero, ma sgorga direttamente dall'intuizione della sua esperienza. C'è, in queste opere, tutte, dalla prima fase tra specchio e velo, alla seconda dei panneggi, sprofondata oltre il nascondimento, alle ultime di Terra Latte Luce e di Attrazione celeste, un furore e un movente profondo che conduce all'esperienza del mistero e delle sue intuizioni. Tanto che lo spazio in cui si apre per soddisfarne l'attesa non è una struttura vuota o, ancor peggio, astratta ma, semmai, l'estensione metafisica della sua intuizione, la sua dilatazione in profondità, regione interiore in cui viene calata l'esperienza dell'inesprimibile.
Materia di questa estensione è, fondamentalmente, la luce. C'è infatti una morbidezza, una ariosità, una fusione impalpabile di ombre radiose proprio lì dove il nero è pregno di luce. E l'emozionalità dell'opera non si risolve in un gesto definito, in un moto esatto; semmai nell'immagine dei moventi, delle spinte spirituali profonde. Per questo siamo ancora all'interno della caverna dell'essere, sebbene in attesa e sulla soglia. Si tratta di una luce senza progetto, è ovvio, tutta interna allo sviluppo dell'esecuzione. Come se la velatura vincesse sulla prospettiva. Ma è una luce fattasi aria, densità luministica, atmosfera e corpo, intransigenza di forme. Perché spazio, tempo e luce raggiungano uno stadio di fusione paragonabile a un assoluto relativo, punto d'arrivo di un percorso artistico ed esperienziale insito in ogni opera.
La prospettiva, in questo contesto, non si rivela nella geometria delle linee ma nei rapporti di luce dati dalle sue velature. Lo testimoniano gli orizzonti alti, mai concepiti come panoramiche distese, prospettiche. E che rappresentano una materia nobile, vicina alla sostanza interiore dello spazio e della luce. Formando un piano che non ha spessore di superficie e non si oppone alla concentrazione della luce, ma la trattiene solo quanto basta per restituirle una sottile frequenza di vibrazione. Uno spazio profondo e aperto dentro la caverna del sub-naturale in cui si è immersi senza riparo dentro l'esperienza della visione.
L'antitesi di profondità e superficie non si dà come tale, ma come proporzione di valori non oppositivi. La luce è spazio senza intenzioni. Mentre le figure, testimoni di una visione annunciata e in fieri, capaci di imprigionarne le risonanze, ne sono attraversate, riempite; materia opaca, energia accumulata e compressa che si disperde nel gioco di superficie e profondità.
E la dimensione dell'essere a rappresentarne l'essenza fondamentale; l'ombra un piano inclinato di irradiazione. Figure illuminate dall'interno che danno il senso della loro verità, della loro essenza. E che, in questo spazio e in questa luce dalla medesima natura profonda, si comportano allo stesso modo. Figure che non occupano lo spazio, che non lo colonizzano ma, semmai, vi sbocciano come escrescenze colme di estensione. E il cui motore è una luce più piena, più insondabile. Così che il loro mistero chiama a farsi sperimentare nelle forme stesse dell'essere.
Il colore, altresì, o l'assenza del colore, si costituisce nelle opere di Frani come una media interiore tra due tonalità, tra due timbri. Vi si gioca la proliferazione delle intensità luminose atte a descriverne i fenomeni per una rivelazione di unità assoluta, immutabile.
Il tempo si fa spazio, fino ad escludere ogni successione. Le zone d'ombra vere e proprie macchie d'aria, lo spazio aperto un fondale immerso e, persino, sprofondato nell'opera, caverna dell'essere. Opera che a volte si pone sulla soglia, sul limite estremo oltre il quale rischia la negazione di se stessa. Linea oltre la quale la luce si spiegherebbe come elemento puramente naturale. Quando è invece in questa caverna dell'essere, in questo ventre metafisico, che le due tonalità sprigionano il loro senso più profondo. Universo senza colore, dove persino le sfumature più sottili, estensione delle verità intrinseche all'essere, incarnano un'origine fervida, cupa, inquieta.
Ma è proprio nel tempo e nello spazio che prende corpo il senso musicale dell'opera di Frani, a partire dal silenzio e dal tono interiore. Un rumore di preghiera e di trionfo, un'armonia condotta sulla traccia della caduta e dell'elevazione. Esattamente ciò che accade in Terra Latte Luce I1L, dove a una predella assorta nel silenzio e nella lontananza, si impone il fragore della resurrezione, cateratta d'acqua risorgente. E, con impatto visivo ancora più assordante, YAttrazione celeste, vero paradigma dell'esperienza artistica dell'ultimo Frani, punto d'arrivo tra i più riusciti nella sintesi tra sguardo, luce e suono.
Tutto ciò secondo due direttrici essenziali, nel tempo e nello spazio. Perché è proprio questo movimento impalpabile a tradurre musicalmente il discorso pittorico di Ettore Frani in ritmo e in altezza. La pioggia come caduta ed elevazione, dai toni gravi del basso a quelli acutissimi dell'alto, per arrivare al ciglio di tenebra e luce, nota caparbia e lunga sotto il contrappunto della stellata, vero e proprio sciame sonoro e cristallino. Mentre il ritmo rilancia da profondità aeree, dal vicino al lontano perfettamente intersecantesi nell'alto e nel basso. Tanto che ogni particolare risuona nell'alternarsi di prossimità e distanza.
Così Fortezza, montagne imperiose risorgenti dalle tenebre della coscienza, tra nebbie risalenti: la grande Torre del Pakistan. E al suo fianco le due Comunicande, donne dopo il bagliore. La prima svuotata, adusta, folgorata; l'altra spirante verso l'alto.
E ancora Sorgente: tela di bianco, bagnata, unta dal basso, nel centro. Corpo su coronamento, o predella nera, con acqua che cade e risorge; mentre nell'alto precipita una luce irreale. Emanata dall'acqua stessa. Radiosa.
Quindi Palpebre, quadri dipinti ad occhi chiusi. Ombre umane nel bianco. Sul retro, chiusi alla visione, nascosti allo sguardo, due cieli stellati, visti con gli occhi della mente, secondo un vero e proprio rovesciamento della prospettiva. Cieli senza occhi, da cigli erbosi, da ciglia interiori. Che sprofondano, catapultano nelle trincee dell'essere durante la notte, prima del lancio dei traccianti, prima dell'incursione, della raffica, dell'abbattimento. Ascensione di luce verso l'alto. Stellata fittissima. Moltitudine squillante, argentina.
Per arrivare, infine, ad Athanor, origine ultima, principio e fine, quadro circolare. Il barattolo del pittore visto dall'alto, come vaso alchemico, colore nero stemperato in acqua-resina, in gomma-ragia, vero luogo, per ogni artista, di tutti i nascondimenti, di tutte le rivelazioni.
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